Causa C-601/15 PPU J.N. – Sulla compatibilità con la Carta del trattenimento del richiedente protezione internazionale per motivi di ordine pubblico o pubblica sicurezza - (1/2016

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Nella sentenza che si segnala, la Corte di giustizia, riunita nella formazione della Grande Sezione, ha ritenuto compatibile con gli artt. 6 e 52, paragrafi 1 e 3, della Carta la disposizione della direttiva 2011/33/UE in materia di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale che attribuisce agli Stati membri, entro determinati limiti, la possibilità di trattenere detti richiedenti per motivi relativi alla protezione dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza.

Nella sentenza J.N., la Corte di giustizia è stata chiamata a esaminare la compatibilità con l’art. 6 della Carta, secondo cui “[o]gni persona ha il diritto alla libertà e alla sicurezza”, dell’art. 8 della Direttiva 2013/33/UE in materia di norme sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (GU 2013 L 180, p. 96 ss.), nella parte in cui consente il trattenimento del richiedente protezione internazionale per motivi relativi all’ordine pubblico e alla pubblica sicurezza. L’art. 8 della direttiva, rubricato “Trattenimento”, dopo aver stabilito, al paragrafo 1, che gli Stati membri non possono trattenere una persona “per il solo fatto di essere un richiedente [protezione internazionale]”, individua in modo esaustivo una serie di motivi (paragrafo 3) per i quali gli Stati membri, “[o]ve necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, (…) possono trattenere il richiedente, salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive”. Il motivo indicato alla lettera e) riguarda l’ipotesi in cui il trattenimento “[sia imposto da] motivi di sicurezza o di ordine pubblico”. Lo stesso paragrafo 3, alla fine della lista dei motivi per i quali è consentito il trattenimento, precisa che tali motivi “sono specificati nel diritto nazionale”. Da ultimo, il paragrafo 4 fa obbligo agli Stati membri di “[provvedere] affinché il diritto nazionale contempli le disposizioni alternative al trattenimento, come l’obbligo di presentarsi alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato”.

Il Consiglio di Stato dei Paesi Bassi (Raad van State) ha proposto il rinvio pregiudiziale nell’ambito di una controversia tra il Segretario di Stato alla Sicurezza e alla Giustizia e un richiedente asilo trattenuto inizialmente per aver commesso dei furti e avere eluso il divieto di ingresso precedentemente impostogli, e, dopo la scadenza della pena detentiva prevista e pendente la sua richiesta di asilo, in base all’art. 8, par. 3, lettera e), della direttiva 2013/33/UE. Il giudice del rinvio, alla luce dell’art. 52, par. 3, della Carta, che eleva la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (“Convenzione”) a standard minimo di tutela per i diritti della Carta che corrispondono a quelli garantiti dalla suddetta Convenzione, e tenuto conto della spiegazione di questa disposizione, che richiede di tenere in considerazione la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (“Corte europea”), dubitava della compatibilità del suddetto art. 8, par. 3, della Direttiva con l’art. 6 della Carta. I dubbi del Raad van State nascevano, in particolare, dall’interpretazione dell’art. 5, par. 1, lett. f), della Convenzione fornita dalla Corte europea in Nabil c. Ungheria (sent. 22 settembre 2015, ric. n. 62116/12). La disposizione da ultimo citata della Convenzione recita che “[n]essuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge: (...) f) se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”. Secondo il giudice del rinvio, dalla sentenza Nabil c. Ungheria discenderebbe che il trattenimento di un richiedente asilo che non sia stato imposto a fini di allontanamento viola la suddetta disposizione della Convenzione.

La Corte di giustizia ha confermato la validità dell’art. 8, par. 3, lett. e), della Direttiva 2013/33/UE, traendo degli argomenti a sostegno del suo ragionamento anche dalla giurisprudenza della Corte europea citata dal giudice del rinvio.

