Le Rubriche dell'Osservatorio

UE - Corte di Giustizia, Cause C-167/12 e C-363/12 (2/2014)

Cause C-167/12 C.D. c. S.T. e C-363/12 Z. c. A Government department and The Board of management of a community school[1]

La grande sezione della Corte di giustizia esclude la sussistenza di un diritto al congedo di maternità retribuito per le lavoratrici madri committenti

Il diritto dell’Unione europea non riconosce alla madre committente che ha avuto un figlio mediante un contratto di maternità surrogata alcun diritto di ottenere un congedo retribuito equivalente ad un congedo di maternità o ad un congedo di adozione. Questa è la conclusione che la Grande Sezione della Corte di giustizia ha raggiunto in due sentenze dell’8 marzo 2014, pronunciate nelle cause C-167/12 C.D. contro S.T. e C-363/12 Z. contro A Government department and The Board of management of a community school. In particolare, la Corte ha precisato, da un lato, che l’art. 8 della Direttiva 92/85/CEE (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento)[2] non impone agli Stati membri di riconoscere un diritto al congedo di maternità alla madre committente, neanche laddove dopo la nascita del bambino la stessa effettivamente lo allatti o comunque possa allattarlo al seno. Dall’altro, la Corte ha escluso che si possa configurare una discriminazione in base al sesso, ovvero in base all’handicap, ai sensi, rispettivamente, delle direttive 2006/54/CE (sull’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego)[3] e 2000/78/CE (che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro)[4].

Il caso C.D. nasceva da un rinvio pregiudiziale proposto dall’Employment Tribunal di Newcastle, dinanzi al quale la signora C.D., madre committente, aveva impugnato il rifiuto del proprio datore di lavoro (una fondazione appartenente al servizio sanitario nazionale) di concederle un congedo di maternità, sulla base del regime previsto per i casi di adozione. La normativa inglese (in particolare, lo Human Fertilisation and Embryology Act 2008) prevede la possibilità per il giudice di emettere, in presenza di alcune circostanze, un provvedimento di conferimento della potestà genitoriale su un bambino, allorché la gravidanza sia stata portata avanti da una donna che non è una delle parti richiedenti. Tuttavia, la normativa nazionale non contempla espressamente l’ipotesi di congedo in caso di maternità avvenuta tramite ricorso ad un contratto di maternità surrogata. In risposta alla richiesta dei sindacati sul regime applicabile alle madri committenti, il datore di lavoro aveva affermato che i requisiti sarebbero stati verificati su base individuale, alla luce delle disposizioni applicabili in materia di congedo di adozione. La richiesta della signora C.D. era stata però rigettata, poiché la donna non poteva fornire alcun “matching certificate” (ovvero, un certificato rilasciato da una agenzia per le adozioni, che attesti la compatibilità tra il futuro genitore adottivo e il bambino adottando). Dinanzi all’Employment Tribunal, la donna faceva valere che essa aveva iniziato ad occuparsi del bambino, allattandolo al seno fin dalla nascita.

