Editoriale n. 1/2023

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CarliL'attuazione dell'autonomia differenziata

Ci sono voluti 22 anni per la nascita delle Regioni ordinarie (1948 – 1970) e 22 anni anche per cominciare ad attuare sul serio l’autonomia differenziata mediante un disegno di legge governativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 marzo scorso (2001 – 2023).
La disciplina dell’autonomia differenziata è la seguente (art. 116, terzo comma): “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia…possono essere attribuite ad altre Regioni [altre, rispetto alle Regioni speciali previste nel primo comma], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali…La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata”.

Tante sono le materie delle Regioni ordinarie alle quali poter applicare le forme e condizioni particolari di autonomia (tutte le materie concorrenti, più tre materie di competenza esclusiva statale).

Questa previsione viene considerata, secondo una parte della dottrina, in contrasto con la Costituzione e, da altri, inopportuna.

Sarebbe incostituzionale perché darebbe vita ad un tertium genus delle Regioni, non previsto in Costituzione, e perché, con legge ordinaria, anche se approvata a maggioranza assoluta, si modificherebbe la Costituzione.

L’autonomia differenziata e le Regioni speciali hanno, in Costituzione, una identica previsione: entrambe si basano su “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Ma mentre la previsione relativa alle Regioni speciali prevede una legge costituzionale per attuare le forme e condizioni particolari di autonomia, la fonte dell’autonomia differenziata è una legge ordinaria che, anche se approvata a maggioranza assoluta, non può evidentemente modificare la Costituzione.

E allora, a mio avviso, non si può, per attuare l’autonomia differenziata[1], trasformare la potestà legislativa concorrente in competenza residuale, togliendo cioè il limite dei principi fondamentali, né si possono prevedere materie di competenza regionale diverse da quelle indicate in Costituzione. Ma tutta la dottrina ha segnalato che, a seguito delle poche leggi cornice approvate, sono diventati principi fondamentali singoli articoli o anche commi delle leggi ordinarie e che il limite delle materie è stato generoso nei confronti dello Stato ed avaro invece nei confronti delle Regioni. Con l’autonomia differenziata, quindi, si potranno ridurre i principi fondamentali desunti dalla normativa esistente e, soprattutto, passare alle Regioni competenze amministrative che i Ministeri si sono trattenute senza che vi fosse la necessità di assicurarne l’esercizio unitario. Operazione questa già prevista, con riferimento a tutte le Regioni ordinarie, dal primo comma dell’art. 118 Cost. ancora inattuato, cosicché le leggi approvative delle intese possono aprire la strada alla sua attuazione.

Le critiche all’opportunità dell’autonomia differenziata hanno parlato di grande operazione propagandistica; di disfacimento della democrazia, di 20 sistemi sanitari diversi e marginalizzazione del Parlamento; di rottura dell’unità nazionale, perché le Regioni forti si rafforzerebbero ancora di più e sparirebbe il contratto unico nell’istruzione; perché si avrebbe la regionalizzazione della scuola e dell’istruzione e la secessione dei ricchi; perché verrebbe meno l’autonomia solidale.

Inoltre, è in corso il reperimento delle 50.000 firme necessarie per una proposta di legge popolare abrogativa dell’art. 116.3, con il consenso di oltre 120 giuristi.

Critiche così radicali sono state determinate anche dal fatto che Veneto e Lombardia hanno promosso due referendum che chiedevano se si voleva che la Regione avesse ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, mentre il loro vero oggetto era l’incremento della spesa pubblica sul proprio territorio. “A me non interessano nuove competenze” ha ripetuto più volte il presidente della Lombardia Maroni, “ma avere maggiori risorse”. E il presidente del Veneto Zaia in varie interviste ha motivato le sue richieste con la necessità di una forte riduzione del residuo fiscale.

Se mettiamo da parte questi eccessi, che non sono inevitabili perché è prevista la necessità dell’intesa con il Governo, resta il fatto che l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, consente di porre fine a quindici Regioni con le stesse identiche competenze, nonostante le loro differenze per tradizioni storiche, estensione territoriale, numero di abitanti, vocazione turistica, agricola o industriale. Si potrebbe anche sostenere che la situazione attuale configura una violazione del principio di uguaglianza che vieta, com’è noto, di trattare allo stesso modo situazioni diverse. Solo l’autonomia consente di governare con normative differenziate adeguate alle diverse realtà: l’uniformità da sola non è in grado di garantire l’uguaglianza sostanziale.