Innanzitutto, la Corte ha precisato che, poiché fino a quando l’Unione non avrà aderito alla Convenzione “quest’ultima non costituisce (…) un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione” (par. 45), l’esame della validità della direttiva 2013/33/UE “deve (…) essere svolto alla luce unicamente dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta” (par. 46). Ha poi ricordato l’obbligo di tenere in considerazione le Spiegazioni relative alla Carta per l’interpretazione di quest’ultima, che è sancito dall’art. 52, par. 7, della Carta stessa ma anche dall’art. 6, par. 1, TUE. Per la prima volta, la Corte ha poi posto l’accento sulla spiegazione dell’art. 52, par. 3, della Carta nella parte in cui prevede che quest’ultima disposizione intende assicurare la necessaria coerenza tra la Carta e la CEDU “senza che ciò pregiudichi l’autonomia del diritto dell’Unione e della Corte di giustizia dell’Unione europea” (par. 47). Una interpretazione plausibile di questo inciso, alla luce della formulazione letterale dell’art. 52, par. 3, è che esso si limita a ribadire l’ultima parte della disposizione, in cui si fa salva la possibilità che nel diritto dell’Unione i diritti corrispondenti ricevano una protezione più estesa di quella ad essi garantita dalla Convenzione. Tuttavia, all’indomani del parere 2/13 sull’adesione dell’Unione alla Convenzione, e soprattutto vista l’ampia nozione di “autonomia” accolta dalla Corte di giustizia, sembra piuttosto che essa veda nell’inciso citato una conferma della propria giurisprudenza pre-Lisbona secondo cui l’interpretazione dei diritti fondamentali nell’Unione “[deve essere] garantita nell’ambito della struttura e degli obiettivi dell’Unione” (parere del 18 dicembre 2014, par. 170, con riferimento alle sentenze 17 dicembre 1970, causa 11-70, Internationale Handelsgesellschaft, EU:C:1970:114, par. 4, e 3 settembre 2008, cause riunite C-402/05 P e C-415/05 P, Kadi e Al Barakaat International Foundation, EU:C:2008:461, paragrafi da 281 a 285).

Prima di procedere all’esame della validità dell’art. 8, par. 3, lettera. e), della Direttiva 2013/33/UE rispetto all’art. 6 della Carta, la Corte ha anche ricordato “[il] principio ermeneutico generale [secondo cui] un atto dell’Unione deve essere interpretato, nei limiti del possibile, in modo da non inficiare la sua validità e in conformità con il diritto primario nel suo complesso e, in particolare, con le disposizioni della Carta” (par. 48, con riferimento alla sent. 31 gennaio 2013, causa C-12711, McDonagh, EU:C:2013:43, par. 44).

La Corte ha dunque inquadrato l’esame della compatibilità della disposizione controversa nell’alveo dell’art. 52, par. 1, della Carta, che stabilisce le condizioni al cui soddisfacimento è subordinata l’ammissibilità di eventuali limitazioni ai diritti fondamentali enunciati dalla Carta. Infatti, “[a]utorizzando il trattenimento di un richiedente quando lo impongono motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, l’art. 8, par. 3, primo comma, lettera e), della Direttiva 2013/33, prevede una limitazione dell’esercizio del diritto alla libertà sancito all’articolo 6 della Carta” (par. 49). L’art. 52, par. 1, della Carta stabilisce che “[e]ventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà[; nel] rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.”

La Corte ha innanzitutto ritenuto soddisfatto il requisito della base giuridica della limitazione, che nel caso di specie è “prevista dalla legge” in quanto “discende da una direttiva che costituisce un atto legislativo dell’Unione”. È interessante che la Corte non si sia limitata a precisare che la limitazione trova origine in una fonte del diritto dell’Unione scritta e vincolante quale la direttiva in generale, ma specificamente in una direttiva adottata con una procedura legislativa. In tal modo, la Corte sembra dare rilievo alla natura della procedura formale di adozione dell’atto dell’Unione ai fini del soddisfacimento del requisito della “previsione di legge”.

La Corte ha poi affermato che anche la condizione per cui la limitazione deve perseguire un obiettivo di interesse generale è soddisfatta, perché come tale si qualifica la tutela della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, che, anzi, “contribuisce parimenti alla tutela dei diritti e delle libertà altrui” (par. 53).

Più elaborato è l’esame della proporzionalità della limitazione, che richiede, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte, che “gli atti delle istituzioni dell’Unione non superino i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che gli inconvenienti causati dalla stessa non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti” (par. 54, con riferimento, inter alia, alla sent. 22 gennaio 2013, causa C-283/11, Sky Österreich, EU:C:2013:28, par. 50).

Quanto alla idoneità della limitazione, la Corte ha rilevato che “il trattenimento di un richiedente quando lo impone la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico è, per sua stessa natura, una misura appropriata per tutelare il pubblico dal pericolo che può costituire il comportamento di un soggetto del genere” (par. 55).

