Competenza degli Stati membri in materia di cittadinanza nazionale e rispetto del diritto dell’Unione: la procedura di revoca della cittadinanza deve essere conforme al principio di effettività (3/2023)

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Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 5 settembre 2023, Udlændinge- og Integrationsministeriet (Perte de la nationalité danoise), Causa C-689/21, ECLI:EU: C:2023:626

La Corte di Giustizia, nella composizione della Grande Sezione, è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi in relazione alla revoca della cittadinanza di uno Stato membro che, stante l’assenza della cittadinanza di un altro Stato membro, determina il venir meno della cittadinanza dell’Unione di cui all’art. 20 TFUE, il quale è «destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri». La Grande Sezione ha, in primo luogo, ribadito che la suddetta decisione di revoca deve essere conforme al principio di proporzionalità e ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta, tra cui in particolare il diritto alla vita privata e familiare, letto alla luce del principio del superiore interesse del minore. In secondo luogo, applicando per la prima volta i principi dell’autonomia procedurale e di effettività al settore in questione, la Corte ha individuato alcune garanzie procedurali che la legislazione e la prassi in materia di revoca devono assicurare per essere conformi al diritto dell’Unione.

 

Nella sentenza Udlændinge- og Integrationsministeriet del 5 settembre 2023, la Corte di Giustizia si è pronunciata, in seguito al rinvio pregiudiziale sollevato da un tribunale danese, in relazione alla revoca della cittadinanza di uno Stato membro che, in ragione dell’assenza della cittadinanza di un altro Stato membro, aveva determinato in capo al soggetto interessato anche il venir meno della cittadinanza dell’Unione. Conformemente a quanto previsto dall’art. 20, par. 1, TFUE, infatti, la cittadinanza dell’Unione presuppone il possesso della cittadinanza di uno Stato membro[1]. La pronuncia si inserisce nel solco di una ormai ricca e consolidata giurisprudenza in tema sia di revoca della cittadinanza, oggetto delle celebri sentenze Rottmann[2] e Tjebbes[3], che di revoca di una garanzia di naturalizzazione presa in esame nella pronuncia Wiener Landesregierung[4].

Il procedimento principale, nell’ambito del quale è stato sollevato il rinvio che ha dato origine alla sentenza qui in commento, riguardava X, una giovane nata negli Stati Uniti e avente, per nascita, cittadinanza americana e danese, la quale, dopo aver compiuto 22 anni, aveva presentato al Ministero competente domanda per mantenere la cittadinanza danese. Il Ministero, tuttavia, respingeva la domanda e informava la ragazza della perdita della cittadinanza in ragione del fatto che, in forza della legislazione nazionale, la persona nata all’estero che non abbia mai risieduto nel territorio danese e non vi abbia soggiornato in condizioni tali da dimostrare l’esistenza di un «legame di coesione», perde automaticamente la cittadinanza al compimento dei 22 anni, a meno che non divenga apolide. Ad avviso del Ministero, i periodi in cui X aveva soggiornato in Danimarca e la circostanza che, per un anno, avesse fatto parte della nazionale danese di basket femminile non erano sufficienti a dimostrare il suddetto legame e a consentirle il mantenimento della cittadinanza. Inoltre, come rilevato dal Ministero, essa non avrebbe potuto avvalersi della deroga prevista dalla legislazione nazionale in forza della quale qualora la domanda sia presentata prima di compiere 22 anni, l’autorità competente può autorizzare l’interessato a mantenere la cittadinanza, riservandosi di statuire sul suo definitivo mantenimento dopo che il richiedente avrà compiuto 22 anni. La decisione del Ministero veniva impugnata da X davanti al Tribunale municipale di Copenaghen, il quale rinviava il ricorso all’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca), giudice del rinvio.

