Editoriale n. 2/2016

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Andrea Simoncini

Oltre la riforma costituzionale

1. Il secondo fascicolo dell'Osservatorio sulle fonti di questo tormentato anno 2016 si trova a uscire in un momento storico per il sistema costituzionale italiano. L'attenzione di tutti - specialisti e cittadini comuni - è completamente assorbita dal tema della riforma costituzionale in corso. I riflettori sono accesi sulla proposta di modifica della Parte II della nostra Costituzione approvata dal Parlamento lo scorso 12 aprile. In attesa del referendum, le discussioni sono quasi del tutto monopolizzate - anche in virtù dell'inevitabile semplificazione mediatica - dal grande tema "simbolo" della transizione verso un sistema bicamerale imperfetto. L'Osservatorio non poteva certamente sottrarsi a questo dibattito e ha offerto un rilevante contributo all'approfondimento di questi temi dedicando loro ampio spazio tra i saggi pubblicati negli ultimi tre fascicoli (n. 2/2015, n. 3/2015 e n. 1/2016).

Anche in questo numero il tema della "grande" riforma mantiene una sua eco rilevante, attraverso il contributo di Giovanni Piccirilli che torna sulla questione - dibattuta "a distanza" con Paolo Carnevale - della qualificazione del testo approvato dal Parlamento come "legge costituzionale" ovvero come "legge di revisione costituzionale". Tutto fuorché una sottigliezza da giuristi, se è vero che da questa diversa qualificazione deriva la differente formulazione del quesito referendario e, dunque, un'opzione che finisce per influenzare la consapevolezza e le condizioni pratiche in cui il popolo si esprimerà sul progetto di modifica costituzionale.

 2. Ma volendo suggerire un'idea sintetica del contributo offerto dai saggi che troverete qui pubblicati, a me pare che questo fascicolo dell'Osservatorio accenda i riflettori su alcune dimensioni della trasformazione costituzionale dell'Italia che sinora nel dibattito non sono apparse, o per dir cosi sono rimaste in un cono d'ombra rispetto alla "grande" riforma in discussione.

Abbagliati dai temi dominanti la discussione odierna (bicameralismo e legge elettorale) mi pare che rischiamo di non vedere (o di dimenticare) alcuni fattori altrettanto rilevanti sui quali questo numero dell'Osservatorio intende richiamare l'attenzione.

Un prima finestra è quella aperta da Cecilia Corsi ed Anna Alberti sul fronte della potestà normativa (statutaria e regolamentare) degli Enti Locali all'interno della proposta di riforma costituzionale.

Come dicevamo, il dibattito oggi è prevalentemente concentrato su alcuni temi "chiave" come la riforma del sistema bicamerale e la conseguente modifica del procedimento legislativo parlamentare. Minore attenzione è stata portata all'impatto che la riforma potrebbe avere - laddove entrasse in vigore - sull'autonomia normativa degli enti locali.

I due saggi, letti assieme, offrono un quadro ampio ed esaustivo della linea evolutiva in cui storicamente si è posta - e continua a porsi - la questione della potestà auto-organizzativa e auto-normativa degli enti locali infraregionali.

Una parabola che descrive in maniera quasi speculare la traiettoria analoga del ruolo delle autonomie locali nel nostro sistema di poteri pubblici.

Il punto di partenza è certamente una iniziale condizione di "minorità" delle autonomie locali rispetto alla potestà statutaria e normativa delle Regioni (salvo alcune letture anticipatrici, tra le quali quella della stessa Cecilia Corsi, che già prima della riforma avevano cercato un fondamento costituzionale alla autonomia statutaria degli enti locali); condizione determinata dal silenzio della Costituzione sulla potestà normativa comunale e provinciale e dalla presenza "ingombrante" di un articolo 128 che espressamente subordinava l'autonomia locale "ai principi fissati da leggi generali della Repubblica che ne determinano le funzioni".