Riguardo alla necessità di attribuire agli Stati membri il potere di disporre, in taluni casi, il trattenimento del richiedente protezione internazionale, la Corte ha premesso che, “tenuto conto dell’importanza del diritto alla libertà sancito all’articolo 6 della Carta e della gravità dell’ingerenza che una siffatta misura di trattenimento costituisce rispetto al suddetto diritto, le limitazioni all’esercizio dello stesso devono operare entro i limiti dello stretto necessario” (par. 56, con riferimento, per analogia, relativamente al diritto al rispetto della vita privata, sent. 8 aprile 2014, cause riunite C‑293/12 e C‑594/12, Digital Rights Ireland e a., CEU:C:2014:238, par 52). La Corte ha dunque individuato una serie di ragioni a sostegno del rispetto del limite dello “stretto necessario”.

In primo luogo, la direttiva 2013/33/UE precisa che il trattenimento può essere previsto solo quando la tutela dell’ordine pubblico o della sicurezza pubblica lo “impongono” (par. 58). Benché spetti agli Stati membri specificare i motivi per cui è consentito il trattenimento del richiedente – individuati in modo esaustivo dall’art. 8, par. 3, della suddetta direttiva –, essi “sono tenuti, nell’attuazione di tali misure, non solo a interpretare il loro diritto nazionale conformemente alla direttiva di cui si tratti, ma anche a fare in modo di non basarsi su un’interpretazione della stessa che entri in conflitto con i diritti fondamentali o con gli altri principi generali del diritto dell’Unione” (par. 60).

In secondo luogo, lo stesso art. 8 della direttiva, ma anche il suo art. 9, individuano una serie di limitazioni, di natura sia sostanziale sia procedurale, al potere attribuito agli Stati membri di disporre il trattenimento del richiedente. In particolare, gli Stati membri non possono trattenere una persona per il solo fatto che questa ha presentato una domanda di protezione internazionale; il trattenimento deve risultare necessario e fare seguito a una valutazione caso per caso e comunque a esso devono essere preferite misure meno coercitive; il trattenimento deve protrarsi per il periodo più breve possibile e deve in ogni caso cessare se vengono meno i motivi che lo giustificano; la decisione che dispone il trattenimento deve precisare per iscritto le motivazioni di fatto e di diritto sulle quali è basata e deve recare, in una lingua comprensibile al destinatario, una serie di informazioni relative ai suoi diritti di difesa; infine, la legittimità della decisione deve poter essere esaminata da un giudice (paragrafi 61 e 62).

In terzo luogo, la decisione deve indicare le modalità di verifica in sede giudiziaria della legittimità del trattenimento.

In quarto luogo, la Corte ha sottolineato che la disposizione controversa della Direttiva, secondo quanto risulta dalla relazione che accompagna la proposta di quest’ultima, “si basa sulla Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulle misure di detenzione dei richiedenti l’asilo, del 16 aprile 2003, nonché sulle linee guida dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR) sui criteri e gli standard applicabili relativamente alla detenzione dei richiedenti asilo, del 26 febbraio 1999” (par. 63). Quale ulteriore garanzia, la Corte ha ricordato anche la propria giurisprudenza sull’interpretazione delle nozioni di “ordine pubblico” e “pubblica sicurezza”, da cui si evince che il trattenimento del richiedente è giustificato “soltanto quando il suo comportamento individuale costituisca una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave nei confronti di un interesse fondamentale della società o la sicurezza interna o esterna dello Stato membro interessato” (par. 67).

Infine, la Corte di giustizia ha ritenuto che l’art. 8, par. 3, lettera e) non è sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito, poiché “non può costituire la base di misure di trattenimento senza che le autorità nazionali competenti abbiano preventivamente verificato, caso per caso, se il pericolo che le persone interessate fanno correre alla sicurezza nazionale o all’ordine pubblico corrisponde almeno alla gravità dell’ingerenza nel diritto alla libertà delle suddette persone che tali misure costituirebbero” (par. 69). Pertanto, la disposizione realizza “un contemperamento equilibrato fra l’obiettivo d’interesse generale perseguito, ossia la tutela della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, da un lato, e l’ingerenza nel diritto alla libertà creata da una misura di trattenimento, dall’altro” (par. 68).

La Corte di giustizia non ha quindi ravvisato alcun elemento idoneo a inficiare la validità della disposizione controversa. La Corte ha tuttavia proseguito il proprio ragionamento, da un lato, fornendo al giudice del rinvio alcune indicazioni circa “l’applicazione dei requisiti derivanti in particolare dal principio di proporzionalità nel contesto di un procedimento come quello principale” (par. 71), e, dall’altro, dimostrando che, “con l’adozione dell’art. 8, par. 3, lettera e), della direttiva 2013/33/UE, il legislatore dell’Unione non si è posto in contrasto con il livello di tutela offerto dall’art. 5, par. 1, lettera f), seconda parte della frase, della CEDU” (par. 77).