Muovendo dalla considerazione che le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento devono essere considerate come un gruppo esposto a rischi specifici, l’art. 8 della Direttiva 92/85 fa obbligo agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché tali lavoratrici fruiscano di un congedo di maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte, ripartite prima e/o dopo il parto, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali. Nella sentenza C.D. la Corte ha escluso che tale disposizione possa essere interpretata nel senso che un congedo di maternità deve essere garantito anche a quelle lavoratrici che – secondo quanto avviene nel caso di maternità surrogata – sono divenute madri senza essere state esse stesse incinte, e quindi senza aver partorito. Questa conclusione è stata in larga parte basata sulla lettera della disposizione, che si riferisce espressamente al “parto”, laddove la considerazione dello scopo del congedo previsto dalla direttiva poteva forse assecondare un’interpretazione meno testuale e più ampia. A tal proposito, la Corte ha infatti affermato che “[s]iffatto congedo (…) è inteso a garantire, da un lato, la difesa della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza e, dall’altro, la protezione delle particolari relazioni tra la donna e il suo bambino durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto, evitando che dette relazioni siano turbate dal cumulo degli oneri derivanti dal contemporaneo svolgimento di un’attività lavorativa” (par. 34; si vedano anche, nello stesso senso, sentenze del 12 luglio 1984, causa 184/83, Hofmann, in Raccolta p. 3047, par. 25; 20 settembre 2007, causa C‑116/06, Kiiski, in Raccolta p.  I‑7643, par. 46, e 19 settembre 2013, causa C‑5/12, Betriu Montull, non ancora pubblicata in Raccolta, par. 50). Tuttavia, la Corte ha poi subito aggiunto che, “se è vero che la Corte ha dichiarato che il congedo di maternità è volto anche ad assicurare la protezione delle particolari relazioni tra la donna e il suo bambino, tale finalità, come si evince dalla stessa lettera delle sentenze citate al punto 34 della presente sentenza, riguarda tuttavia soltanto il periodo successivo «alla gravidanza e al parto»” (par. 36).

Seguendo il suggerimento dell’AG Kokott, la Corte di giustizia avrebbe potuto ricorrere all’art. 24 della Carta (in materia di diritti dei minori) per dare maggiore risalto a quest’ultima finalità del congedo di maternità, che certamente vale anche con riferimento ai rapporti tra madre affidataria e bambino. Nelle sue conclusioni, l’AG aveva sostenuto che “[occorre] non solo far riferimento al tenore (…) della direttiva 92/85, ma anche tenere in considerazione la finalità di tutela perseguita con il congedo di maternità[;il] diritto di ogni minore, sancito dall’articolo 24, paragrafo 3, della Carta (…), di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i propri genitori vale in particolar modo per il lattante e per la sua relazione con la madre che si prende cura di lui e rappresenta uno dei principi portanti per i quali la direttiva 92/85 riconosce il congedo di maternità” (paragrafi 60 e 61). Per lo stesso motivo, secondo l’AG sarebbe irrilevante la circostanza che la madre affidataria allatti o meno al seno il minore. Allo stesso tempo, la scelta degli Stati membri di riconoscere o meno l’istituto della maternità surrogata veniva salvaguardato dall’AG, secondo cui solo “[n]el caso in cui uno Stato membro riconosca la maternità surrogata e, quindi, la ripartizione funzionale del ruolo di madre tra due donne, occorrerà trarne parimenti la conseguenza che alla madre affidataria devono essere concessi corrispondenti diritti in relazione al congedo di maternità” (par. 63).[5]

Diversamente, la Corte ha escluso che la direttiva imponga di riconoscere un diritto al congedo di maternità in favore della madre committente, anche laddove essa abbia allattato il bambino al seno sin dalla nascita. Allo stesso tempo, la Corte ha precisato che l’obiettivo della direttiva è quello di stabilire delle prescrizioni minime per proteggere sul lavoro le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, lasciando impregiudicata la facoltà degli Stati membri di introdurre delle prescrizioni più favorevoli, eventualmente anche rispetto alle madri committenti (paragrafi 40 e 41).

In secondo luogo, la Corte ha ritenuto che la legislazione nazionale non si poneva in contrasto con la direttiva 2006/54/CE. Da un lato, non c’è discriminazione diretta in base al sesso, poiché neanche il padre committente potrebbe beneficiare di un congedo retribuito equivalente ad un contratto di maternità; pertanto, il diniego opposto alla signora C.D. non poteva ritenersi fondato su una ragione che riguarda esclusivamente i lavoratori di uno dei due sessi (paragrafi 46 e 47). Dall’altro lato, la Corte ha ritenuto non sussistere neanche una discriminazione indiretta in base al sesso, poiché dagli elementi contenuti nel fascicolo di causa non era possibile accertare “che il rifiuto del congedo de quo sfavorirebbe in modo particolare i lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di sesso maschile” (par. 49).