A questa fase di avvio, segue la lunga transizione innescata dalla riforma della legislazione ordinaria degli enti locali a partire dagli anni '90, fino all'approdo della revisione costituzionale del 2001 che in qualche modo ne rappresenta il compimento, con l'abrogazione dello stesso art. 128 e con i nuovi articoli 114 e 117 che "costituzionalizzano" tanto il potere statutario che quello regolamentare degli enti locali.

Il sistema costituzionale del 2001 ha posto indubbiamente sfide interpretative complesse agli studiosi delle fonti e soprattutto alla coerenza dei canoni classici ed esclusivi della gerarchia ovvero della competenza, come ben mette in mostra il saggio di Anna Alberti. Ma come lucidamente ha sottolineato Paolo Caretti nel suo editoriale al fascicolo scorso dell'Osservatorio - ricordando il contributo magistrale di Alessandro Pizzorusso - le scelta organizzative sul sistema delle fonti indicano sempre, in realtà, scelte più profonde riguardanti il sistema politico e istituzionale.

Il riconoscimento in Costituzione del potere statutario e regolamentare degli enti locali è stata l'espressione della grande scommessa degli anni '90 sul rilancio della dimensione locale della nostra democrazia e, per riflesso, della dimensione non più solo regionale ma anche autonomistica della Repubblica.

Una scommessa che, vista con lo sguardo disilluso dell'osservatore odierno, non era solo sulla quantità del potere (espressa dal binomio crescente "più funzioni-più risorse"), ma sulla qualità di esso. In quegli anni si è giocata una partita decisiva nell'attuazione effettiva del disegno complessivo della nostra Costituzione repubblicana.

Non dimentichiamo che la forma autonomistica della nostra Repubblica - quella che ancora oggi è magistralmente sintetizzata nell'art. 5 della Costituzione - rappresentava anch'essa una grande "rivoluzione promessa" (e non solo la parte sull'eguaglianza sostanziale come immaginava Calamandrei): la promessa di una nuova forma di esercizio delle funzioni amministrative rispetto alla tradizione liberale e fascista. Il potere amministrativo delle regioni e quello degli enti locali dovevano essere il laboratorio dove realizzare forme di amministrazione pubblica "nuova", più efficiente, più responsabile, più vicina ai cittadini.

Per questo, assieme all'attribuzione di nuove funzioni, era così forte la domanda di autonomia organizzativa - sia statutaria che regolamentare - e il progressivo "sganciamento" dalle maglie pervasive di una legislazione statale uniforme; la parola d'ordine, tradotta poi in formula costituzionale, era quella della "sussidiarietà adeguatezza e differenziazione".

Certo, oggi bisogna chiedersi - come fa Cecilia Corsi - che uso hanno fatto i poteri locali di questa autonomia? E, parallelamente, gli organi di garanzia - Corte costituzionale in primis - hanno svolto effettivamente la loro funzione di protezione di queste sfere di autonomia dall'invasione delle potestà statali? Infine, che ruolo ha giocato in questa "centralizzazione" il potere travolgente della crisi finanziaria globale, "essiccatore" implacabile di qualsiasi dinamismo vitale delle autonomie locali a favore della necessità di equilibrio finanziario dello Stato centrale?

La storia recente, come sappiamo, è la storia di un fortissimo riaccentramento dei poteri decisionali e normativi, ai quali non può che far seguito una parallela "marginalizzazione" dei poteri normativi periferici.

I saggi pubblicati in questo fascicolo - seppur da punti di vista diversi - segnalano come il progetto di riforma costituzionale attualmente in itinere rappresenti un possibile approdo di questa linea evolutiva, in cui, pur mantenendo immodificata l'attribuzione della potestà statutaria nell'art. 114, per quanto attiene quella regolamentare si aggiunge all'art. 117, nel nuovo comma 6, l'inciso per cui la potestà dei Comuni e delle Città metropolitane sulla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni attribuite, avviene "nel rispetto della legge statale o regionale".

