Il rapporto di pregiudizialità del giudizio di disconoscimento rispetto all’accertamento di paternità (2/2023)

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Con la sentenza n. 8268 del 22 marzo 2023, la Suprema Corte di Cassazione a Sezione Unite Civili veniva chiamata a pronunciarsi sulla questione dell’accertamento dei rapporti tra l’azione di disconoscimento della paternità (azione con cui si contesta lo status di figlio) e quella di dichiarazione giudiziale di paternità (azione che tende a conseguire lo status di figlio). In specie, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., la Procura generale della Corte di Cassazione chiedeva l’enunciazione del seguente principio di diritto: «il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.p.c.».

 

In origine, la vicenda in esame prendeva le mosse dalla richiesta di tre fratelli al Tribunale di Roma di dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti dell’uomo con cui loro madre aveva intrattenuto una duratura relazione extraconiugale e dalla quale veniva data prova che fossero nati nove dei dodici figli della donna, tra cui proprio i tre attori. Contestualmente, tuttavia, risultava ancora pendente, dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro, l’azione giudiziale per il disconoscimento di paternità promossa sempre dai tre fratelli contro l’originario padre, marito della madre; dalle indagini compiute, infatti, si riscontrava l’assenza di un legame di filiazione con quest’uomo.

Nel giudizio di accertamento di paternità si costituivano alcuni tra i fratelli degli attori eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità dell’azione attorea proposta. A sostegno della posizione assunta, essi adducevano che gli attori risultassero ancora figli dell’originale padre, atteso che il giudizio di disconoscimento era pendente in secondo grado. Da parte loro, gli attori chiedevano allora la sospensione del procedimento, in attesa della definizione del processo di disconoscimento ancora in corso.

Il Tribunale di Roma, rilevata la pendenza del procedimento di disconoscimento, rigettava l’istanza di sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. A supporto della propria decisione, i giudici adducevano che tra i due giudizi non vi fosse un nesso di stretta pregiudizialità teso ad evitare un contrasto tra giudicati e necessario per la dichiarazione di sospensione. Doveva pertanto ritenersi non ammissibile il giudizio di riconoscimento di una nuova paternità, perché il presupposto per l’esperimento di tale azione era l’assenza di uno stato di figlio accertato[1]. Tale sentenza, non impugnata, passava in giudicato.

Sennonché, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 363 c.p.c., la Procura generale tornava sul caso, chiedendo che la Corte enunciasse, nell’interesse della legge, il principio di diritto a cui il giudice avrebbe dovuto attenersi. In particolare, declinava la questione di diritto nelle seguenti domande: I) il giudizio finalizzato ad accertare la paternità al di fuori del matrimonio può essere proposto anche se la paternità del marito non è ancora stata disconosciuta giudizialmente con pronuncia passata in giudicato?; II) il processo di accertamento giudiziale di paternità biologica può essere proposto e sospeso ex art. 295 c.p.c., sulla base di un nesso di pregiudizialità tecnico-giuridica, in attesa della definizione del giudizio di disconoscimento della paternità?. A riguardo, veniva evidenziato come fosse necessaria l’affermazione di un principio di diritto compatibile con la piena tutela dei diritti dei soggetti coinvolti e il rispetto di necessaria economia processuale, quale strumento di deflazione dei contenziosi. Ad avviso della Procura, infatti, l’istituto della sospensione ex art. 295 c.p.c. poteva soccorrere le esigenze delle parti, senza dover costringere loro ad attendere il tempo del giudizio di disconoscimento e di dover incardinare ex novo un’azione già proposta.

Parallelamente al deposito delle richieste del Procuratore Generale alla Corte di Cassazione, uno dei due fratelli proponeva ricorso dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ravvisando una violazione dell’art. 8 della CEDU, in ragione del fatto che l’ordinamento giuridico italiano non consentiva l’introduzione di una domanda di riconoscimento della paternità biologica prima della previa rimozione del diverso status in altro giudizio di disconoscimento. Procedimento quest’ultimo che, nel caso di specie, si era protratto, tra l’altro, per oltre dieci anni, lasciando l’attore in una situazione di grave incertezza della propria identità.