Tale giudice rilevava che conformemente a quanto statuito dalla Corte di Giustizia nella sentenza Tjebbes, qualora la domanda sia presentata prima del compimento dei 22 anni, il Ministero svolge un esame individuale finalizzato a valutare la proporzionalità delle conseguenze, sotto il profilo del diritto dell’Unione, della perdita della cittadinanza danese, cui consegue anche quella dell’Unione, esaminando in particolare se le conseguenze della perdita della cittadinanza europea siano proporzionate, dal punto di vista del diritto UE, all’obiettivo, perseguito dalla legislazione danese, di assicurare l’esistenza di un collegamento effettivo tra la Danimarca e i propri cittadini. Tale esame, invece, non è previsto qualora la domanda sia presentata dopo il compimento dei 22 anni. Pertanto, il giudice del rinvio chiedeva sostanzialmente alla Corte di valutare se l’art. 20 TFUE, letto alla luce del diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 7 della Carta, osta alla normativa di uno Stato membro in forza della quale i suoi cittadini, nati fuori dal territorio dello Stato e che qui non vi abbiamo mai risieduto né soggiornato in condizioni tali da dimostrare un collegamento effettivo, ne perdono ipso iure la cittadinanza al raggiungimento dei 22 anni – perdendo anche la cittadinanza dell’Unione –, e la quale consente, esclusivamente in caso di domanda presentata prima del compimento dei 22 anni, che le autorità nazionali competenti esaminino la proporzionalità delle conseguenze della perdita di quest’ultima sotto il profilo del diritto dell’Unione ed, eventualmente, ne dispongano il mantenimento ex tunc.

La Corte ha, innanzitutto, richiamato il consolidato principio secondo cui la determinazione dei modi di acquisizione e perdita della cittadinanza spettano, conformemente al diritto internazionale, alla competenza di ciascuno Stato membro evidenziando che, tuttavia, in situazioni ricadenti nell’ambito del diritto UE, la suddetta competenza deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’Unione. A questo riguardo, la Grande Sezione ha evidenziato che lo status di cittadino dell’Unione di cui all’art. 20 TFUE «è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri» (par. 29)[5]. Ne consegue, come già statuito dalla Corte nella precedente giurisprudenza in materia, che la situazione di un cittadino dell’Unione il quale, in seguito alla perdita della cittadinanza del proprio Stato membro, si veda anche privato dello status di cittadino europeo conferitogli dall’art. 20 TFUE e dei diritti a esso correlati, si trova in una situazione che «ricade, per sua natura e per le conseguenze che produce, nella sfera del diritto dell’Unione» (par. 30)[6].

Sempre muovendosi nel solco della giurisprudenza pregressa, la Corte ha quindi ribadito la legittimità dell’obiettivo di una legislazione nazionale volta a tutelare il rapporto di solidarietà e lealtà tra uno Stato membro e i suoi cittadini e la reciprocità di diritti e doveri che costituiscono il fondamento della cittadinanza[7]. Del pari, la Grande Sezione ha ricondotto alla competenza degli Stati membri la scelta di subordinare il mantenimento della cittadinanza alla presenza di un legame effettivo tra il cittadino e lo Stato e di accertarne l’esistenza sulla base dei luoghi di nascita e di residenza e delle caratteristiche dei soggiorni effettuati nel territorio nazionale. Molto significativamente, la Corte ha rilevato che i criteri previsti dalla suddetta legislazione non operano alcuna distinzione circa l’ipotesi della residenza in un altro Stato membro dell’Unione e quella della residenza in uno Stato terzo. Come opportunamente evidenziato dall’Avvocato generale Szpunar nelle sue Conclusioni, l’assenza di una tale distinzione costituisce una limitazione sproporzionata del diritto di libera circolazione e soggiorno di cui all’art. 21 TFUE[8]. Benché la Grande Sezione non si sia – giustamente – pronunciata sul punto, non rilevando nel caso di specie la pregressa residenza della ricorrente in un altro Stato membro, risulta molto interessante e foriero di ulteriori sviluppi in materia che essa abbia richiamato la problematicità della questione.

