Editoriale n. 2/2020

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caretti paolo mod

Le recenti proposte di revisione costituzionale tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta

All’inizio dell’attuale legislatura, dopo la vicenda che ha portato al rigetto per via referendaria della riforma Renzi-Boschi, ci si sarebbe aspettati una pausa di riflessione su questo versante. Si è trattato infatti, come è noto, di una vicenda che ha diviso in modo aspro non solo le forze politiche e l’elettorato, ma anche la dottrina costituzionalistica. L’esigenza di una fase di “raffreddamento” del dibattito credo fosse avvertita da molti. Ma così non è stato. Già a partire dal “contratto” sul quale si è formato il primo Governo Conte si è delineato un programma di revisioni puntuali della Costituzione cui altre se ne sono aggiunte strada facendo nel passaggio dal primo al secondo Governo Conte.

I punti oggetto dell’intervento di revisione sono la riduzione del numero dei parlamentari, il rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, l’eliminazione del divieto di mandato imperativo, la parificazione dei requisiti per l’elettorato del Senato (approvata alla Camera nel luglio 2019 e ora al Senato- AS 1440), l’eliminazione del riferimento alla “base regionale” per l’elezione del Senato (art. 57 Cost).

Di questo “pacchetto” di proposte, quelle che hanno fatto più strada in Parlamento sono quella relativa al numero di parlamentari e quella relativa al rafforzamento degli istituti di democrazia diretta. Svolgerò qui qualche considerazione solo su queste due (ma richiamando anche il tema del divieto di mandato imperativo ) perché mi pare che presentino un filo rosso che le unisce e che merita qualche approfondimento. La prima proposta ha ormai superato la fase parlamentare e attendo (in autunno) di essere sottoposta al referendum confermativo, mentre la seconda, dopo un avvio promettente del dibattito parlamentare, pare ora essersi fermata ( ma questo non ha ai nostri fini molta importanza).

Il tema della riduzione del numero dei parlamentari non è certo nuovo, essendo stato oggetto di numerose proposte negli anni che ci stanno alle spalle: a partire dai risultati della Commissione Bozzi, per passare a quelli della Commissione D’Alema per arrivare alle proposte di riforma del 2005 e del 2016. Si è trattato naturalmente di proposte diverse e inserite in progetti di riforma ampi e diversi anch’essi, ma nessuna delle quali è arrivata al traguardo.

Quella che viene sottoposta ora alla consultazione referendaria è contenuta in un unico disegno di legge ed opera esclusivamente sui numeri (da 615 a 400 deputati; da 315 a 200 senatori), riducendo complessivamente del 36,5% il tasso di rappresentatività delle due Camere.

Fanno da corollario a questa proposta, come accennato, la parificazione dell’elettorato tra Camera e Senato, l’elezione del Senato su base circoscrizionale e non più regionale, nonché la riduzione da tre a due dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato e la limitazione a 5 dei senatori a vita di nomina presidenziale.

Le ragioni che hanno spinto a riprendere questa “vecchia” proposta sono sostanzialmente due : una riduzione delle spese per la politica e l’accrescimento della funzionalità dell’organo parlamentare. Sull’una e sull’altra ci sarebbe da esprimere più di un dubbio e più di una perplessità, risultando la prima risibile e la seconda una mera scommessa tutta da verificare. Ciò che invece è sicuro è che si tratta di una proposta che ha alle spalle una filosofia precisa e cioè quella di marginalizzare il ruolo del Parlamento e che si iscrive in un quadro dove sono già presenti elementi che vanno in questa direzione: dalla sostanziale abolizione del finanziamento pubblico dei partiti alla polemica aspra in materia di vitalizi, per non parlare della prassi dei maxi-emendamenti con annessa questione di fiducia e così via. Difficile non pensare che questo sarà il più che probabile esito finale di una proposta che opera un taglio orizzontale significativo dei parlamentari senza tener conto di alcun criterio che non sia quello di dimezzare i numeri dei componenti delle due Camere, che dilata sensibilmente il rapporto proporzionale tra rappresentanti e rappresentati (si passerebbe da 1 deputato ogni 96000 elettori a 151000 e da un senatore ogni 188000 elettori a 302000), conquistando all’Italia (al nostro Parlamento) uno dei più bassi tassi di rappresentatività tra i Paesi membri dell’Unione. Nel calare la sua scure il legislatore costituzionale tra rappresentatività ed efficienza ha puntato esclusivamente su quest’ultima che, semmai potrà essere costruita attraverso una profonda revisione dei regolamenti parlamentari.