I giudici di Strasburgo, ritenuto il ricorso ricevibile, affermavano, in primo luogo, che i fatti relativi al procedimento di paternità rientrassero inconfutabilmente nell’ambito di applicazione dell’art. 8 della Convenzione, la quale riconosce il diritto di ogni individuo a conoscere le proprie origini e a farle stabilire legalmente[2].

In secondo luogo, la Corte dichiarava come contraria all’art. 8 della CEDU, l’incertezza sull’identità personale cagionata dall’impossibilità di proporre un’azione per l’accertamento della paternità prima del passaggio in giudicato del disconoscimento; un procedimento che, a causa delle tempistiche della giustizia italiana, tendeva ad estendersi per un periodo molto lungo, pregiudicando notevolmente la posizione dell’interessato. Di conseguenza, a parere della Corte, il giudizio di disconoscimento aveva interferito in modo sproporzionato con il diritto al rispetto della vita privata dell’interessato[3]. Per i motivi addotti, lo Stato italiano veniva condannato al risarcimento, a titolo di danno morale, della somma di euro 10.000,00 ed al pagamento delle spese.

Tornando, invece, alle questioni poste dalla Procura generale alle Sezioni Unite, investite della questione, quest’ultime accoglievano la richiesta di pronuncia ai sensi dell’art. 363 c.p.c., ritenendone sussistenti i presupposti. Tale decisione veniva assunta anche in ragione delle implicazioni euro-unitarie nella materia conseguenti alla violazione ravvisata dalla Corte EDU dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Nel merito, la Corte premetteva che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e 253 c.c., in virtù del carattere unico ed indivisibile dello status di figlio e per evitare indebite sovrapposizioni, l’accertamento non può intervenire quando sussista un rapporto di filiazione preesistente. È necessaria, dunque, la rimozione del previgente status che avviene esclusivamente a decorrere dal passaggio in giudicato dell’azione di disconoscimento; d’altronde, a differenza di quanto accade in altri sistemi, nell’ordinamento italiano non è ammesso il cd. riconoscimento di rottura, ovvero l’estinzione automatica, senza intervento giudiziale, del previgente titolo di figlio a seguito dell’accertamento della sussistenza di un diverso stato di filiazione. Sul punto, la Corte di Cassazione richiamava la pronuncia della Corte Costituzione n. 177 del 2022, già ampiamente menzionata, tra l’altro, nella sentenza della Corte EDU. In particolare, veniva evidenziato come anche il giudice delle leggi avesse affermato, nella propria pronuncia, la necessità della previa demolizione in via giudiziale dello status, anziché di una sua rimozione automatica, ovvero di una sua caducazione per effetto del successivo accertamento di un’identità contrastante. Questo elemento veniva giustificato, anzitutto, per l’esigenza di evitare instabilità e incertezza dello status filiationis da cui si diramano plurimi effetti di stampo pubblicistico e privatistico nell’ordinamento; per altro verso, questa costruzione trovava fondamento nel dover assicurare a chi è genitore di essere parte, e dunque di avere una congrua tutela sostanziale e processuale in questo tipo di azioni.

Chiarito il punto, la Corte proseguiva chiedendosi, relativamente al rapporto tra azione di disconoscimento di una e di accertamento di altra paternità, se la rimozione dello status di figlio costituisse un presupposto processuale della domanda ovvero una questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico.

Sotto il primo profilo, la Corte riteneva che non paresse ragionevole considerare la rimozione del preesistente status di figlio quale presupposto processuale della domanda di accertamento[4]. Mentre per quanto riguardava la seconda questione, i giudici accoglievano quell’orientamento – già fatto proprio in precedenti loro pronunce – secondo cui il procedimento con cui viene disconosciuto lo stato di figlio sia pregiudiziale rispetto a quello mediante cui viene rivendicata altra paternità. Quindi, il nesso è idoneo a giustificare la sospensione del secondo procedimento, al fine di evitare il rischio di pronunce contrastanti[5]. Del resto, è la stessa legge a prevedere espressamente la sussistenza di tale nesso nel caso di disconoscimento e successivo accertamento di paternità, dal momento che richiede di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante prima di poter agire con la dichiarazione di altra paternità[6].