Sotto il primo profilo, la Corte ha precisato, anzitutto, che “le ragioni che hanno indotto le autorità nazionali a considerare che il comportamento individuale del ricorrente nel procedimento principale costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale, ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/115/CE [GU 2008 L 348, p. 98 ss.], sono parimenti tali da giustificare il trattenimento per motivi attinenti alla tutela della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, primo comma, lettera e), della direttiva 2013/33/UE[; tuttavia,] è importante verificare che siffatto trattenimento sia stato disposto nel rigoroso rispetto del principio di proporzionalità e che le suddette ragioni continuino ad essere valide.” (par. 73). Inoltre, facendo riferimento “all’indicazione del giudice del rinvio secondo cui, sulla base della propria giurisprudenza, la presentazione di una domanda d’asilo da parte di una persona soggetta ad una procedura di rimpatrio ha l’effetto d’invalidare de iure qualsiasi decisione di rimpatrio che fosse stata precedentemente adottata nell’ambito della suddetta procedura”, la Corte ha precisato che l’effetto utile della direttiva 2008/115/CE, che fa obbligo agli Stati membri di procedere all’allontanamento con la massima celerità, sarebbe frustrato “se l’allontanamento fosse ritardato dalla circostanza che, dopo il rigetto in primo grado della domanda di protezione internazionale, una procedura come quella descritta al punto precedente dovesse essere ripresa non alla fase in cui è stata interrotta, bensì al suo inizio” (paragrafi 75 e 76).

Attraverso queste indicazioni, relative all’applicazione al caso di specie delle considerazioni precedentemente svolte sull’art. 8, par. 3, lettera e), della direttiva, la Corte ha inteso evidentemente fornire al giudice del rinvio una risposta utile a risolvere il caso di specie.

Sotto il secondo profilo, la Corte di giustizia ha osservato che “se la Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato, nella sentenza Nabil e a. c. Ungheria, che la privazione della libertà basata sulla disposizione in parola può essere giustificata soltanto quando un procedimento d’espulsione o d’estradizione è in corso, e che, nel caso in cui siffatto procedimento non sia svolto con la diligenza necessaria, la detenzione cessa di essere giustificata alla luce di detta medesima disposizione, la citata sentenza non ha escluso la possibilità per uno Stato membro di procedere, nel rispetto delle garanzie da essa previste, al trattenimento del cittadino di un paese terzo nei confronti del quale sia stata adottata una decisione di rimpatrio corredata di un divieto d’ingresso prima del deposito di una domanda di protezione internazionale” (par. 78). Anzi, poiché “la Corte europea dei diritti dell’uomo ha del pari precisato che la sussistenza di un procedimento di asilo in corso non comporta di per sé che il trattenimento di una persona che abbia presentato una domanda d’asilo non sia più attuato «a fini di espulsione», giacché un eventuale rigetto della domanda può rendere possibile l’esecuzione di misure di allontanamento già decise”, è corretta la conclusione, precedentemente raggiunta, per cui a seguito del rigetto della domanda di protezione la procedura di rimpatrio deve riprendere da dove si è interrotta; in tal modo, “siffatta procedura è sempre «in corso» ai sensi dell’art. 5, par. 1, lettera f), seconda parte della frase, della CEDU.” (paragrafi 79 e 80).

Da ultimo, la Corte ha evidenziato che i rigorosi limiti entro i quali è inquadrata la possibilità di trattenere il richiedente protezione internazionale per motivi di ordine pubblico o pubblica sicurezza soddisfano l’esigenza espressa dall’art. 5, par. 1, della CEDU, secondo cui "l’attuazione di misura privativa della libertà, per essere conforme allo scopo consistente nella tutela dell’individuo contro l’arbitrarietà, [deve essere] priva di ogni elemento di malafede o inganno da parte delle autorità, (…) conforme all’obiettivo delle restrizioni autorizzate dal pertinente comma dell’art. 5, par. 1, della CEDU, e [deve sussistere] un legame di proporzionalità fra il motivo invocato e la privazione di libertà in questione (par. 81, con riferimento alla sentenza della Corte europea dei diritti umani, ric. n. 13229/03, Saadi c. Regno Unito, paragrafi 68-74). Concluderei con una frase di commento, che potrebbe evidenziare l’ulteriore rilevanza conferita alla relativa disposizione della CEDU. 

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