Editoriale n. 3/2015

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Giusto Puccini

Anche al di là di certe più immediate apparenze, la serie di saggi pubblicati in questo numero della Rivista risulta contrassegnata, nel suo complesso, da un comune denominatore tematico senz’altro meritevole di particolare considerazione.

Esso, infatti, attiene ad un genere di questioni di grande attualità e, insieme, di notevole rilievo dal punto di vista dello studio delle fonti del diritto, le quali del resto, non a caso, hanno già ripetutamente e ampiamente formato oggetto di trattazione nei precedenti numeri della Rivista: le questioni inerenti cioè all’impatto che la riforma costituzionale attualmente all’esame del Parlamento sarebbe eventualmente destinata ad avere sull’assetto del nostro sistema delle fonti, e sulle sue concrete modalità di funzionamento.

Peraltro, vale la pena osservare come tutti i saggi qui considerati, in modo più o meno diretto, più o meno esplicito e più o meno consapevole, chiamino in causa una serie di profili problematici diversi da quelli che, in materia, hanno finora campeggiato nel dibattito scientifico, e che hanno avuto per oggetto, in specie, le novità inerenti alla disciplina del procedimento legislativo statale, alla tipologia delle leggi parlamentari, alla disciplina della decretazione d’urgenza, a quella dei rapporti fra leggi statali e leggi regionali e a quella degli istituti di democrazia diretta, a cominciare da quello referendario.

La maggior parte dei saggi in esame, intanto, viene esplicitamente o implicitamente ad introdurre, in materia, un’ulteriore questione: quella dell’adeguatezza o meno del testo di riforma costituzionale in tema di qualità del linguaggio normativo.

Si tratta dei saggi di Federigo Bambi, Paolo Caretti, Pasquale Costanzo, Antonio Ruggeri e Roberto Zaccaria, nei quali il tema predetto viene affrontato e sviluppato, con riguardo al nostro ordinamento, in una prospettiva ad ampio raggio.

Ebbene, dall’insieme di tali saggi emerge in proposito una valutazione alquanto positiva del testo originario della Costituzione repubblicana, e, all’opposto, una valutazione alquanto negativa sia della nostra legislazione ordinaria che della nostra legislazione di revisione costituzionale, e in specie di quella ancora in fieri.

Il primo tipo di valutazione si ritrova, appunto, nei saggi di Bambi, Caretti e Ruggeri.

Certo, nel saggio di Bambi non si manca di rammentare la critica rivolta da Piero Calamandrei, all’interno della stessa Assemblea Costituente, al difetto di “lealtà” proprio della formulazione testuale di taluni articoli della nostra Costituzione. Critica alla quale, del resto, viene qui spontaneo affiancare quella particolarmente aspra al tempo formulata dallo stesso Calamandrei nei riguardi dell’espressione “Repubblica fondata sul lavoro”, laddove egli si domandava apertamente, “come giurista”, che cosa avrebbe mai potuto dire ai propri studenti dovendo spiegare loro il significato di un’espressione del genere.

E tuttavia, nel medesimo saggio si mira altresì a sottolineare come, alle spalle dell’elevata qualità linguistica complessivamente riscontrabile nel testo costituzionale, vi fosse un elevato grado di consapevolezza dei maggiori protagonisti dei lavori della Costituente, a cominciare da Meuccio Ruini, circa il fondamentale rilievo di una qualità del genere in ordine alla capacità del testo costituzionale di esplicare a pieno la propria efficacia innovativa. Consapevolezza che si espresse in particolare, da un lato, nella costante dichiarata preoccupazione di utilizzare un lessico ed una grammatica il più possibile aderenti ai canoni del linguaggio comune, e, dall’altro, nel concreto affidamento del compito di revisione stilistica del testo a taluni valenti letterati presenti sui banchi della stessa Assemblea.