A fronte di ciò, pertanto, nel caso di contemporanea pendenza di un procedimento di disconoscimento di paternità e di un altro procedimento volto alla dichiarazione giudiziale di altra paternità, ad avviso dei giudici di legittimità, risultava ragionevole l’utilizzo del mezzo processuale della sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c. Invero, la sospensione presuppone le seguenti condizioni: che sussista un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra due situazioni sostanziali; che queste ultime siano entrambe dedotte in giudizio; che non si realizzi la simultaneità del processo. Elementi tutti presenti, a parere della Corte, nel caso in esame.

Sebbene non oggetto specifico di valutazione, perché fattispecie diversa da quella che dava origine alla richiesta, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., nelle ultime pagine della propria pronuncia i giudici aprivano anche all’ipotesi per cui, astrattamente, il procedimento di disconoscimento e quello di accertamento potessero svolgersi, in taluni casi, contemporaneamente. D’altronde, il cd. simultaneus processus può prevenire al conflitto tra giudicati, esattamente come la sospensione ex art. 395 c.p.c. e, a questo proposito, la Corte suggeriva che l’introduzione cumulativa delle due azioni avrebbe potuto rispondere all’esigenza – espressa anche dalla Corte EDU nella propria sentenza – di assicurare la più sollecita definizione dello status dell’interessato, tutelando così maggiormente il suo diritto all’identità.

Tornando, quindi, alla questione centrale proposta dalla Procura generale, la Corte di Cassazione riteneva infine che, in assenza di un intervento del legislatore e alla luce dei plurimi principi costituzionali e sovranazionali implicati, il duplice giudizio richiesto dalla legge per l’affermazione di un nuovo status di filiazione potesse trovare un equo contemperamento nel riconoscimento della possibilità di sospendere il giudizio relativo all’attribuzione del nuovo status, nelle more del disconoscimento del rapporto di filiazione preesistente. Invero, se tale sospensione non fosse concessa, in favore di una declaratoria di inammissibilità, il rischio che si correrebbe, a parere dei giudici di legittimità, sarebbe quello di violare il principio di ragionevole durata del processo, nonché di realizzare un ostacolo all’esercizio del diritto di agire a tutela della certezza della propria identità personale, diritto fondamentale protetto, come constatato, dall’art. 8 CEDU. Di conseguenza, in accoglimento della richiesta del Procuratore Generale, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite concludeva affermando, nell’interesse della legge, il seguente principio di diritto: «il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.».

 

[1] A supporto di tale motivazione, venivano citate precedenti sentenze dello stesso Tribunale di Roma in materia (sentenze del 24.4.2015 e del 19.1.2017).

[2] Oltre a ciò, l’articolo sancisce che la vita privata possa includere aspetti dell’identità non solo fisica ma anche sociale dell’individuo e che il diritto a conoscere le proprie origini e a vederle accertate non può essere pregiudicato.

[3] A riguardo, è doveroso menzionare, nell’ottica di dialogo tra le Corti, che la Corte EDU ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 177 del 14/7/2022, nella parte in cui è stato sottolineato dai giudici italiani come tale sistema che richiede la previa demolizione in via giudiziale dello status costituisca un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accettare la propria identità biologica. Tale circostanza rischia quindi di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo, in un ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost. La Corte EDU ha altresì ricordato come la Corte Costituzionale avesse già ammonito il legislatore ad intervenire per disciplinare le questioni relative all’accertamento della verità biologica, senza limitare in modo sproporzionato altri diritti costituzionali.

[4] A sostegno della propria posizione, veniva richiamata la pronuncia della Corte Cost. n. 50 del 2006, che aveva dichiarato l’incostituzionalità della preventiva delibazione che connotava il giudizio avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità ai sensi dell’art. 274 c.c.

[5] In proposito, viene richiamata Cass., ord. n. 17392, 3 luglio 2018.

[6] In specie, la Corte precisava come il concetto di pregiudizialità si sostanzia in una relazione tra due differenti questioni, tale per cui sussiste una dipendenza di una controversia rispetto ad un’altra. Pertanto, nel caso di rapporti giuridici distinti ed autonomi, la pregiudizialità tecnico-giuridica consiste in una relazione tra rapporti giuridici sostanziali, uno dei quali integra la fattispecie dell’altro, in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo.