Editoriale n. 1/2015

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È con grande piacere che apro l'editoriale di questo numero dell'Osservatorio sulle fonti dando conto dell'intervento di Ugo De Siervo che riproduce la sua Lectio magistralis dal titolo Perché occuparsi ancora delle fonti del diritto?, tenutasi il 26 novembre scorso all'Università di Firenze.

Non devo certo ricordare ai nostri lettori che la prima pubblicazione del rapporto annuale sullo stato delle fonti nel nostro ordinamento (il primo Osservatorio sulle fonti) fu promossa da De Siervo quasi vent'anni fa; mi piace, invece, ricordare e ringraziare per gli insegnamenti proprio in materia di fonti del diritto (ed ovviamente non solo) che ho ricevuto da De Siervo, più di vent'anni fa, quando era Coordinatore del dottorato di ricerca in Diritto pubblico, allorché io mi apprestavo a lavorare alla mia tesi di dottorato sull'autonomia statutaria dei comuni e delle province.

Da allora sono trascorsi molti anni, ma i motivi per i quali continuare a porre particolare attenzione al settore delle fonti normative continuano ad essere tanti, come ci ha ricordato De Siervo nella sua bella Lectio magistralis, e riguardano l'assetto fondamentale del nostro ordinamento: nelle fonti del diritto risiedono, infatti, le garanzie ed i limiti delle situazioni soggettive, nonché le regole di funzionamento delle istituzioni. Da qui la necessità di ribadire continuamente il primato delle norme costituzionali (pur tenendo conto delle erosioni della sovranità nazionale da parte di poteri internazionali), il rispetto delle riserve di legge e il primato delle prescrizioni legislative.

Deviazioni (basti pensare al ruolo assolutamente determinante che ha assunto l'esecutivo nella produzione legislativa), da questi ovvi, per certi versi, ma basilari principi incidono negativamente sul corretto funzionamento della nostra forma di stato e di governo.

Come rileva De Siervo, anche le riforme costituzionali di questi ultimi anni dalla n. 1 del 1999 alle leggi cost. n. 2 e 3 del 2001 fino alla legge cost. n. 2 del 2012 mostrano lacune e contraddizioni non abbastanza stigmatizzate dalla dottrina. E se, da un lato, il rispetto della rigidità costituzionale è rimasto estraneo alle culture politiche dominanti, dall'altro lo stesso legislatore ordinario è mancato di intervenire in settori fondamentali (basti pensare alla mancata organica attuazione dell'art. 119 Cost.) oppure è intervenuto con molto ritardo. Tutto ciò con ripercussioni anche sulla giurisprudenza della Corte costituzionale che, temendo vuoti normativi a seguito di sue decisioni, è stato indotta, talvolta, ad un'eccessiva prudenza, talaltra, a ricorrere a sentenze additive o sostitutive.

Per ristabilire un quadro conforme al nostro sistema democratico non basta un rinnovato impegno delle istituzioni, ma si palesa necessario, come esorta De Siervo, un impegno comune, di tutti, tanto più necessario in questo momento che è in corso di approvazione una riforma incisiva della nostra carta costituzionale.

Il tema del rapporto tra diritto internazionale, sovranità statale e costituzione nazionale, già indicato nella relazione di De Siervo come uno dei temi, oggi, centrali, è stato oggetto della ben nota sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014 di cui si pubblica un commento redatto da Annalisa Ciampi. Tanti i profili delicati e controversi toccati dalla Corte che, con questa sua decisione, ha suscitato reazioni anche molto diversificate tra gli internazionalisti.

In primis viene in gioco il rapporto tra norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e principi fondamentali della nostra costituzione, il quale conduce la Corte a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento ai sensi dell'art. 10, primo comma Cost., della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati, sollevata in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione. Siffatta conclusione della Corte discende dall'aver previamente accertato se la norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta sull'immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri, come interpretata nell'ordinamento internazionale, possa entrare nell'ordinamento costituzionale, in quanto non contrastante con i principi fondamentali e i diritti inviolabili. Ma il contrasto della norma internazionale sull'immunità, che comprende tra gli atti iure imperii sottratti alla giurisdizione di cognizione anche i crimini di guerra e contro l'umanità lesivi di diritti inviolabili della persona, esclude l'operatività del rinvio alla norma internazionale, con la conseguenza inevitabile che la norma internazionale, per la parte confliggente con i principi ed i diritti inviolabili, non entra nell'ordinamento italiano e non può essere quindi applicata.