Un "ritorno al passato?", si chiede Cecilia Corsi, prendendo atto di un'evoluzione "neo-centralista" che appare irresistibile negli ultimi venti anni. Ovvero un "ritorno al futuro"? Nel progetto di riforma, infatti, la competenza a disciplinare l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane, cosi come le disposizioni di principio sulle forme associative dei comuni, sarà una competenza legislativa bicamerale, dunque, una procedura in cui per la prima volta sarà coinvolta una seconda camera espressiva delle istituzioni territoriali.

A completare questa prima finestra aperta sulla complessa e oggi spesso misconosciuta realtà "periferica" del nostro sistema costituzionale, sta il saggio di Eduardo Gianfrancesco sul fenomeno della introduzione dell'istituto della "questione di fiducia" - o di analoghi dispositivi diversamente denominati - da parte di un numero crescente di regioni.

Il fenomeno è decisamente interessante perché, a prima vista, appare del tutto controintuitivo. La stessa forma di governo regionale ("blindata" dalla clausola del simul simul) e i diversi regimi elettorali prescelti dalla stragrande maggioranza dalle regioni italiane (quantomeno da quelle ordinarie) dovrebbero, sulla carta, garantire ai presidenti delle regioni e ai rispettivi esecutivi maggioranze consiliari più che solide e coese; non si vede, dunque, la ragione della introduzione a livello regionale di un istituto, nato per garantire al Governo il controllo di "maggioranze parlamentari" litigiose, spesso frutto di coalizioni disomogenee e frammentate e, per di più, oggi al centro di critiche fortissime proprio per il suo uso distorto, specialmente se abbinato a tecniche deliberative quali i cosiddetti "maxi-emendamenti".

Gianfrancesco, propone una prima riflessione su questo fenomeno, suggerendo che, come per tutte le evidenze controintuitive, essa nasconde una erronea o carente percezione della realtà.

Se, infatti, l'uso della questione di fiducia a livello regionale, da un lato, non sembra effettivamente rispondere alla necessità di contrastare manovre ostruzionistiche o di filibustering - fenomeni poco presenti a livello consiliare -, dall'altro, essa impone di riconsiderare profondamente l'idea dei sistemi politici regionali come necessariamente coesi o addiritttura "blindati" in virtù dei regimi elettorali o dei dispositivi istituzionali predisposti. Le divisioni, infatti, oggi sempre più si stanno spostando all'interno dei partiti e non solo tra di loro. Come spesso è accaduto nella storia repubblicana, questa è una tendenza che, sebbene si evidenzi a livello locale, finisce per anticipare evoluzioni che riguardano anche il livello nazionale.

 

3. Una seconda finestra che questo fascicolo intende aprire riguarda alcune riforme che sebbene non abbiano il rango di una legge costituzionale, riguardano pur sempre elementi costitutivi di ciò che nei manuali di diritto costituzionale siamo abituati a chiamare "forma di stato".

Se, infatti, con questa locuzione intendiamo esprimere il tipo di rapporto che in un determinato assetto costituzionale si determina tra la sfera di libertà dei cittadini e l'autorità esercitata delle istituzioni pubbliche, ebbene in Italia sono state approvate recentemente due leggi delega che avviano altrettante riforme rilevantissime in tema di libertà sociale e rapporto con l'autorità pubblica, anche se quasi del tutto oscurate nel cono d'ombra della "grande riforma".

Mi riferisco alla legge delega sulla "riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (legge n. 7 agosto 2015, n. 124, meglio nota come legge "Madia" dal nome della ministra proponente) e la più recente legge delega di riforma del Terzo Settore (legge n. 6 giugno 2016, n.106).

Su questi due importantissimi atti legislativi intervengono, sul primo, Gian Luca Conti e Antonio Iannuzzi e sul secondo il saggio a firma congiunta di Luca Gori ed Emanuele Rossi.

