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Editoriale 2/2011

andrea simoncini

Dalla prassi in materia di fonti nuove gravi "torsioni" della forma di governo e della forma di stato

Uno dei punti fermi del diritto costituzionale è che, nelle riflessioni e nei dibattiti che riguardano il “sistema”[1] delle fonti normative, occorre sempre distinguere tra “narrazione” e “meta-narrazione”  (per adoperare i concetti della teoria post-moderna), ovverosia tra l’oggetto specifico delle analisi e lo “scenario” che esse evocano, tra ciò che si legge in primo piano e ciò che si può cogliere “in controluce”.

Le fonti, non ci stancheremo di ripeterlo, in sé considerate, sono meccanismi atti a produrre norme giuridiche ma guardate nel loro insieme e nelle relazioni con le istituzioni (Ruggeri), rappresentano un’efficacissima cartina di tornasole della qualità della forma di governo e della forma di stato che caratterizza un dato ordinamento giuridico.

A tale duplice chiave di lettura, dunque, non si sottrae questo numero della rivista, in cui proponiamo una nutrita serie di saggi, osservazioni e note che spaziano dal tema dei decreti-legge, al potere di ordinanza, dalle nuove frontiere delle fonti comunitarie e internazionali, a riflessioni complessive sul sistema delle “fonti/norme” ovvero sulla (mancata) relazione tra sistema elettorale e regolamenti parlamentari.

I temi

Guardando nel dettaglio i contributi raccolti in questo fascicolo, una buona parte di essi ha per oggetto il decreto-legge; tema affrontato durante il seminario promosso dall' Osservatorio per la legislazione della Camera dei Deputati presso la Scuola Sant’Anna di Pisa il 4 marzo 2011. Su impulso del professor Roberto Zaccaria (presidente di turno del Comitato della legislazione) e con la supervisione dei professori Emanuele Rossi e Paolo Carrozza, sono stati discussi numerosi contributi dei quali pubblichiamo quelli di Angela Di Caro, Giacomo Delledonne, Marco Mazzarella, Fabio Pacini e Carlotta Redi; a questi si affianca il saggio di Filippo Vari sulla natura della legge di conversione.

E’ bene ribadire, in questa sede, il giudizio estremamente positivo per questa iniziativa intrapresa dal Comitato per la legislazione che ha organizzato, in collaborazione con diverse università italiane, alcuni seminari di studio sul tema delle fonti e della qualità della legislazione (Zaccaria, Introduzione); sono state occasioni molto utili per mettere a più stretto contatto il mondo accademico con i dati emergenti dalla prassi parlamentare. E se c’è un settore in cui la prassi continua a presentare caratteristiche del tutto eversive rispetto al modello costituzionale è certamente quello della decretazione d’urgenza.

I contributi del seminario pisano, muovendo dall’analisi empirica dei dati della XVI legislatura, offrono diversi “punti visuali” dai quali osservare i caratteri della decretazione d’urgenza oggi.

Alcuni punti di vista, sono più “panoramici”, giacché si soffermano su elementi comuni a tutti i decreti legge: tra questi segnaliamo le osservazioni di Carlotta Redi sui requisiti di “straordinaria necessità ed urgenza”, quelle di Angela Di Carlo sul requisito ulteriore “emergente” nella prassi più recente, che è l’ “omogeneità” ed, infine, la riflessione di Filippo Vari sulle diverse ricostruzioni teoriche della natura della legge di conversione. Altri sono più “telescopici” e si soffermano su aspetti particolari della produzione di decreti d’urgenza; si prendano ad esempio le note di Marco Mazzarella sulla “abitudine” ormai diffusissima dei decreti legge a demandare la disciplina ad atti successivi - per questo denominati “post-legislativi” - e ben si comprende quanto sia distante dal “figurino” costituzionale del  decreto-legge “provvedimento” d’immediata esecuzione, la prassi di decreti quasi mai “autosufficienti” sul piano normativo, ma sempre bisognosi di atti ulteriori per realizzare i propri scopi; ovvero le osservazioni di Fabio Pacini sull’uso della decretazione d’urgenza a fini di semplificazione normativa (uso che, a dispetto del fine, complica e non poco) o infine le annotazioni di Giacomo Delledonne sul massiccio impiego del decreto legge come strumento non “eccezionale”, ma “ordinario” di attuazione dell’indirizzo (soprattutto economico) di governo.