Sono state, invece, oggetto di una dichiarazione di illegittimità costituzionale l'art. 3 della l. 14 gennaio 2013, n. 5 di adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli stati e dei loro beni e l'art. 1 della l. di esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, limitatamente all'esecuzione data all'art. 94 della Carta delle Nazioni Unite, esclusivamente nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno stato straniero ancorché consistano in crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona.

Tanti i profili di interesse di questa sentenza e tra quelli che concernono più direttamente problematiche connesse al sistema delle fonti, viene messo in luce il diverso strumentario utilizzato dalla Corte nei confronti della legge di esecuzione dello statuto delle N.U. di cui viene accolta (nei limiti suddetti) la questione di costituzionalità, rispetto alle norme consuetudinarie di diritto internazionale nei cui confronti viene dichiarata non fondata la questione. In particolare l'Autrice si chiede, "perché l'impedimento all'ingresso nel nostro ordinamento della norma ritenuta ...incostituzionale si traduce in un caso nella dichiarazione di infondatezza e nell'altro nell'accoglimento della relativa questione di legittimità costituzionale?".

Inoltre l'occasione sarebbe stata propizia per soffermarsi sull'art. 11 cost. (fino ad oggi valorizzato soprattutto per dar base costituzionale al cammino di integrazione europea) e sull'interpretazione delle "limitazioni di sovranità" da esso consentite in relazione alla Carta delle Nazioni Unite.

Infine l'Autrice si sofferma sugli scenari che potrebbero aprirsi a seguito di questa sentenza: forse l'emersione in futuro di una nuova regola che consenta l'esercizio della giurisdizione in relazione a fatti che costituiscono violazioni del diritto internazionale umanitario? O più facilmente l'affermazione della tendenza a considerare i principi fondamentali dell'ordinamento di riferimento quale causa che preclude l'adempimento degli obblighi internazionali con essi insanabilmente in contrasto?

Anche il tema dei rapporti tra ordinamenti statali, organizzazioni sovranazionali o internazionali, già messo in luce nella relazione di De Siervo come punto nodale per avere una chiara ricostruzione del sistema delle fonti, soprattutto in tema di tutela dei diritti fondamentali, ha trovato nella questione della adesione dell'Unione Europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberà fondamentali uno snodo particolarmente complesso. Se con l'esplicita previsione, introdotta con il trattato di Lisbona, di adesione alla CEDU, pareva superato l'ostacolo maggiore e sembravano rimanere da concordare meramente le soluzioni tecniche, in realtà la questione si è rivelata molto delicata: i negoziati sono risultati assai complessi e il parere della Corte sul testo dell'accordo, sottopostole dalla Commissione in base all'art. 218 del TFUE, che ha rilevato l'incompatibilità del progetto di accordo con l'art. 6, par. 2 del TUE e con il Protocollo (n. 8) relativo al medesimo articolo, ha impresso una brusca frenata al processo di adesione.

Il saggio di Nicole Lazzerini che si pubblica in questo numero dell'Osservatorio ne esamina i passaggi fondamentali.

Molteplici, ad avviso della Corte di giustizia i profili di incompatibilità del progetto di accordo rispetto alle caratteristiche e all'autonomia del diritto dell'Unione: è stato sottolineato il potenziale pregiudizio per il primato del diritto UE, il pregiudizio per il principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri e per l'autonomia ed efficacia del rinvio pregiudiziale; è stata paventata la possibile violazione del monopolio in capo alla Corte di giustizia circa le controversie tra Stati membri che mettano in causa il diritto dell'Unione europea; è stata affermata l'inidoneità delle modalità di funzionamento del meccanismo del convenuto aggiunto e della procedura di previo coinvolgimento della Corte a preservare le caratteristiche specifiche dell'Unione e del suo diritto; infine si è messa in evidenza la violazione delle caratteristiche specifiche dell'ordinamento UE con riguardo alla politica estera e di sicurezza comune, in quanto una corte esterna all'Ue non può avere il potere di contestare la validità di suoi atti allorquando la Corte di giustizia non abbia tale competenza come accade nella maggioranza degli atti della PESC.

L'atteggiamento di netta chiusura espresso dalla Corte di giustizia nei confronti del controllo esterno della Corte Edu sull'applicazione del diritto dell'Unione mal si concilia con l'obbligo di adesione alla Cedu sancito dal TUE. Quali dunque gli scenari futuri: a parere dell'Autrice la rinuncia all'adesione non dovrebbe essere un'opzione in campo, ma si dovrebbe lavorare ad una rinegoziazione dell'accordo e alla revisione dei trattati. Se l'accoglimento di tutte le censure mosse dalla Corte non pare possibile, alcuni punti sono senz'altro da rinegoziare, tanto più che sull'Unione grava l'obbligo di adoperarsi affinché l'adesione si realizzi.