Al tempo stesso, nel medesimo saggio, si tende a ridimensionare il peso ed il significato della critica linguistica di Calamandrei, evidenziandosi come essa sottintendesse essenzialmente il timore che, attraverso le norme costituzionali programmatiche, venissero a formularsi, al pari di certa legislazione tipica del regime fascista, promesse impossibili da mantenersi. Timore che, verrebbe da aggiungere, andava altresì a combinarsi con la nota pregiudiziale avversione dell’illustre giurista fiorentino nei riguardi del compromesso tripartitico maturato in seno alla Commissione dei Settantacinque e, conseguentemente, nei riguardi di qualsiasi formula linguistica che di quel compromesso potesse costituire in qualche modo espressione.

Analogamente, nel saggio di Caretti, prendendo spunto dagli studi effettuati al riguardo dal linguista Tullio De Mauro, si rileva che la diffusa considerazione circa il “progressivo deperimento della qualità del linguaggio giuridico […] trova tuttavia un’eccezione importante nel linguaggio del costituente”.

E un analogo giudizio positivo sul linguaggio del Costituente, ancorché riferito soltanto a talune norme-cardine della Costituzione, sembra altresì emergere dal saggio di Ruggeri.

In esso, appunto, si perviene alla conclusione secondo cui il quid proprium del linguaggio costituzionale, che distinguerebbe quest’ultimo dal linguaggio legislativo, potrebbe esclusivamente individuarsi nelle norme costituzionali espressive dei principi fondamentali, in quanto dotate di “una pregnanza assiologica che nessun altro enunciato possiede ed è in grado di esprimere”.

A una simile conclusione, d’altro canto, viene ad associarsi quella secondo cui gli enunciati inerenti ai principi fondamentali della nostra Costituzione, e segnatamente quelli contenuti negli artt. 2 e 3 Cost., si sarebbero storicamente rivelati quanto mai efficaci, assecondando, entro un quadro di estrema “apertura” del nostro ordinamento costituzionale, una tutela sempre più intensa e sempre più estesa dei diritti fondamentali.

A fronte di tutto ciò, per converso, in quasi tutti i saggi qui considerati viene energicamente sottolineata la diffusa scarsa qualità del linguaggio del legislatore ordinario.

In particolare, nel saggio di Zaccaria tale sottolineatura viene corroborata mediante la testuale riproduzione di taluni pareri espressi su testi di disegni di legge ordinaria dal Comitato per la legislazione operante presso la Camera dei Deputati.

Nel saggio di Bambi, d’altro canto, si rileva come lo stato deplorevole della lingua delle nostre leggi appaia addirittura paradossale, ove si tengano presenti “i manuali e le tecniche e le norme di redazione delle leggi e i vari apparati e programmi elettronici d’elaborazione”.

Nel saggio di Costanzo, poi, si pone criticamente l’accento anche sul lessico e sulla fraseologia frequentemente utilizzati negli stessi titoli dei decreti-legge, laddove questi ultimi sembrano trovare uno scarso riscontro nel testo dei relativi atti, e paiono piuttosto rispondere allo scopo, di natura puramente comunicativa, di “indorare la pillola”, se non addirittura di “alzare una cortina fumogena sulla realtà normata”.

Infine, anche alla luce di siffatte considerazioni positive sul linguaggio del Costituente e negative, invece, su quello del legislatore ordinario, nei saggi di Caretti, Costanzo e Zaccaria vengono a individuarsi, nel testo del disegno di legge di riforma costituzionale attualmente all’esame delle Camere, un duplice ordine di carenze dal punto di vista della qualità del linguaggio normativo.

In primo luogo, si fa riferimento a non trascurabili carenze di ordine prettamente formale, la cui effettiva sussistenza, invero, appare difficilmente contestabile.

Sotto questo specifico aspetto, nel saggio di Caretti si osserva che la lingua del testo in questione “risente, in modo a volte imbarazzante, non solo della difficoltà di trovare i necessari compromessi politici su alcuni snodi fondamentali, ma della scarsa competenza linguistica degli estensori del testo”.

Nel saggio di Zaccaria, inoltre, viene testualmente riportata un’ampia serie di severi rilievi critici formulati sul medesimo testo, sotto il profilo linguistico, nel relativo parere del Comitato per la legislazione.