Accanto al tema “decreto legge”, altri contributi si soffermano, invece, su quella che potremmo definire la nuova frontiera dell’emergenza normativa nel nostro sistema: il potere di ordinanza.

Anche qui, due interventi – con ottica “telescopica” - segnalano novità rilevanti: Andrea Cardone commenta la recente Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 2011 in materia di ordinanze di protezione civile e Monica Rosini propone una prima lettura della sentenza n. 115 del 2011 con cui la Corte costituzionale ha riaffermato i limiti del potere di ordinanza sindacale in materia di incolumità e sicurezza pubblica (rispetto a quello extra-ordinem contingibile ed urgente). Giuseppe Marazzita, invece, utilizzando un’ottica “grandangolare”, compie una ricostruzione generale del fenomeno “potere di ordinanza” nelle sue diverse forme.

Caterina Di Costanzo e Lorenzo Pellegrini, innalzano la scala di analisi, focalizzando l’attenzione su due fenomeni di grandissimo rilievo derivanti dal processo di integrazione normativa innescato dalla partecipazione all’Unione europea.

Da un lato, Pellegrini esamina la progressiva trasformazione del principio di riserva di legge in materia penale dovuta all’evoluzione – soprattutto all’indomani del Trattato di Lisbona – delle competenze comunitarie in materia di norme incriminatrici, dall’altro, Di Costanzo, muovendo da un caso specifico (le politiche di contrasto del tabagismo) analizza l’uso spesso “combinato” di fonti normative “soft” e “hard” nel sistema comunitario. Annalisa Ciampi completa questo sguardo oltre la dimensione nazionale, proponendo alcune riflessioni su una vicenda di grande attualità e che solleva numerosi interrogativi: vista l’attuale crisi militare in Libia, qual è la condizione attuale sul piano giuridico-normativo del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione siglato a Bengasi il 30 agosto 2008 ed entrato in vigore il 2 marzo 2009?

Completano il già ampio spettro di questioni toccate in questo fascicolo i due contributi di Antonio Ruggeri e Salvatore Curreri; il primo firmando la recensione della nuova edizione 2011 del volume di Alessandro Pizzorusso dedicato alle “Fonti del diritto” nel Commentario del codice civile Scialoja-Branca ed il secondo suggerendo una serie di riflessioni sull’attuale condizione del rapporto tra legislazione elettorale e regolamenti parlamentari.

Gli scenari

Se questi sono i temi, quali considerazioni suggeriscono, in termini di “scenario”?

Lungi da chi scrive la pretesa di esaurire queste considerazioni, vorremmo quantomeno suggerire 3 chiavi di lettura.

a) Una questione di metodo decisiva per il diritto costituzionale: il ruolo della prassi

Innanzitutto ci pare utile riproporre una questione di metodo: il ruolo decisivo della prassi come base empirica della riflessione su questi temi.

Il rischio sempre presente negli studi giuridici – ed in modo particolare in quelli costituzionalistici – è quello di sostituire, nelle riflessioni, le interpretazioni ai dati.

Spesso, cioè, accade di assistere a dibattiti scientifici in cui si confrontano diverse ricostruzioni che, purtroppo, hanno perso il contatto vitale con i dati effettivi di partenza (con quella che normalmente chiamiamo la “prassi”) ovvero si fondano su analisi “datate”; questo distacco si deve a due ordini di ragioni.

Da un lato, esso è prodotto da una persistente sottovalutazione, nella dottrina costituzionalistica, dei profili  “descrittivi” delle ricerche, profili ai quali sovente sono preferiti quelli “ricostruttivi” o “teorici”. E’ ovvio che qui non vogliamo in alcun modo sostenere la validità di ricerche “solo” empiriche o di puri e semplici elenchi o “inventari” di prassi. E’, però, decisivo sul piano metodologico insistere – soprattutto con i giovani ricercatori – che conclusioni corrette sul piano teorico o dogmatico nascono sempre da un confronto “umile” e “serrato” con i dati.

D’altro lato, a parziale discolpa di quest’atteggiamento dottrinale, va detto che oggi la prassi in materia di fonti presenta caratteri davvero “caotici”. E’ ormai un luogo comune definire l’uso delle fonti normative come “deviante” e finanche “eversivo” (come denunciò la Corte costituzionale nella sentenza n. 360 del 1996). Le ricostruzioni della prassi “fissate” qualche anno fa spesso si rivelano, nel momento presente, del tutto inutilizzabili (si pensi alle riflessioni sulle figure di abuso della decretazione d’urgenza evidenziate alla fine degli anni ’90 ed alle nuove deformazioni di questo istituto riscontrabili oggi).

Se questo, dunque, giustifica la cautela a misurarsi con una prassi così mutevole, a maggior ragione, è però necessario che gli studiosi tentino il difficile compito di recuperare i “fili ordinanti” nel caos apparente e misurino quanto queste nuove “regolarità” – come abbiamo già detto in un precedente editoriale[2] – rappresentino palesi violazioni delle regole costituzionali ovvero siano una integrazione o una modifica tacita dell’assetto costituzionale.

Proprio in questa direzione gli interventi pubblicati in questo fascicolo muovono dalla “cronaca” costituzionale, non limitandosi a “fotografarla”, ma proponendo valutazioni e modelli ricostruttivi. Ed è sintomatico che anche la recensione del volume del professor Pizzorusso dedicato alle “fonti del diritto” evidenzi come esso non sia “una nuova edizione della fortunata opera del ’77, [ma] si tratta di un libro nuovo: interamente nuovo per concezione, impostazione, svolgimenti.” E ciò “poiché molta acqua è passata sotto i ponti negli oltre trent’anni che separano la prima edizione dalla seconda edizione dell’opera (…) La rottura rispetto alla passata edizione è vistosa, netta.”[3]

Emerge, dunque, una rilevante indicazione di metodo: il grande laboratorio creativo della prassi costituzionale ha avuto da sempre due principali “palestre” – tra le altre - in cui si sono allenati i giovani (e non giovani) studiosi; da un lato, l’ “officina” della prassi in materia di fonti normative e, dall’altro, quella della giurisprudenza costituzionale. Oggi è certamente crescente l’attenzione alla prassi giurisprudenziale, soprattutto a causa dell’apporto considerevole (in termini quantitativi e qualitativi) delle corti costituzionali sovranazionali e straniere. Resta però indispensabile mantenere nello studio un’eguale attenzione sull’altra (fondamentale) modalità creativa del diritto costituzionale vivente e cioè la via “politica” della produzione di norme giuridiche attraverso atti normativi.

b) Da una forma di governo “ipergovernativa” ad una “iperpresidenziale”?

Una seconda chiave di lettura dei contributi consiste, come dicevamo, nel collocarli all’interno dello scenario della forma di governo parlamentare.

In questa prospettiva abbiamo, innanzitutto la conferma di una tendenza ormai del tutto stabilizzata: ci riferiamo alla progressiva ed inarrestabile riduzione dell’area della normazione primaria effettivamente riconducibile al Parlamento, organo – solo “teoricamente”, verrebbe da dire - titolare a norma dell’articolo 70 della Costituzione della funzione legislativa. Due sono le direttrici principali di tale contrazione: una interna e l’altra una esterna.