Nessuna intesa è stata ancora sottoscritta. Esiste un quadro sinottico delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” previste dalle bozze di intese negoziate dal Governo con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, dove sono riportate le competenze nuove od ulteriori che le Regioni richiedono e per le quali c’è l’accordo col Governo, ma vi sono indicate anche competenze per le quali manca detto accordo o questo è venuto meno rispetto a una bozza precedente del febbraio 2019.

Inoltre, è di questi giorni la ricognizione, una prima ricognizione, della normativa e delle funzioni statali nelle materie di cui all’art. 116.3 fatta dall’Ufficio legislativo del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, che dovrà essere modificata e integrata dalle Amministrazioni competenti: altra conferma che nessuna decisione è stata ancora presa.

L’Italia è un paese accentrato, ma con un centro debole; le Regioni hanno molte funzioni frammentate per le note resistenze ministeriali a trasferire funzioni alle Regioni senza trattenerne qualcuna per sé. L’attuazione della autonomia differenziata può essere l’occasione per riordinare il centro e, nello stesso tempo, rendere possibili normative adeguate alle diverse realtà regionali: obiettivo difficile da conseguire, ma non impossibile.

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Il Governo ha presentato un disegno di legge per attuare l’autonomia differenziata; le Regioni e le altre autonomie territoriali cosa hanno fatto, visto che spetta a loro l’iniziativa?

Il Governo Gentiloni ha firmato, tramite il sottosegretario Bressa, tre accordi preliminari, definiti pre-intese, il 28 febbraio 2018. Il primo Governo Conte, un anno dopo e cioè il 25 febbraio 2019 ha firmato tre bozze di intese con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna.  

In sede di Conferenza unificata sul disegno di legge Calderoli le Regioni e le Province autonome hanno espresso parere favorevole a maggioranza, con il voto contrario delle Regioni Campania, Puglia, Toscana e, anche, Emilia-Romagna, nonostante quest’ultima avesse presentato, insieme al Veneto e alla Lombardia, richiesta di intesa ex 116.3. Segno evidente che l’autonomia differenziata è dominata dalla politica poiché tutte le Regioni governate dal centro destra hanno votato a favore e invece contro le quattro Regioni governate dalla sinistra.

Ma con quali motivazioni le Regioni hanno chiesto maggiori competenze? Negli accordi preliminari del 28 febbraio 2018 si fa riferimento a “specificità proprie della Regione richiedente e immediatamente funzionali alla sua crescita e sviluppo”. Il presidente della Giunta emiliana Stefano Bonaccini ha richiesto più competenze “per avere più libertà di gestione su alcune precise competenze”. Nella richiesta di intesa della Regione Piemonte si indicano quattro motivazioni: per un rilancio socioeconomico del territorio; per la riunificazione di competenze solo parzialmente attribuite; per il raggiungimento di obiettivi di semplificazione; per specificità.

L’accettazione del Governo di discutere di intese sostanzialmente prive di un’adeguata motivazione, fatta eccezione per quella che fa riferimento alla riunificazione di competenze solo parzialmente attribuite, è un’altra prova che sarà la politica a decidere sulla base, sperabilmente, dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, previsti dal primo comma dell’art. 118 Cost., che non è ancora stato attuato.

L’ANCI si opporrà perché ha chiesto che le funzioni passate alle Regioni siano solo quelle legislative, rivendicando la generale competenza dei Comuni per l’esercizio delle funzioni amministrative prevista nell’art. 118 della Costituzione; e anche secondo l’UPI le Regioni non dovrebbero venir meno al compito prioritario che la Costituzione loro affida.

Nessuna modifica, invece, è stata chiesta all’art. 10 del progetto Calderoli che estende l’autonomia differenziata alle autonomie speciali, in contrasto, come segnalato all’inizio di queste note, con l’interpretazione letterale del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione.

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Il citato art. 10 (del progetto Calderoli) prevede, al secondo comma, che “Nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, si applica l’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2021, n.3 (che ha modificato il titolo quinto della Costituzione).