Nel saggio di Costanzo, per altro verso, si sottolinea criticamente l’eccessiva accondiscendenza nei riguardi delle pure e semplici esigenze della comunicazione pubblica riscontrabile nella stessa “complessa formulazione” del titolo del disegno di legge.  

In secondo luogo, si fa riferimento ad una carenza di ordine prettamente contenutistico.

Nel saggio di Zaccaria, infatti, si constata con rammarico come “nella modifica del testo costituzionale […] si sia pensato tanto alla snellezza dei procedimenti, ma nessuno abbia pensato di inserire il principio della buona scrittura delle norme o più genericamente della loro qualità”.

Una simile constatazione, peraltro, parrebbe suscettibile di essere almeno in parte sdrammatizzata alla luce e in virtù delle considerazioni svolte al riguardo nel saggio di Costanzo. Laddove, certo, si riconosce che, per quanto concerne il problema della sindacabilità della legge sotto il profilo del linguaggio da essa utilizzato, “il punctum crucis dell’intera faccenda sta notoriamente nella configurabilità del vizio linguistico come vizio autonomo di rilevanza costituzionale”.  Non mancandosi tuttavia neppure di sottolineare come, per un verso, “la nostra stessa Costituzione […] non sia insensibile almeno nella sostanza alle principali problematiche redazionali della legge, anche al di à dei principi di certezza del diritto e di affidamento del cittadino, che pure hanno saldi appigli costituzionali”; e come, per un altro verso, spunti assai interessanti nel prospettiva di un’effettiva sindacabilità del vizio in questione possano comunque trarsi non solo dalla giurisprudenza costituzionale straniera, ed in specie francese,  ma anche da quella italiana, a partire dalla storica sentenza della Corte n. 364/1988 in materia di ignorantia legis.

E ferma restando in ogni caso, aggiungiamo noi, l’opportunità di non trascurare del tutto quanto a suo tempo osservato sul punto da Michele Ainis, sia pur in termini provocatoriamente paradossali: e cioè che, se per far fronte all’esigenza di “elevare il tasso di conoscibilità delle norme giuridiche […] bastasse scrivere in costituzione che la legge deve essere redatta in modo chiaro”, allora “il problema sarebbe risolto facilmente”; e che le cose, invece, starebbero purtroppo ben diversamente, “anche perché non è affatto chiaro in che cosa consista la virtù della chiarezza”.

A loro volta, poi, gli altri due saggi, quelli di Gian Luca Conti e di Laura Buffoni, concorrono significativamente ad introdurre un’ulteriore importante tematica, pur essa inerente all’eventuale incidenza della riforma costituzionale attualmente in itinere sulle dinamiche operative e sulla stessa fisionomia strutturale del nostro sistema delle fonti, e tuttavia fin qui alquanto trascurata nel dibattito scientifico.

Si tratta, appunto, della tematica relativa alle implicazioni che, in ordine a quelle dinamiche e a quella fisionomia, sarebbero destinate a rivestire le rilevanti novità delineate dal testo riformatore sul terreno, quanto mai cruciale e delicato, della rappresentanza parlamentare. Rappresentanza parlamentare che, nel nuovo assetto bicamerale, verrebbe ad assumere, salva la conferma del divieto di mandato imperativo sia per i deputati che per i senatori, una conformazione alquanto disomogenea ben diversa da quella attuale: mantenendosi in capo a ciascun membro della Camera dei deputati la rappresentanza della Nazione, ed assegnandosi invece al nuovo Senato – in chiave con le sue peculiari modalità di formazione - la rappresentanza delle istituzioni territoriali. E ciò, in linea con la fondamentale distinzione di carattere funzionale operata fra Camera e Senato: riserva alla prima, quale Camera “politica”, della titolarità del rapporto fiduciario con il Governo, nonché dell’esercizio delle funzioni di indirizzo politico e di controllo sull’operato del Governo; conferimento al secondo, quale Camera “territoriale”,  dell’esercizio di funzioni di raccordo fra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica.