  1. All’interno, è imponente il progressivo spostamento della produzione delle norme primarie dall’orbita funzionale del potere legislativo a quella dell’esecutivo; questo accade sia nella prassi della decretazione d’urgenza, sempre più sostitutiva e fungibile rispetto al procedimento legislativo ordinario; sia attraverso l’espansione  del potere di ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri. E’ interessante osservare come questo progressivo trasferimento della funzione di normazione primaria verso l’ esecutivo attraverso il potere di ordinanza extra-ordinem si stia, per dir così, propagando dal potere esecutivo nazionale agli “esecutivi” locali, se si pensa al tentativo di attribuire poteri di ordinanza ben oltre l’ordinaria amministrazione ai sindaci, tentativo (per ora?) rintuzzato dalla sentenza n. 115 del 2011 della Corte costituzionale (su cui Monica Rosini).
  2. Una seconda linea di tendenza altrettanto consolidata è quella che vede la crescente attrazione della normazione primaria nell’area di competenza delle istituzioni europee; il caso della riserva di legge in materia di norme penali incriminatrici – ambito sinora ritenuto di gelosa competenza del legislatore nazionale – è sintomatico della formidabile erosione “dall’esterno” dell’area della legislazione primaria. In questo caso, come spesso accade nel sistema normativo europeo, da competenze normative “indirette” siamo impercettibilmente passati a competenze “quasi dirette”, per poi approdare a vere e proprie competenze “dirette” (Lorenzo Pellegrini). Occorre essere ben consapevoli, quindi, che la fase espansiva delle competenze normative primarie dell’Unione europea non è assolutamente cessata, anzi. Come ben dimostra il caso evidenziato da Caterina Di Costanzo, l’Unione europea continua nella sua strategia di conquista di nuovi “territori” per le proprie fonti vincolanti (fonti hard) muovendo da aree di soft law quale, ad esempio, la cooperazione con l’Ufficio regionale europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità. Non c’è bisogno di ribadire che l’interazione tra UE e Parlamento in materia di normazione primaria è e rimane uno “zero-sum game” per cui, inevitabilmente, all’espansione dei poteri dell’uno corrisponde la diminuzione della sfera d’azione dell’altro.

Come mostrano efficacemente gli studi sul decreto-legge che pubblichiamo, è chiaro che una prassi del genere continua a violare tutti i capisaldi del modello costituzionale, sia quelli direttamente desumibili (la necessaria pre-esistenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza, l’immediata applicabilità dei decreti-legge) sia quelli “impliciti” (l’omogeneità dei contenuti). Tale circostanza finisce per innescare quel pericoloso processo circolare ben noto a chi si occupa di fonti per cui, da un lato, la prassi provoca una torsione della forma di governo parlamentare in senso “ipergovernativo”, deprivando il Parlamento di qualsiasi reale funzione dialettica; dall'altro, correlativamente, questa marginalizzazione del Parlamento nel circuito della decisione politica fa si che il Governo debba trovarsi a supplire in misura sempre maggiore alla latitanza di un Parlamento che lo stesso potere esecutivo contribuisce ad emarginare.

In questo senso, la recentissima approvazione in due giorni[4] della legge di conversione del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, decreto “imposto” dalla crisi dei mercati finanziari (senza peraltro risultati apprezzabili) ed approvato senza dibattito, ma sotto gli auspici della Presidenza della Repubblica, più che una misura del tutto eccezionale ed irripetibile, rappresenta il culmine emblematico di una tendenza già in atto, vòlta a trasformare il Parlamento sempre più in un mero “spettatore” di decisioni prese altrove.

Sia consentita una sola osservazione su questi dati.

Se dalla concreta vita del sistema delle fonti è legittimo inferire lo stato di salute della forma di governo, dalla prassi più recente emergono alcuni nuovi segnali che meritano una più attenta interpretazione.

Un carattere tipico della nostra forma di governo è la sua definizione costituzionale come un insieme organico di relazioni tra i soggetti detentori dei poteri di decisione politica e quelli dotati di funzioni di garanzia; spesso questa stretta relazione ha fatto sì che all’inerzia dell’uno abbia sopperito l’attivismo dell’altro.

Indubbiamente la scarsa efficacia del controllo giudiziario effettuato dalla Corte Costituzionale sulla decretazione d’urgenza - nonostante la novità del filone giurisprudenziale inaugurato dalle sentenze 171 del 2007 e 128 del 2008, in cui la Corte ha annullato per la prima volta leggi che avevano convertito decreti-legge per “evidente mancanza” dei requisiti costituzionali - ha sollecitato il Presidente della Repubblica ad un uso più penetrante del suo potere di controllo “politico”.