Lo scopo, come esplicitato nella relazione al disegno di legge, è quello di consentire anche alle autonomie speciali di “concludere intese per acquisire nuove competenze”, e la stessa Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nel fissare i principi cardine per l’autonomia, ha chiesto che l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia vada garantita anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome (14 dicembre 2022).

Le Regioni e Province autonome si muovono in ordine sparso. Alcune tacciono. Altre sostengono tesi opposte. Per il presidente della Provincia di Bolzano, l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, non riguarda le Regioni speciali e le Province autonome, ma è comunque un tema importante da presidiare perché questa riforma può avere effetti positivi, ma anche negativi per le nostre autonomie speciali. Per il presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, nonché presidente della Conferenza delle Regioni, invece, conviene alle autonomie speciali chiedere nuove competenze con il procedimento dell’art. 116, terzo comma, in quanto più veloce rispetto alla previsione statutaria che richiede la legge costituzionale.

L’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, cui rinvia il disegno di legge Calderoli, prevede che “Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.

La Corte costituzionale ha sempre detto che la specialità significa maggiore autonomia delle Regioni speciali rispetto alle Regioni ordinarie; e poiché la legge costituzionale del 2001 può consentire alle Regioni ordinarie di acquisire competenze che le Regioni speciali e le Province autonome non hanno, l’art. 10 si preoccupa di estendere a quest’ultime il di più avuto eventualmente ottenuto dalle Regioni ordinarie, per non far perdere la loro configurazione costituzionale di soggetti più autonomi di quest’ultime.

Ma in che modo Regioni speciali e Province autonome acquisirebbero le nuove competenze?

Non con il procedimento dell’intesa con il Governo e la legge approvata a maggioranza assoluta, ma invece direttamente dall’art. 10. E cioè la Regione o la Provincia autonoma eserciterebbe, come le Regioni ordinarie, la competenza che queste hanno avuto e manca invece a loro, senza bisogno del particolare procedimento previsto dall’art. 116, terzo comma, della Costituzione (intesa e legge approvata a maggioranza assoluta).

Ma inapplicabile alle autonomie speciali non è solo il procedimento previsto dall’art. 116, terzo comma Cost.

La legge costituzionale n. 3 del 2001 prevede le competenze delle quindici   Regioni ordinarie e, se alcune di queste nuove competenze la Regione speciale o la Provincia autonoma non le hanno, anche quest’ultime diventano destinatarie di quella competenza.

Ma perché ciò si verifichi, occorre che tutte le Regioni ordinarie abbiano quella identica competenza, che manca invece all’autonomia speciale. Con l’art. 116.3 Cost. le Regioni ordinarie che intendono avvalersi dell’autonomia differenziata non acquisiscono tutte le stesse competenze, ma solo quelle che chiederanno, diverse le une dalle altre; ed evidentemente non ha senso che la Regione o la Provincia autonoma acquisisca tutte le diverse e molteplici competenze ottenute dalle singole Regioni ordinarie.

D’altra parte, la Regione speciale o la Provincia autonoma la strada per vedersi riconosciute nuove competenze ce l’ha ed è la normativa di attuazione che, secondo una ormai pacifica interpretazione, esclude solo le disposizioni “contra statutum”. È noto lo sguardo benevolo che la Corte costituzionale rivolge alle norme di attuazione con le quali le autonomie speciali attuano anche gli atti normativi comunitari che evidentemente non hanno alcun riferimento a qualche norma statutaria da attuare; ed è strada molto più agevole, perché non subordinata alla legge approvata con la maggioranza assoluta.

Concludendo: il riferimento contenuto nel disegno di legge Calderoli all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 va soppresso: perché manca il presupposto della sua applicazione, e cioè l’attribuzione a tutte le Regioni ordinarie delle stesse competenze che mancano alle autonomie speciali e perché il procedimento per attribuire alle autonomie speciali nuove competenze non è quello previsto per l’autonomia differenziata dall’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

                                        

[1] L’attuazione della autonomia differenziata presuppone risolto il problema dei “livelli essenziali”. Rinvio, su questo, al convincente saggio in questo numero di Balboni e Buzzacchi.



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