Orbene, nel saggio di Conti, si mira ad evidenziare il ruolo del tutto determinante che la fonte regolamento parlamentare, più volte espressamente chiamata in causa nel testo di riforma, sarebbe concretamente chiamata a giocare ai fini di una coerente ed efficace attuazione di quest’ultimo sullo specifico terreno in questione.

Al riguardo, infatti, il regolamento del nuovo Senato dovrebbe riuscire a cogliere e a sviluppare adeguatamente i molteplici spunti innovativi forniti dal testo di riforma in materia di organizzazione e funzionamento di tale Assemblea, in piena coerenza con la sua peculiare caratterizzazione rappresentativa e funzionale poc’anzi ricordata.

Si pensi, appunto, alla previsione per la sola Camera dei deputati di commissioni composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari, vuoi in quanto commissioni permanenti destinate ad intervenire necessariamente nel procedimento legislativo, vuoi in quanto commissioni appositamente nominate per l’esercizio del potere di inchiesta.

E si pensi altresì alla rimessione al solo regolamento della Camera della disciplina dello statuto delle opposizioni, laddove a quello del Senato, così come a quello della Camera, viene piuttosto rimessa la garanzia dei diritti delle minoranze.

In questa prospettiva, dunque, al regolamento del (nuovo) Senato verrebbe a spettare un compito assolutamente decisivo ai fini di una buona riuscita di tutta quanta la riforma costituzionale: quello di introdurre modalità organizzative e operative dell’Assemblea diverse da quelle (gruppi parlamentari, commissioni rispecchianti la proporzione di questi ultimi, statuto dell’opposizione) intimamente connesse alla logica di funzionamento tipica di una Camera “politica” e del tutto incompatibili, invece, con quella tipica di una Camera “territoriale”.

Sempre a proposito delle novità introdotte dal testo riformatore sul terreno della rappresentanza parlamentare, d’altra parte, dal saggio della Buffoni sembrerebbero potersi trarre, ancorchè soltanto implicitamente, taluni spunti di riflessione anche sul tema specifico della natura e del ruolo propri della fonte legislativa nella sua nuova configurazione eventualmente risultante da tali novità.

In tale saggio in effetti, pur muovendosi dalla constatazione della difficoltà della tradizionale concezione della rappresentanza politica ad adattarsi all’assetto pluralistico proprio del nostro ordinamento costituzionale, si pone tuttavia il dubbio che l’unica via di uscita da tali difficoltà possa rinvenirsi nelle teorie proceduraliste del diritto, e si tende piuttosto a valorizzare il testo della nostra Costituzione e, con esso, al massimo il quid di innovatività che il momento della rappresentanza politica risulterebbe comunque in grado di esprimere in ordine alla ricomposizione unitaria dei molteplici interessi facenti capo alla comunità statale.

Una possibile ricaduta di un siffatto approccio dogmatico al tema della rappresentanza politica sul versante specifico della teoria delle fonti del diritto, dunque, viene indicata in una (auspicata) rivalutazione del ruolo della legge parlamentare, quale strumento fondamentale di contemperamento “politico” fra i molteplici interessi e valori contemplati dalla nostra Carta costituzionale: ruolo da declinarsi essenzialmente, dal punto di vista concettuale, attraverso il riferimento ad una nozione, quale quella di “valore di legge”, pur da tempo alquanto trascurata dalla nostra dottrina.

Ebbene, viene immediato osservare, al riguardo, come una simile prospettiva di approfondimento teorico-concettuale, qualora il testo della riforma costituzionale dovesse effettivamente entrare in vigore nella sua attuale formulazione, non potrebbe comunque non fare i conti con una nuova legge parlamentare più o meno direttamente espressiva – a seconda del maggiore o minor attitudine concretamente dimostrata dal regolamento del (nuovo) Senato al coerente svolgimento dei compiti attuativi ad esso spettanti – anche della variegata congerie di istanze e di interessi specificamente radicati nella dimensione del pluralismo istituzionale.