Sulla base di tali premesse, la Corte ha quindi statuito che il diritto dell’Unione non osta «in linea di principio» (par. 37) a una legislazione nazionale quale quella danese. Essa ha, quindi, proceduto a individuare i principi che, tuttavia, devono essere garantiti da una tale legislazione per risultare conforme al diritto UE nelle ipotesi in cui la perdita della cittadinanza nazionale comporti altresì il venir meno dello status di cittadino europeo.

A tale riguardo, la Grande Sezione, nel solco di quanto già statuito nelle pronunce Rottmann e Tjebbes, ha innanzitutto richiamato il rispetto del principio di proporzionalità in forza del quale le autorità e i giudici nazionali competenti devono poter svolgere – anche nel caso di una domanda presentata dopo il compimento dei 22 anni – un esame circa le conseguenze che la perdita della cittadinanza nazionale determina per l’interessato sotto il profilo del diritto dell’Unione ed, eventualmente, devono poter disporre il mantenimento della cittadinanza o il suo riacquisto ex tunc. Più specificatamente, il suddetto esame deve valutare se le conseguenze, non ipotetiche ed eventuali, della perdita della cittadinanza nazionale andrebbero a incidere in modo sproporzionato, rispetto all’obiettivo perseguito dalla legislazione nazionale, sul normale sviluppo della vita familiare e professionale del soggetto e se siano conformi ai diritti fondamenti garantiti dalla Carta e, in particolare, al diritto alla vita privata e familiare (art. 7 Carta), eventualmente letto alla luce del superiore interesse del minore (art. 24, par. 2, della Carta).

A differenza di tali statuizioni, che si pongono perfettamente nel solco della giurisprudenza precedente, il seguito della pronuncia si caratterizza per essere particolarmente innovativa. La Corte ha, infatti, richiamato il principio dell’autonomia procedurale, in forza del quale, in assenza di una normativa dell’Unione, spetta all’ordinamento degli Stati membri definire le modalità procedurali con cui assicurare tutela ai diritti riconosciuti ai singoli dal diritto UE[9]. Secondo una consolidata giurisprudenza della Corte e, per la prima volta, applicata al settore della cittadinanza, tale autonomia incontra un limite nel principio di effettività volto a garantire che le suddette modalità procedurali, definite a livello nazionale, non siano tali da rendere «concretamente impossibile o eccessivamente difficile» l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto UE (par. 41)[10].

Dando applicazione ai richiamati principi, la Corte ha quindi individuato un duplice ordine di garanzie procedurali che devono essere rispettate dalla legislazione e prassi nazionale in materia di revoca di cittadinanza per non risultare in contrasto con il diritto dell’Unione.

In primo luogo, la Grande Sezione ha riconosciuto che la previsione di un termine ragionevole per la presentazione della domanda di mantenimento della cittadinanza può considerarsi conforme al principio della certezza del diritto. Tuttavia, in ragione delle gravi conseguenze connesse alla perdita della cittadinanza sotto il profilo del diritto UE, essa ha ritenuto che il principio di effettività implica che tale termine possa decorrere, determinando quindi la perdita ipso iure della cittadinanza senza che le autorità competenti esaminino la proporzionalità delle conseguenze connesse a tale perdita, a condizione che la persona interessata sia preventivamente e debitamente informata della perdita della cittadinanza o dell’imminenza della perdita e del diritto di presentare, entro tale termine, una domanda per il mantenimento o il riacquisto della cittadinanza.

In secondo luogo, stante la coincidenza tra il termine per la presentazione della domanda, previsto dalla legislazione danese, e il momento in cui devono sussistere le condizioni necessarie a dimostrare l’esistenza di un collegamento con la Danimarca - ossia il compimento del 22° anno di età -, la Corte ha concluso che il termine per la presentazione della domanda «deve […] estendersi, per un periodo ragionevole, oltre la data in cui detta persona compie tale età» (par. 50). Questa garanzia è, infatti, necessaria per consentire all’interessato di presentare tutti gli elementi pertinenti, i quali potrebbero prodursi fino a quel momento.