La seconda proposta interviene sulla disciplina attuale degli istituti di democrazia diretta e in particolare sull’iniziativa legislativa popolare. L’idea è quella di introdurre un nuovo tipo di referendum ( c.d. propositivo, in realtà deliberativo) al fine di rafforzare un istituto che sin qui non ha certo avuto un grande effetto nella dinamica della forma di governo. In sintesi, questa proposta funzionerebbe nel modo seguente. Qualora il disegno di iniziativa popolare venga sottoscritto da almeno 500.000 elettori, essa viene inviata alle Camere le quali hanno 18 mesi per approvarla senza modifiche sostanziali. Se la proposta non viene approvata nel termine detto o viene approvata con modifiche non meramente formali, i promotori possono chiedere che il testo originariamente entrato in Parlamento venga sottoposto a referendum. Tralascio qui le altre fasi procedurali che vedono l’intervento della Corte in sede di giudizio di ammissibilità della proposta di legge sulla scorta della previsione di appositi limiti e così via, perché il punto che mi preme sottolineare è un altro. A me pare che con questo istituto si dia vita ad un procedimento legislativo ulteriore e autonomo rispetto a quello ordinario che si svolge in Parlamento che relega quest’ultimo ad un mero prendere o lasciare ( nessuna altra iniziativa legislativa, neppure quella del Governo può aspirare a una garanzia così forte, ossia di non subire alcuna modifica se non formale). Non solo, ma si tratta di un istituto che una volta attivato produce una serie di effetti negativi sui lavori parlamentari: si pensi al fatto della sua incidenza sulla programmazione dei lavori potendo vantare una sorta di priorità o si pensi al fatto che per tutto il periodo ( 18 mesi) il Parlamento non può legiferare autonomamente nella materia oggetto della proposta ecc. In questo modo, un istituto concepito come elemento di stimolo dell’attività parlamentare si trasforma in un elemento alternativo al regolare svolgersi di tale attività.

Se a queste due proposte di aggiunge quella (per ora silente, ma di cui si è espressamente parlato all’inizio della legislatura) relativa all’abolizione del divieto di mandato imperativo, non sarà difficile coglierne la “filosofia” cui esse si ispirano che pare quella di mettere in discussione lo stesso principio della rappresentanza politica piuttosto che quello di correggerne le inefficienze. La diminuzione drastica del numero dei parlamentari sulla base di un mero criterio numerico, l’introduzione di un procedimento legislativo che sostanzialmente bypassa il legislatore nazionale, l’abolizione del divieto di mandato imperativo( una delle storiche guarentigie dei parlamentari) appaiono come altrettanti tasselli di un’unica strategia che distingue queste proposte di revisione costituzionale da tutte quelle avanzate in passato.

Esse infatti non puntano tanto ad incidere sul funzionamento della forma di governo, riequilibrando in vario modo i rapporti Parlamento-Governo ma lasciando invariato il principio rappresentativo ( dandone semmai interpretazioni diverse), quanto mirano ad incidere su quello stesso principio , partendo ( così pare) dalla premessa che esso non sia più idoneo a recepire e mediare le domande politiche e sociali.

Se questa tendenza dovesse davvero radicarsi come nuova cultura istituzionale, temo che i mali che affliggono il nostro sistema rappresentativo ( ma non solo il nostro) finirebbero per aggravarsi ulteriormente, avviando la nostra fragile democrazia sul crinale scivoloso e ambiguo tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta o semidiretta.