Rinvio alla lettura per i contenuti puntuali, qui vorrei solo mettere in luce alcuni punti in comune tra questi tre commenti apparentemente lontani tra loro.

In primis, il ritorno prepotente all'uso della delega come fonte "tipica" delle riforme. Non è certo una novità. La delega, pensata dai costituenti per sollevare il parlamento da decisioni troppo tecniche e dettagliate, si è trasformata nella fonte normativa tipica dei compromessi "parziali" o "dilatori" (pensiamo alla stagione delle riforme c.d. "Bassanini").

La scarsa coesione politica che sempre più caratterizza le nostre aule parlamentari, fa sì che quando su alcuni grandi temi si riesca a raggiungere un compromesso - spesso a fatica e dopo lunghe trattative (si pensi alla gestazione della legge sul terzo settore o sulla modifica del Titolo I del Codice civile) - questo compromesso, in realtà, attenga solo alcune linee generali della riforma; nella delega al Governo, dunque, non finiscono solo le parti "tecniche" e di dettaglio, ma spesso anche temi che semplicemente non sono stati del tutto decisi, o sui quali non si è raggiunto un sufficiente accordo. Si moltiplicano così gli ordini del giorno "che impegnano il Governo" (si vedano i riferimenti a riguardo di Rossi e Gori) come tentativi di "principi e criteri direttivi" aggiunti, ma al di fuori del testo della legge delega.

Uno strumento per il controllo di questa esecuzione "differita" al Governo dei compromessi incompleti, è stato, com'è noto, l'inserimento del parere parlamentare nel procedimento di approvazione dei decreti legislativi.

In questi due casi ci troviamo dinanzi a leggi delega che quasi emblematicamente incarnano questa funzione "politica" della delega legislativa, oltre che, ovviamente, anche alla sua funzione "tecnica".

Ma l'altro punto che vorrei segnalare come fattore comune tra queste due riforme riguarda il loro contenuto.

La riforma "Madia" ha come obiettivo dichiarato una profonda e radicale semplificazione del rapporto tra i cittadini e l'Amministrazione pubblica, sia attraverso l'intervento già sperimentato, delle semplificazioni normative – su cui si sofferma l'articolo di Antonio Iannuzzi – sia soprattutto – e questo è il punto discriminante messo in luce dall'articolo di Gian Luca Conti – attraverso le nuove possibilità offerte dalla tecnologia della informazione e della comunicazione (quella che i tecnici chiamano ICT e nel lessico più comune denominiamo "Internet").

La riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale della disciplina del servizio civile universale, attengono invece il cuore di quello che potremmo definire la società civile organizzata.

A me pare che il filo - sottile ma robusto - che lega questi due interventi, sia proprio il tema del rafforzamento della capacità dei cittadini e della "società civile" dinanzi all'autorità dello Stato. Per questo, come dicevo, un tema proprio della "forma di stato". La nostra costituzione riconosce e garantisce i diritti, individuali e collettivi, innanzitutto, perché li sgancia dal potere elargitorio dell'autorità pubblica. I diritti non sono riflessi dell'autolimitazione dei poteri pubblici, ma sono attribuzioni originarie della persona, preesistenti ai poteri che abbiamo creato per difenderli.

Queste due riforme - sebbene con mezzi e prospettive affatto diverse - cospirano a questo comune intento: rafforzare gli strumenti attraverso cui i cittadini esercitano la propria soggettività dinanzi alle istituzioni pubbliche. Se fossimo in una cultura giuridica angloamericana direi che entrambe queste leggi mirano all'empowerment della civil society. Sono uno strumento di crescita della cittadinanza effettiva e della partecipazione democratica.

Significativamente i mezzi utilizzati per questo rafforzamento sono in un certo senso "opposti": da un lato, la spinta solidaristica che caratterizza la dimensione sociale del genere umano, dall'altra, le nuove risorse offerte dall'evoluzione tecnologica: in un certo senso, le origini della polis ed il futuro della "smart city".