E’, dunque, sotto gli occhi di tutti l’incremento quasi esponenziale del potere di controllo del Presidente della Repubblica sulla decretazione d’urgenza sia in termini quantitativi che qualitativi.

Occorrerebbe dedicare maggior attenzione allo studio di questa nuova stagione del potere di controllo presidenziale, in primo luogo per il parametro impiegato: soprattutto nella prassi del Presidente Napolitano, l’azione presidenziale si muove decisamente nell’orbita della difesa dei diritti delle minoranze parlamentari, della tipicità della legge di conversione e della sua infungibilità con i disegni di legge ordinari del governo, utilizzando, cioè, parametri che – in buona sostanza – non hanno mai seriamente fatto la loro comparsa nella giurisprudenza costituzionale.

Ma v’è di più: finora gli interventi presidenziali dei quali si poteva avere una traccia formale erano essenzialmente quelli in sede di rinvio eventuale della promulgazione della legge di conversione; gli interventi che il Presidente poteva altresì effettuare in sede di emanazione, erano normalmente lasciati ai rapporti interni.

La prassi presidenziale più recente, invece, si è arricchita di numerosi casi in cui il Presidente ha reso ufficiale il rifiuto all’emanazione (si veda ad esempio, la vicenda del decreto legge sul c.d. caso Englaro) oppure ha provveduto all’emanazione accompagnandola da motivazioni “dissenzienti” (per usare l’immagine di Angioletta Sperti[5]), sino a prevedere emanazioni con indirizzi al Governo ovvero al Parlamento (si veda per tutti il caso del decreto-legge cd. mille proroghe).

Abbiamo contato, dal sito del Quirinale, oltre 25 comunicati ufficiali del Presidente riguardanti l’emanazione di decreti legge o la promulgazione di leggi di conversione.

Ma un caso ancora più problematico è offerto proprio dal recentissimo decreto-legge contenente le misure di stabilizzazione dei mercati finanziari; il preambolo del decreto attesta che esso è stato adottato dal Consiglio dei Ministri il 30 giugno 2011, ma la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale – e la contestuale presentazione del disegno di conversione – è del 7 luglio.

Oltre alla patente violazione – puntualmente evidenziata da Alfonso Celotto[6] - del precetto costituzionale, secondo il quale “quando (…) il Governo adotta (…) provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere”, la distanza temporale tra l’adozione e l’emanazione presidenziale è la prova esplicita della complessa “negoziazione” intervenuta tra Governo e presidenza, negoziazione peraltro espressamente richiamata nel comunicato del Quirinale che ha accompagnato l’emanazione[7].

Molte sono le domande che apre una prassi del genere.

In primo luogo, come ha rilevato in un recente convegno milanese Ugo De Siervo, immaginando che il Presidente abbia chiesto ed ottenuto una modifica del testo originalmente deliberato dal Consiglio dei ministri, chi ha approvato la versione finale pubblicata in Gazzetta Ufficiale? Il tenore letterale del preambolo certifica inequivocabilmente che il testo emendato non è tornato in Consiglio dei ministri e quindi si deve ritenere che la versione definitiva pubblicata è l’esito di una “contrattazione” bilaterale tra Governo (Presidente? Sottosegretario alla Presidenza? Ministro per i Rapporti con il Parlamento? Ministri interessati per materia?) e Presidenza della Repubblica.

In secondo luogo, l’intervento del Presidente è sempre più marcatamente un controllo del merito politico e del contenuto specifico dei decreti; di certo non è un controllo “esterno” sulla palese incostituzionalità o sulla “evidente mancanza” dei requisiti previsti dalla Costituzione. E questo controllo in molti casi non si limita alla demolizione di parti inopportune contenute nel decreto legge (spesso rinviandole ai procedimenti legislativi ordinari), ma contiene suggerimenti ovvero indicazioni, in ogni caso forme espressive di un vero e proprio “indirizzo” presidenziale.