Alle tutele, sul piano internazionale, dei diritti inviolabili dell'uomo e quindi all'effettività delle garanzie sancite in fonti di livello internazionale è dedicato l'intervento di Deborah Russo, il quale, in specifico, ha ad oggetto il protocollo facoltativo al patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali col quale si è mirato a rafforzare il sistema di controllo sul rispetto delle prescrizioni del Patto, attraverso la previsione di tre meccanismi di tutela aggiuntivi che potenziano la funzione di controllo del Comitato sui diritti dell'uomo: le comunicazioni individuali, le comunicazioni interstatali e la procedura d'inchiesta. La procedura di esame delle comunicazioni proposte dagli individui, vittime delle violazioni del patto, costituisce la parte essenziale della nuova disciplina ed ha carattere necessario, diversamente gli altri due meccanismi di controllo hanno carattere meramente facoltativo: potranno, cioè, diventare operativi solo per quegli stati contraenti che rilascino specifiche dichiarazioni di accettazione della competenza del Comitato.

L'Autrice si sofferma in specifico su due punti problematici che emergono dal nuovo Protocollo: la clausola che limita la legittimazione ad agire alle sole vittime che si trovano sotto la giurisdizione dello stato contraente autore della violazione la quale risulta, oggi, poco compatibile con la crescente dimensione extraterritoriale della problematica della tutela di questi diritti, e la disposizione per la quale "the Committee shall consider the reasonableness of the steps taken by the State Party", che se da un lato è da accogliere positivamente, dall'altro pone il problema di interpretare il significato della nozione di ragionevolezza.

Senz'altro l'adozione di questo nuovo protocollo è da accogliere favorevolmente e colma una lacuna, estendendo un meccanismo procedurale elaborato a suo tempo al fine di garantire i diritti civili e politici; l'occasione sarebbe, però, stata propizia per immaginare anche nuove forme di tutela calibrate sulle specifiche esigenze dei diritti economici sociali e culturali.

Questo numero dell'Osservatorio vede poi due saggi dedicati al diritto parlamentare: Dinamiche del sistema politico e formazione delle regole di diritto parlamentare: una tassonomia dei pareri delle Giunte per il regolamento e Le assemblee parlamentari, giudici in causa propria, ma non a titolo esclusivo? I seguiti della sent. n. 120/2014 della Corte costituzionale.

Il rapporto tra fonti del diritto, forme di governo e sistema politico è particolarmente evidente in relazione ai regolamenti parlamentari e nel saggio di Francesca Poli sono presi in esame i pareri resi dalle Giunte per il regolamento dal 1992 al 2014 e classificati in base al soggetto che ha elaborato lo schema di parere, in base al tipo di maggioranza che ha approvato il testo, e al livello di aderenza dell'interpretazione proposta nel parere al dato testuale del regolamento. Rispetto a questo ultimo criterio, l'Autrice propone un'ulteriore classificazione tra pareri secundum regolamento, praeter regolamento e contra regolamento. I pareri contra regolamento sono poi suddivisi tra pareri privi di carattere sperimentale e pareri sperimentali, intendendosi per pareri sperimentali quei pareri, che assunti in deroga alle vigenti norme regolamentari, intendono sperimentare nuove soluzioni senza ricorrere alla procedura formale di revisione.

Il profilo che immediatamente si evidenzia è il tasso di "creatività" rinvenibile in quest'ultimi pareri che spesso introducono procedure di carattere sperimentale, innovando la disciplina vigente (non senza qualche per perplessità nei casi evidenziati dall'Autrice di mancato rispetto del principio del nemine contradicente). E soprattutto a partire dal 1999 l'aggiornamento delle regole di diritto parlamentare è stato assicurato attraverso le dinamiche duttili del diritto parlamentare informale, anziché attraverso le ordinarie procedure di revisione regolamentare tanto che, in linea generale, si può affermare che la codificazione è venuta a rappresentare il punto di arrivo di un processo di stabilizzazione della prassi piuttosto che un nuovo punto di partenza.

Il rilievo che hanno assunto le Giunte per il regolamento emerge chiaramente, e sebbene gli artt. 8 r.C. e 8 r.S. attribuiscano ai presidenti delle Camere, l'ultima parola sull'interpretazione dei regolamenti, il tasso di legittimazione di queste stesse interpretazioni appare condizionato dal grado di coinvolgimento delle Giunte, a conferma del ruolo fondamentale giocato dai loro pareri nell'assicurare, a regolamenti invariati, un adeguamento della procedura parlamentare alla realtà politica in evoluzione.

