Il diritto dell’Unione non osta, in principio, al divieto imposto ai dipendenti di un’amministrazione comunale e contenuto in un regolamento interno di indossare il velo islamico sul posto di lavoro (3/2023)

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Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 28 novembre 2023, Commune d’Ans, causa 148/22, ECLI:EU:C:2023:924

Nella sentenza Commune d’Ans, la Corte di giustizia, nella formazione della Grande sezione, si è pronunciata in via pregiudiziale circa il divieto contenuto in un regolamento interno imposto da un datore di lavoro pubblico ai suoi dipendenti di portare qualsiasi segno visibile che possa rivelare la loro appartenenza religiosa sul posto di lavoro. La Corte di giustizia, riprendendo la sua giurisprudenza precedente, ha, da un lato, escluso che tale divieto integri una discriminazione diretta e, dall’altro lato, rimesso al giudice nazionale la valutazione se una siffatta differenza di trattamento costituisca una discriminazione indiretta per motivi di religione o convinzioni personali. In particolare, la Corte di giustizia ha preso in esame la situazione peculiare dovuta alla natura pubblica del datore di lavoro e ha rilevato che la “neutralità esclusiva” perseguita da una pubblica amministrazione sul posto di lavoro può costituire una finalità legittima, in quanto la direttiva 2000/78 lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri quanto allo spazio che intendono concedere, al loro interno, alla religione o alle convinzioni filosofiche nel settore pubblico. Inoltre, la Corte di giustizia ha ritenuto che i mezzi appropriati e necessari per perseguire tale obiettivo non ammettano alcuna manifestazione visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, sia quando i lavoratori sono a contatto con gli utenti del servizio pubblico sia quando sono a contatto tra loro, rimettendo infine al giudice nazionale il bilanciamento degli interessi in gioco, che dovrà tenere conto, da un lato, del diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, il quale ha come corollario il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione e, dall’altro lato, del principio di neutralità dello Stato.

 

La sentenza Commune d’Ans si iscrive nel solco della ormai nutrita giurisprudenza della Corte di giustizia relativa al divieto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro[1], con la particolarità che, nella presente pronuncia, tale divieto non proviene da un datore di lavoro privato, ma da un datore di lavoro pubblico, nella fattispecie un comune.

I fatti all’origine del rinvio pregiudiziale riguardavano la signora OS, dipendente di un comune in Belgio con funzioni che principalmente non implicavano un contatto con il pubblico, la quale aveva formulato una richiesta al datore di lavoro circa la possibilità di portare il velo islamico sul posto di lavoro. La giunta comunale aveva respinto tale domanda, vietando alla dipendente di indossare, nell’esercizio della sua attività professionale, segni che rivelassero le sue convinzioni religiose, fino all’adozione di una normativa generale relativa all’uso di tali segni all’interno dell’amministrazione comunale. Successivamente, il consiglio comunale aveva modificato il regolamento di lavoro di tale comune inserendovi un obbligo di “neutralità esclusiva” sul luogo di lavoro, inteso come divieto per tutti i dipendenti del comune di indossare, in tale luogo, qualsiasi segno visibile idoneo a rivelare le loro convinzioni personali, in particolare religiose o filosofiche, a prescindere dal fatto che tali dipendenti fossero o meno a contatto con il pubblico.

La ricorrente aveva quindi impugnato tale divieto davanti al tribunale del lavoro di Liegi, il quale, nutrendo dubbi circa la conformità del regolamento comunale con alcune disposizioni della direttiva 2000/78[2], aveva deciso di sospendere il procedimento e di rivolgersi alla Corte di giustizia in via pregiudiziale.

La Corte di giustizia, innanzitutto, ricorda che la nozione di “religione” di cui all’art. 1 della direttiva 2000/78 comprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni, sia il forum externum, ossia la manifestazione pubblica della fede religiosa. Inoltre, la Corte di giustizia ricorda come i termini “religione” e “convinzioni personali” debbano essere trattati come due facce dello stesso e unico motivo di discriminazione, come emerge sia dall’art. 1 della direttiva 2000/78 che cita allo stesso titolo la religione e le convinzioni personali, sia dall’art. 19 TFUE, ai sensi del quale il legislatore dell’Unione europea può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate, tra l’altro, sulla “religione o le convinzioni personali”, e dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“Carta”), che, tra i diversi motivi di discriminazione che esso menziona, prende in considerazione “la religione o le convinzioni personali” (par. 22).

In secondo luogo, la Corte di giustizia precisa che un divieto come quello previsto dal regolamento di lavoro del comune rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, il cui art. 3, par. 1, prevede che quest’ultima si applichi a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico (par. 23).

Dopo tali premesse, la Corte di giustizia valuta se il divieto imposto dal comune ai suoi dipendenti di indossare qualsiasi segno visibile che possa rivelare la loro appartenenza ideologica o filosofica o le loro convinzioni politiche o religiose, possa costituire una discriminazione diretta, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. a), della direttiva 2000/78. Ricordando la propria giurisprudenza sul punto, la Corte distingue l’ipotesi in cui una norma interna stabilita da un datore di lavoro che vieta sul luogo di lavoro soltanto l’uso di segni di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, che siano vistosi e di grandi dimensioni può costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali (par. 25), rispetto all’ipotesi in cui tale norma interna non costituisce una siffatta discriminazione, ove riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, una neutralità di abbigliamento (par. 26). Infatti, in quest’ultimo caso, una norma siffatta non istituisce, in via di principio, una differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o a tali convinzioni personali (par. 27).

Nel caso di specie, la Corte di giustizia, pur ricordando la maniera generale e indifferenziata con cui è formulata la disposizione in questione, rimette al giudice del rinvio la valutazione se il divieto imposta dal comune possa costituire una discriminazione diretta. Nel caso tale discriminazione non sia considerata integrata, la Corte di giustizia valuta se un siffatto divieto possa però comportare un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o a determinate convinzioni personali, costituendo una discriminazione indiretta fondata su uno di tali motivi, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), della direttiva 2000/78 (par. 28).

Una differenza di trattamento non costituisce tuttavia discriminazione indiretta qualora sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Pur rimettendo al giudice nazionale la questione di stabilire, in ultima battuta, se tali requisiti siano integrati, la Corte di giustizia fornisce alcune indicazioni circa, in primo luogo, la finalità legittima perseguita dal regolamento di lavoro del comune. La Corte di giustizia ritiene che la disposizione in questione “ha lo scopo di attuare il principio di neutralità del servizio pubblico, il quale troverebbe il suo fondamento giuridico negli articoli 10 e 11 della Costituzione belga, nel principio di imparzialità e nel principio di neutralità dello Stato” (par. 32).

In particolare, la Corte di giustizia riconosce che il diritto dell’Unione europea lascia a ciascuno Stato membro, “ivi compresi, eventualmente, i suoi enti infrastatali, nel rispetto delle competenze loro attribuite, un [margine di discrezionalità] nella concezione della neutralità del servizio pubblico che esso intende promuovere sul luogo di lavoro” (par. 33). Pertanto, la politica di “neutralità esclusiva” che una pubblica amministrazione intende imporre ai suoi dipendenti al fine di instaurare al suo interno un ambiente amministrativo totalmente neutro, può essere considerata oggettivamente giustificata da una finalità legittima. Allo stesso modo, può esserlo anche una scelta di un’altra pubblica amministrazione “a favore di un’altra politica di neutralità, quale un’autorizzazione generale e indiscriminata a indossare segni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti, oppure un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano tali contatti” (ibid.).

Infatti, la direttiva 2000/78 stabilisce soltanto un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, lasciando un margine di discrezionalità agli Stati membri “quanto allo spazio che intendono concedere, al loro interno, alla religione o alle convinzioni filosofiche nel settore pubblico” (par. 34). Tuttavia tale margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri, “in mancanza di consenso a livello dell’Unione, deve tuttavia andare di pari passo con un controllo, che spetta ai giudici nazionali e dell’Unione, consistente, in particolare, nel verificare se le misure adottate, a seconda dei casi, a livello nazionale, regionale o locale siano giustificate in linea di principio e se siano proporzionate” (ibid.).

Inoltre, secondo la Corte di giustizia, nella direttiva 2000/78 il legislatore dell’Unione non ha effettuato esso stesso la necessaria conciliazione tra la libertà di pensiero, di convinzione e di religione e le finalità legittime che possono essere invocate a giustificazione di una disparità di trattamento, ma ha lasciato il compito di procedere a tale conciliazione agli Stati membri e, se del caso, ai loro enti infrastatali, nonché ai loro giudici (par. 35). Alla luce di quanto detto, la Corte di giustizia ritiene che una disposizione come quella in causa del regolamento di lavoro persegua una finalità legittima.

In secondo luogo, la Corte di giustizia valuta se la misura interna sia idonea a garantire la buona applicazione della finalità perseguita dal datore di lavoro. Nel caso di specie, ciò presuppone che l’obiettivo della “neutralità esclusiva” che il comune si è prefissato sia realmente perseguito in modo coerente e sistematico, e che il divieto di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche e religiose, previsto dal regolamento di lavoro si limiti allo stretto necessario (par. 37). In particolare, secondo la Corte di giustizia, un ambiente amministrativo totalmente neutro può essere perseguita efficacemente solo se non è ammessa alcuna manifestazione visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, quando i lavoratori sono a contatto con gli utenti del servizio pubblico o sono a contatto tra loro, poiché il fatto di indossare qualsiasi segno, anche se di piccole dimensioni, compromette l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo asseritamente perseguito e rimette così in discussione la coerenza stessa di tale politica (par. 39).

La Corte di giustizia rimette infine al giudice nazionale procedere al bilanciamento degli interessi in gioco, “tenendo conto, da un lato, dei diritti e dei principi fondamentali in questione, ossia, nel caso di specie, il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione garantito all’art. 10 della Carta, il quale ha come corollario il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione sancito all’art. 21 della stessa e, dall’altro lato, del principio di neutralità” (par. 40).

Quanto alla seconda questione sollevata dal giudice del rinvio, relativa alla possibilità che il divieto imposto dall’amministrazione pubblica possa integrare una discriminazione indiretta fondata sul sesso ai sensi della direttiva 2000/78 in quanto tale divieto sembra riguardare in maggioranza donne, la Corte di giustizia rileva che la decisione di rinvio non contiene indicazioni che consentano di determinare il contesto di fatto nonché i motivi per i quali una risposta a tale questione sarebbe necessaria per la soluzione della controversia. In ogni caso, la Corte di giustizia sottolinea come l’esistenza di un’eventuale discriminazione indiretta fondata sul sesso rientrerebbe nell’ambito di applicazione della direttiva 2006/54[3], che definisce espressamente la nozione di discriminazione indiretta fondata sul sesso, e non nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, che è l’unico atto menzionato da detta questione (par. 48).

 

[1] Corte di giustzia, sentenza del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions, C‑157/15, EU:C:2017:203; sentenza del 14 marzo 2017, Bougnaoui e ADDH, C‑188/15, EU:C:2017:204; sentenza del 15 luglio 2021, WABE e MH Müller Handel, C‑804/18 e C‑341/19, EU:C:2021:594; sentenza del 13 ottobre 2022, S.C.R.L. (Abbigliamento con connotazione religiosa), C‑344/20 , EU:C:2022:774.

[2] Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, p. 16).

[3] direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006,riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GU 2006, L 204, p. 23)