Sembrerebbe, dunque - ma il fenomeno va studiato con attenzione - che dinanzi alla torsione “ipergovernativa” della forma di governo ed alla debolezza del controllo politico del Parlamento, si stia producendo, per reazione, una sorta di deriva “(iper)presidenziale”, in cui il Quirinale assume nei fatti un ruolo di “terza camera legislativa”, in particolare nella procedura di emanazione/conversione dei decreti legge[8].

La deformazione della forma di governo in senso “ipergovernativo”, quindi, ne indurrebbe una ulteriore, altrettanto preoccupante.

c) La certezza del diritto: un mito o un requisito della forma di stato democratica?

Un’ultima chiave di lettura dei contributi che presentiamo è quella del sistema delle fonti come indicatore della Forma di Stato.

Mentre il legame tra fonti normative e regime di governo è stato ripetutamente messo in evidenza, appare meno di frequente nella riflessione dottrinale la percezione dell’impatto concreto che una determinata modalità di produzione delle norme giuridiche ha sulla garanzia dei diritti fondamentali; e questo soprattutto con riferimento alla modalità di produzione delle fonti legislative di fatto soggette al solo controllo di costituzionalità ed alle restrizioni di accesso tipiche del sistema italiano di judicial review.

Ovviamente non intendiamo affermare che questa consapevolezza sia stata del tutto assente in dottrina[9] e la stessa Corte costituzionale ha inserito, seppur incidentalmente, il riferimento ai diritti fondamentali o ai valori costituzionali nella sua giurisprudenza sulle fonti – di solito utilizzando la formula per cui occorre garantire il rispetto degli articoli 76 e 77 della Costituzione, “a maggior ragione laddove siano coinvolti diritti fondamentali”[10]

Ci pare di registrare però una novità nei contributi che pubblichiamo, ma anche nel clima accademico generale[11]: l’impressione, infatti, è che questa considerazione dallo sfondo, per di così, da “dietro le quinte” della scena, stia sempre più portandosi in primo piano come valore costituzionale primario da tutelare.

In primo luogo, come abbiamo già rilevato nel paragrafo precedente, il controllo presidenziale sulla decretazione d’urgenza – elemento che rappresenta forse la novità più consistente in materia – è giocato (anche sul piano retorico dell’argomentazione) sempre più sul piano dei diritti che su quello dei poteri: si pensi ad esempio, al comunicato del presidente Napolitano in cui ha ricordato che la disciplina del procedimento legislativo è posta a tutela del diritto delle commissioni di partecipare alla decisione legislativa nelle forme del procedimento ordinario[12].

Ma il vulnus più grave causato dalla configurazione odierna del sistema di produzione nortmativa – soprattutto primaria – è al diritto fondamentale alla certezza del diritto oggettivo.

Nel caso del decreto legge la situazione è certamente più emblematica, ma se a questa aggiungiamo il regime alquanto “opaco” delle ordinanze extra ordinem, il quadro risulta ancora più drammatico.

Dinanzi a testi legislativi come il decreto “milleproroghe” ovvero ad intere manovre economiche approvate per decreto legge (si vedano le osservazioni nella introduzione del prof. Zaccaria sulla crescita di “peso” dei decreti legge) e considerando, altresì, l’accrescimento (di circa il 70%, in termini di commi[13]) che si realizza nella fase di emendamento durante la conversione parlamentare, la situazione che si sta creando è quella di una sostanziale “inconoscibilità” di una parte cospicua delle fonti primarie.

Si consideri un problema solo apparentemente secondario: l’efficacia degli emendamenti modificativi aggiunti in sede di conversione di un decreto-legge. Che efficacia hanno?

Teoricamente, infatti, sono possibili due opposte soluzioni dinanzi ad un emendamento che nella sostanza abroghi una disposizione del decreto legge in sede di conversione, a seconda che si dia prevalenza all’intenzione complessiva (di convertire) ovvero al contenuto specifico (di modificare): o si considera la modifica comunque contenuta all’interno della conversione del decreto e da ciò segue la stabilizzazione degli effetti per i giorni di vigenza del decreto e la modifica a partire dalla data di entrata in vigore della legge, ovvero, all’opposto, si considera la modifica una mancata conversione pro parte con decadenza ex tunc e modifica, ovviamente, decorrente dall’entrata in vigore della legge di conversione (a meno che l’emendamento parlamentare non abbia un espresso tenore retroattivo e ciò sia consentito dalla materia).