Anche il saggio di Elena Griglio verte in tema di autonomia normativa delle assemblee parlamentari e analizza in specifico due pronunce della Corte di Cassazione a sezioni unite che hanno avviato percorsi giurisprudenziali destinati a incidere in maniera significativa sull'ambito di efficacia dell'autodichia.

La Cassazione è innanzitutto ritornata sul giudizio a quo che aveva originato la sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2014, riformulando in termini di conflitto di attribuzione i quesiti sulla costituzionalità dell'istituto dell'autodichia (SS.UU., n. 26934 del 19 dicembre 2014). La Cassazione ha rinvenuto la lesività del comportamento del Senato nell'adozione degli articoli relativi al contenzioso nel Testo unico delle norme regolamentari dell'Amministrazione riguardanti il personale, (a) nella parte in cui precludono l'accesso dei dipendenti del Senato alla tutela giurisdizionale in riferimento alle controversie di lavoro insorte con l'Amministrazione del Senato, e in via subordinata (b) nella parte in cui contro le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali interni non consentono il ricorso in cassazione per violazione di legge ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost.

Anche la seconda pronuncia della Corte di cassazione in commento (SS.UU., n. 27396 del 29 dicembre 2014), risolutiva del regolamento preventivo di giurisdizione relativo al ricorso, pendente innanzi alla Commissione contenziosa del Senato della Repubblica, sollevato da dei dipendenti dei gruppi parlamentari, per l'annullamento di una delibera del Consiglio di Presidenza, allude ad una ipotesi di apertura del sindacato relativo agli atti di auto-organizzazione delle Camere nei confronti del giudice ordinario. Nel caso di specie le Sezioni unite hanno riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario confermando l'estraneità all'autodichia delle controversie riguardanti il lavoro alle dipendenze dei gruppi, in quanto non configurabili quali organi parlamentari, ma come soggetti privati ed affidando conseguentemente al giudice di merito valutazioni che, inevitabilmente, determineranno una "intromissione" nella sfera di autonomia del Senato. È inoltre importante sottolineare come questa potenziale apertura del sistema di autodichia (che potrebbe offrire ad un giudice esterno la disapplicazione di un atto espressione dell'autonomia parlamentare) viene giustificata nella decisione in esame con ripetuti e puntuali richiami alla sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2014 e alla conseguente ordinanza della Corte di cassazione del 19 dicembre 2014. In altri termini, ciò che sembra legittimare una siffatta evoluzione è il fumus che ormai si è aperto sulla validità dell'autodichia e sulla sua persistente impermeabilità ad innervature dalle giurisdizioni esterne che spetterà solo alla Corte costituzionale risolvere.

Queste due decisioni della Corte di Cassazione ci testimoniano di una propensione alla ricerca di un nuovo rapporto tra giurisdizione domestica e giurisdizione comune ispirato ad un diverso bilanciamento tra garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza delle camere e tutela dei diritti e dei beni protetti dallo Stato di diritto. A queste aperture, che incidono sul rapporto tra la giustizia domestica e la giurisdizione ordinaria, si affianca poi l'ulteriore profilo di interlocuzione con la giustizia costituzionale che la Consulta ha delineato nella sent. n. 120/2014.

Come rileva infine Elena Griglio, dalla sent. n. 120/2014 si assiste ad una proliferazione del contenzioso in tema di autodichia che, da diverse angolature e con diversi approcci, sembra accomunato da un analogo intento di vagliare la tenuta dei diversi sistemi di giurisdizione domestica rispetto all'ipotesi di una loro integrazione con le giurisdizioni di tipo classico. È su questo terreno che la Corte costituzionale sarà chiamata a un difficile compito di ponderazione, in un regime quindi non più di auto-dichia esclusiva, né di etero-dichia, bensì, potrebbe dirsi, di co-dichia, e quindi di compresenza di più giudici, con ruoli e funzioni diverse e non sovrapponibili, nei limiti di quanto consentito dal principio del ne bis in idem.

Un profilo specifico connesso al progetto di riforma costituzionale in discussione in Parlamento è esaminato nel saggio di Stefania Baroncelli che focalizza, in particolare, i riflessi del progetto di revisione costituzionale sulle autonomie speciali, evidenziando come non emerga alcuna strategia intesa a delinearne il quadro normativo, con conseguenti effetti negativi sul sistema delle fonti.

Dopo aver ricostruito gli esiti delle riforme del 1999-2001 sulle fonti delle autonomie speciali, il saggio prende in esame quella norma transitoria dell'attuale progetto, in base alla quale le disposizioni di modifica del titolo V non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino all'adeguamento dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome.

Una prima questione che solleva questa disposizione riguarda la normativa da applicarsi nelle more dell'adeguamento degli statuti: si applicheranno gli articoli del titolo V della Costituzione nella versione precedente alla riforma? O invece come preferibile si avrà un "ritorno agli statuti speciali", nel senso che l'intera disciplina delle regioni a statuto speciale e delle Province autonome sarà da individuare nei singoli statuti e si dovrà ritenere tacitamente abrogata la clausola di maggior favore?

Inoltre l'adeguamento degli statuti dovrà avvenire sulla base di intese, ma molteplici sono gli interrogativi che si pongono in ordine alla procedura da utilizzare e al significato complessivo da attribuire a queste intese; l'intervento di Stefania Baroncelli ci aiuta a metterne a fuoco i possibili snodi.

Chiude questo numero dell'Osservatorio il saggio su I differenti livelli di protezione dei diritti: un invito a ripensare i modelli di Roberto Romboli che dopo aver ripercorso i nostri modelli di giustizia costituzionale e di ordinamento giudiziario e le loro evoluzioni con riguardo in specifico alla protezione dei diritti, mette in luce come la Corte abbia tendenzialmente assunto in stretta correlazione e cooperazione con il giudice comune sempre più il ruolo di giudice dei diritti e sempre meno quello di giudice delle norme. Basti pensare alle c.d. sentenze manipolative, alle sentenze interpretative di rigetto e alle sentenze additive di principio.

Inoltre lo strumento della c.d. interpretazione conforme con cui la Corte ha invitato il giudice a non rimettere ad essa le questioni di costituzionalità, allorché risulti possibile dare della disposizione impugnata una lettura costituzionalmente conforme, ha comportato una progressiva "delega" di funzioni dalla Corte ai giudici comuni.

Ma, come rileva Romboli, il livello di protezione dei diritti trova, comunque, dei momenti di criticità: in primis tutte le volte che il legislatore non interviene a riconoscere e regolare un determinato diritto. E nel caso in cui il la situazione soggettiva di cui si chiede la tutela trovi già un fondamento nel testo costituzionale, la Corte ha invitato il giudice a ricercare lui stesso la soluzione e a garantire la tutela dei diritti fondamentali rifacendosi direttamente ai principi costituzionali; nel caso, invece, in cui la realizzazione di un determinato diritto sia lasciata alla decisione politica e alle regole della maggioranza parlamentare, più prudente ed attento dovrà, ovviamente, essere l'intervento dei giudici comuni e del giudice costituzionale nei confronti delle scelte (o non scelte) legislative.

Un secondo momento di criticità è rappresentato dalle c.d. zone franche della giustizia costituzionale, cioè dalle ipotesi in cui può risultare difficile portare una determinata legge all'esame della Corte costituzionale. In queste ipotesi un possibile rimedio potrebbe essere individuato nei livelli sovranazionali di protezione dei diritti ed in particolare negli interventi della Corte EDU e della Corte di giustizia. Anche se, con riferimento alla tutela dei diritti nei confronti della legge, siamo di fronte a modelli diversi a seconda che sia preso a base il rapporto tra legge e costituzione nazionale, tra legge e Cedu oppure tra legge e diritto dell'Ue.

Ecco che da più parti è stata sottolineata l'opportunità di un ripensamento del nostro sistema di giustizia costituzionale attraverso la previsione di un ricorso individuale e diretto; resta da chiedersi se il ricorso debba essere pensato allo scopo di coprire le zone franche che si sono manifestate nell'esperienza di giustizia costituzionale oppure per sanzionare la violazione di diritti quando essa sia contenuta in una sentenza di un giudice.

Romboli chiude il suo saggio con una "provocazione": la proposta di introdurre accanto al modello accentrato di giustizia costituzionale, un modello diffuso nel quale ai giudici potrebbe essere riconosciuta la facoltà di scegliere se sollevare la questione di costituzionalità o disapplicare, ovviamente in questa seconda ipotesi con efficacia solo inter partes e per il processo in corso. Tale modello dovrebbe valere anche in caso di contrasto di un atto legislativo con le disposizione della Cedu o con il diritto della Ue, ponendosi cioè l'alternativa tra disapplicazione e proposizione della questione di costituzionalità.

In tal modo la Corte costituzionale verrebbe ad assumere un ruolo fondamentale di raccordo a livello interno circa l'interpretazione della Costituzione e della legge e di interlocutore privilegiato nei confronti delle Corti europee.