Quest’ultima conclusione (assenza di discriminazione in base al sesso) è stata ribadita anche nella sentenza nel caso Z., il quale presentava tuttavia alcuni profili diversi dal precedente. Esso nasceva da un rinvio da parte dell’Equality Tribunal irlandese, Stato membro nel quale i contratti di maternità surrogata non sono disciplinati. Dinanzi a tale giudice, e la sig.ra Z aveva impugnato il rifiuto del consiglio di amministrazione della scuola comunale per la quale lavorava come docente di concederle un congedo retribuito equivalente ad un congedo di maternità, dopo che la stessa era divenuta madre per il tramite di un contratto di maternità surrogata. In particolare, essendo priva di utero, la sig.ra Z. lamentava di essere vittima di una discriminazione non solo in base al sesso, ma anche in base all’handicap.

La Corte di giustizia ha però escluso anche la configurabilità di questa ipotesi di discriminazione. Dapprima la Corte ha ricordato che la direttiva 2000/78 non contiene una nozione di “handicap”; tuttavia, a seguito della ratifica da parte dell’Unione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità,[6] tale nozione “dev’essere intesa nel senso che si riferisce a una limitazione, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (par. 76; si veda anche la sentenza 11 aprile 2013, cause riunite C‑335/11 e C‑337/11, HK Danmark, non ancora pubblicata in Raccolta). In particolare, la nozione di “handicap” accolta dalla Direttiva “si riferisce non soltanto ad un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì ad un ostacolo a svolgere una simile attività (…) su base di uguaglianza con altri lavoratori” (paragrafi 77 e 80). Ad avviso della Corte, sebbene “l’incapacità di procreare possa causare a una donna una grande sofferenza”, non si può tuttavia ritenere che la patologia di cui era affetta la signora Z. abbia costituito un ostacolo allo svolgimento della sua attività professionale (paragrafi 79 e 81).

Da ultimo, richiamando la propria giurisprudenza secondo cui solo le disposizioni dotate di effetti diretti degli accordi internazionali vincolanti l’UE costituiscono parametri di validità del diritto derivato (cf. sentenze del 3 giugno 2008, causa C‑308/06, Intertanko e a., in Raccolta p. I‑4057, par. 45, e 21 dicembre 2011, causa C‑366/10, Air Transport Association of America e a., in Raccolta p. I‑13755, par. 54), la Corte di giustizia ha ritenuto che il carattere programmatico della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità impedisce il sindacato di legittimità della direttiva 2000/78 alla luce delle disposizioni della suddetta Convenzione.

                                                                                                                                                                                                 N.L.



[1] Sentenze del 18 marzo 2014.

[2] G.U. 1992 L 348, 1.

[3] G.U. 2006 L 204, 23.

[4] G.U. 2000 L 303, 16.

[5] Muovendo da tali considerazioni, l’AG ha suggerito alla Corte di rispondere che, “in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, una madre affidataria che abbia avuto un figlio per effetto di un contratto di maternità surrogata, successivamente alla nascita del bambino ha in ogni caso diritto al congedo di maternità ai sensi degli articoli 2 e 8 della direttiva 92/85 qualora assuma la custodia del bambino dopo la sua nascita, la maternità surrogata sia lecita nello Stato membro interessato e siano soddisfatti i requisiti previsti dalla normativa nazionale dello Stato membro medesimo, anche nel caso in cui la madre affidataria non provveda all’allattamento del bambino dopo la nascita, dovendo, da un lato, il congedo durare almeno due settimane e, dall’altro, essere computato il congedo di maternità di cui abbia eventualmente usufruito la madre surrogata.”

[6] Decisione 2010/48/CE del Consiglio, del 26 novembre 2009, G.U. 2010 L 23, p. 35

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