La questione come si può immaginare è risalente e la stessa legge 400 del 1988 aveva tentato (solo parzialmente) di risolverla affremando nei commi 5 e 6 che:

“5. Le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest'ultima non disponga diversamente. Esse sono elencate in allegato alla legge.

6. Il Ministro della giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale, purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine sia data immediata pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.”

La giurisprudenza costituzionale in un precedente (la sentenza n. 51 del 1985) aveva stabilito che la conversione con emendamento modificativo costituisce una “mancata conversione in parte qua”.

Dinanzi ad un nuovo caso recente di emendamento sostanzialmente modificativo[14] la Corte costituzionale ha ribadito che:

“nel caso in esame risultano astrattamente ipotizzabili due alternative ermeneutiche: che l’emendamento dianzi ricordato implichi la conversione della norma del decreto-legge censurata e la sua contestuale modifica con effetto ex nunc (a partire, cioè, dal giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione); o che, al contrario, l’emendamento equivalga ad un rifiuto parziale di conversione, che travolge con effetto ex tunc la norma emendata per la parte non convertita (…)”

La Corte poi ha proseguito osservando che la Suprema Corte di Cassazione, occupandosi di una fattispecie analoga,  “si è espressa a favore della seconda delle soluzioni in precedenza indicate, e cioè nel senso che l’emendamento equivalesse ad un rifiuto parziale di conversione: donde la conclusione che, in riferimento [al caso di specie], la norma del decreto-legge dovesse considerarsi tamquam non esset, anche durante il periodo della sua provvisoria vigenza (Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2005, n. 11186; Cass. civ., sez. I, 17 marzo 2000, n. 3106)”

L’aspetto più sorprendente è che, sulla base di queste considerazioni la Corte costituzionale non prende posizione ma, con una pronuncia di inammissibilità, rilancia la palla al giudice a quo invitandolo a riesaminare la questione e limitandosi a suggerire come eventuale criterio risolutivo, la “possibilità di ravvisare nell’emendamento apportato in sede di conversione un mutamento della stessa ratio della norma censurata”.

Dunque, se vi è mutamento della ratio, vi è mancata conversione, se invece la ratio rimane identica, c’è conversione e modifica. Il che sta a dire, concretamente, che l’efficacia di migliaia di norme giuridiche – durante la vigenza decreto-legge - è affidata a questa sottile quanto sofisticata distinzione!

Vista l’ampiezza della portata degli interventi in sede di emendamento parlamentare, (ovvero la prassi dei c.d. decreti legge “a perdere”[15]), ben si comprende come questa “piccola” questione, in realtà oggi abbia un impatto notevole e coinvolga l’esistenza concreta e l’applicabilità di numerosissime disposizioni rispetto alle quali versiamo in una condizione di oggettiva incertezza.

Occorre ammettere che, dinanzi a questa condizione, appare molto più comprensibile il comunicato del Presidente della Repubblica - in occasione della promulgazione della conversione del decreto milleproroghe - in cui il Quirinale, con una affermazione che inizialmente ha suscitato non poche perplessità in quanto ritenuta del tutto velleitaria, “ha preso atto della dell’impegno assunto dal Governo e dai Presidenti dei gruppi parlamentari di attenersi d’ora in avanti al criterio di una sostanziale inemendabilità dei decreti-legge” (nostro il corsivo).

La realtà è che oggi – analogamente al periodo della “reiterazione” dei decreti legge ante-1996 – è nuovamente in discussione la reale vigenza dei decreti legge.

In moltissimi casi, infatti, ragioni di prudenza invitano, non soltanto i professori di diritto, ma i cittadini e la pubblica amministrazione ad attendere la conversione di un decreto legge prima (di commentarlo ovvero) di obbedire effettivamente al loro contenuto.