In conclusione, la Grande Sezione ha dichiarato che l’art. 20 TFUE, letto alla luce dell’art. 7 della Carta, non osta alla normativa di uno Stato membro che prevede la perdita ipso iure della propria cittadinanza, al compimento dei 22 anni di età, per i cittadini, che siano nati all’estero e non abbiano mai soggiornato nel territorio dello Stato in condizioni tali da dimostrare un collegamento effettivo con il suddetto Stato membro. Tuttavia, è necessario che al soggetto interessato sia garantita la possibilità di presentare, entro un termine ragionevole, una domanda di mantenimento o di riacquisto della cittadinanza tale da determinare un esame, da parte delle autorità competenti, circa la proporzionalità delle conseguenze della perdita della cittadinanza nazionale sotto il profilo del diritto dell’Unione e che, eventualmente, sia consentito a tali autorità di disporre il mantenimento della cittadinanza o il suo riacquisto ex tunc. Il principio di effettività richiede, in particolare, che il suddetto termine si protragga, per un periodo ragionevole, oltre il raggiungimento del 22° anno di età della persona interessata, e decorra solo a condizione che le autorità competenti abbiano debitamente informato la persona interessata della perdita della sua cittadinanza o dell’imminenza di tale perdita e del suo diritto di domandare, entro detto termine, il mantenimento o il riacquisto della cittadinanza.

 

[1] Art. 20, par. 1, TFUE: «È istituita una cittadinanza dell'Unione. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce».

[2] Corte di Giustizia (Grande Sezione), sentenza del 2 marzo 2010, Rottmann, C-135/08, ECLI:EU:C:2010:104.

[3] Corte di Giustizia (Grande Sezione), sentenza del 12 marzo 2019, Tjebbes, C-221/17, ECLI:EU:C:2019:189.

[4] Corte di Giustizia (Grande Sezione), sentenza del 18 gennaio 2022, Wiener Landesregierung (Révocation d'une assurance de naturalisation), C-118/20, ECLI:EU:C:2022:34.

[5] Tale statuizione si trova, per la prima volta, in Corte di Giustizia, sentenza del 20 settembre 2001, Grzelczyk, C-184/99, ECLI:EU:C:2001:458, par. 31; essa è poi stata costantemente ribadita nella giurisprudenza successiva in materia di cittadinanza.

[6] In questo senso si veda anche Corte di Giustizia, sentenze del 2 marzo 2010, Rottmann, cit., parr. 42 e 45, del 12 marzo 2019, Tjebbes e a., cit., par. 32, e del 18 gennaio 2022, Wiener Landesregierung (Revoca di una garanzia di naturalizzazione), cit., par. 51.

[7] In tal senso, v. anche Corte di Giustizia, sentenze del 2 marzo 2010, Rottmann, cit., par. 51, del 12 marzo 2019, Tjebbes e a., cit., par. 33, e del 18 gennaio 2022, Wiener Landesregierung (Revoca di una garanzia di naturalizzazione), cit., par. 52.

[8] Conclusioni dell’avvocato generale Maciej Szpunar presentate il 26 gennaio 2023 sulla causa C‑689/21, X c. Udlændinge- og Integrationsministeriet, ECLI:EU:C:2023:53, par. 65.

[9] Il principio di autonomia procedurale è stato affermato, per la prima volta dalla Corte di giustizia, nella sentenza del 16 dicembre 1976, Rewe v Landwirtschaftskammer für das Saarland, C-33/76, ECLI:EU:C:1976:188, par. 5.

[10] Tale espressione, usualmente impiegata nella giurisprudenza della Corte sul punto, è stata utilizzata per la prima volta nella sentenza del 9 novembre 1983, Amministrazione delle finanze dello Stato c. San Giorgio, C-199/82, ECLI:EU:C:1983:318, par. 14.