Occorre fare attenzione, però, perché spesso nello spazio tra gli obiettivi dichiarati e i mezzi effettivamente predisposti, si nascondono i problemi ed i "gattopardismi" di cui è piena la storia delle riforme italiane. Invito, perciò, a leggere con attenzione i saggi dove questi dettagli sono esaminati con grande acume.

 

4. Infine, la terza finestra che questo fascicolo dell'Osservatorio apre è su un tema che potremmo definire un "classico" per questa rivista. La "Carica dei DPCM" così, evocativamente, s'intitola il documentato contributo di Valerio Di Porto e su di un DPCM in particolare si sofferma anche il saggio di Alessandro Candido, quello attraverso cui - delegificando un precedente decreto legislativo - è stato riformato l'Indicatore della Situazione Economica Equivalente (meglio noto come I.S.E.E.).

I dati che esamina Di Porto - traendoli dagli "Appunti del Comitato per la legislazione" - si riferiscono ad una ricognizione di tutti i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) emanati nel biennio 2014-2015 e pubblicati in "Gazzetta ufficiale".

Anche in questo caso rinvio ai saggi per l'esame analitico dei temi che sollevano, ma un dato emerge in maniera assai evidente: c'è uno spostamento fortissimo (parla di "esplosione" Di Porto nel suo commento) verso la Presidenza del Consiglio dei Ministri della produzione di fonti di contenuto regolamentare, sia quando dichiaratamente - in pochissimi casi (19 su 213) - esse si autoqualifichino "regolamenti" e, dunque, siano numerati ed inseriti nella banca dei dati normativi vigenti "Normattiva.it", sia quando, nella maggioranza dei casi, si preferisca omettere il "nomen" regolamento, ma ciononostante la disciplina abbia contenuto sostanzialmente normativo.

È un caso classico di "fuga dal regolamento" che tante volte abbiamo messo in evidenza come un carattere ormai tipico del nostro sistema di produzione normativa secondaria, in cui, però, emerge questo ruolo sempre più dominante della Presidenza del Consiglio dei ministri, anche a discapito del Ministero dell'economia, come osserva Di Porto. Ancora in questo caso, dalla prassi delle fonti secondarie emergono i segnali di un chiaro spostamento della forma di governo verso il ruolo del presidente del consiglio, segnali che vanno decifrati e analizzati con grande attenzione.

 

5. Una nota finale sul bel saggio di Serena Sileoni. La Giunta del regolamento della Camera dei deputati nella seduta del 12 aprile 2016 ha approvato "in via sperimentale" e con una deliberazione molto sui generis, che dichiaratamente non intende modificare il Regolamento della Camera, un "Codice di condotta dei Deputati". A questa vicenda l'Osservatorio aveva già prestato attenzione nel fascicolo precedente quando l'iniziativa era ancora in itinere. Serena Sileoni esamina con attenzione l'intricata vicenda di questa nuova fonte di carattere "convenzionale" e dei suoi possibili rapporti rispetto al già complesso sistema delle fonti del diritto parlamentare.

Ancora una volta, all'ombra della grande riforma e lontano dai riflettori della discussione pubblica tutta concentrata sul livello costituzionale, va segnalata questo tentativo di "autoriforma" del sistema parlamentare (anche al Senato pende una iniziativa analoga). L'autoregolamentazione ovvero la via della codificazione "etica" è molto ben conosciuta a livello comparato e in moltissimi altri sistemi costituzionali ha dato ottima prova nel disciplinare le aree in cui le attività dei parlamentari sono più a rischio di conflitto di interesse o di corruzione perché entrano in contatto con poteri soprattutto di natura economica (non è un caso che la discussione avviene assieme al tema della disciplina del lobbying).

In Italia, non avendo mai tentato la via della self-regulation, la conseguenza è stata affidare alla sola magistratura il controllo di queste aree "a rischio" dell'azione parlamentare, con la conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Una ragione in più per seguire con attenzione questa novità.