Sarà bene, allora, non dimenticare il precedente della sentenza 364 del 1988 della Corte costituzionale sulla conoscibilità delle fonti come prerequisito sostanziale della forma di stato democratica.

La Corte, ricordiamo, in quella occasione affermò chiaramente che “Lo stato è tenuto a favorire al massimo la riconoscibilità sociale dell’effettivo contenuto delle norme” dal momento che non si può chiedere l’obbedienza rispetto a norme non conoscibili.

 

[1] Antonio Ruggeri non ce ne vorrà se ancora adoperiamo la locuzione “sistema” per indicare l’insieme dei processi produttivi che dànno vita a norme giuridiche nel nostro ordinamento; l’espressione – da lui più volte criticata, da ultimo nel suo contributo nello "speciale" per questo fascicolo, pag. 1 – se ha perso molta della sua valenza prescrittiva, costituisce ancora un descrittore accettabile per chi voglia indicare un “insieme di elementi tra loro interdipendenti”, nulla di più.

[2] V. A. Simoncini, 1998-2008: la fine della legge? (Editoriale n. 3/2009), in www.osservatoriosullefonti.it

[3] Antonio Ruggeri, Dal sistema delle fonti ai sistemi di norme (a margine di A. Pizzorusso, Fonti del diritto2, Zanichelli-Il foro italiano, Bologna-Roma 2011), in questo numero, p. 1.

[4] In realtà, il disegno di legge di conversione è stato presentato il 7 luglio al Senato ed assegnato per l’esame in commissione; lo stesso è approdato all’ aula del Senato il 14 luglio ed è stato votato; trasmesso alla Camera il giorno seguente è stato approvato definitivamente.

[5] V. il testo della prerelazione presentata al convegno di Milano del 10-11 giugno 2001, A. Sperti, Il decreto-legge tra Corte costituzionale e Presidente della Repubblica dopo la "seconda svolta", in www.gruppodipisa.it.

[6] A. Celotto, Ormai è crollato anche il requisito costituzionale della "immediata presentazione" del decreto-legge alle Camere per la conversione (prendendo spunto dal D.L. n. 98 del 2011), in www.associazionedeicostituzionalisti.it

[7] “Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi emanato il decreto-legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 giugno, recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", essendo stati essenzialmente ricondotti i suoi contenuti alle norme strettamente attinenti alla manovra finanziaria ed a quelle suscettibili di incidere con effetto immediato sulla crescita economica. Il Presidente della Repubblica rileva altresì che il decreto-legge prevede gran parte della manovra necessaria per raggiungere il pareggio del bilancio entro il 2014; per la restante parte si dovrà procedere con gli ordinari strumenti di bilancio per il triennio 2012-2014 e i relativi disegni di legge collegati”

[8] Efficacemente titolava un settimanale (“L’Espresso” n.28/2011) nei giorni scorsi “Re Giorgio”.

[9] Già A. Pizzorusso nel 1986 nel saggio intitolato "Sistema delle fonti e forma di Stato e di Governo", in Quad. cost., 2/1986, pp. 217 e ss., lucidamente illustra questa relazione.

[10] Sin dalla sentenza 302 del 1988.

[11] Ci riferiamo in particolare alle conclusioni del dibattito svoltosi al recente Convegno annuale del Gruppo di Pisa a Milano dedicato agli atti normativi del Governo, in corso di pubblicazione.

[12] Lettera ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri in data 22 febbraio 2011.

[13] Si v. a proposito la relazione al Comitato per la legislazione dal Presidente On. Lino Duilio (31 dicembre 2009).

[14] Sul caso - sentenza n. 367 del 2010 della Corte costituzionale - si vedano le osservazioni di A. Sperti, Il decreto-legge tra Corte costituzionale e Presidente della Repubblica dopo la "seconda svolta", cit.  

[15] R. Zaccaria, E. Albanesi, Il decreto-legge tra teoria e prassi, in www.forumcostituzionale.it, 2009.

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