Breve analisi delle leggi regionali in materia di ricerca (2/2013)

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Procedendo ad una breve analisi delle legislazioni regionali in materia di ricerca, si ritiene opportuno, anzitutto, osservare che circa la metà delle regioni italiane ha menzionato espressamente la ricerca scientifica nel proprio statuto, talvolta abbinandola alla differente ma connessa nozione di innovazione. È il caso, ad esempio, dello statuto della Regione Lombardia, il cui art. 10 è rubricato, appunto, "Ricerca e innovazione". Le altre regioni, invece, omettono qualsiasi riferimento esplicito.

Tuttavia, quella appena menzionata non costituisce una distinzione particolarmente significativa, data la sua inidoneità a produrre effetti incisivi sul piano concreto. Infatti, ogni regione, comunque, ha disciplinato in modo autonomo la ricerca a livello di normazione primaria. Al riguardo, sono individuabili alcuni elementi comuni ad una pluralità di esperienze regionali, in conformità alla prassi legislativa della circolazione di modelli tra i diversi contesti territoriali.

In primo luogo, viene in rilievo l'attività di programmazione della ricerca. La programmazione rappresenta uno dei profili in cui la circolazione di modelli risulta maggiormente evidente. In effetti, possiamo vedere nella predisposizione di piani e programmi da parte del livello di governo regionale una delle principali conseguenze della riforma del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione sul punto. Nel momento in cui l'art. 117, comma 3, Cost., così come sostituito dalla Legge Costituzionale n. 3/2001, ha attribuito la materia "ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi" alla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni, queste ultime si sono viste investite del rilevante potere di programmare il settore de quo.

In merito, a prescindere dai contenuti concreti, i quali - ovviamente - devono adattarsi alle specificità di ogni singola realtà locale, si configura come piuttosto simile quella che potremmo definire l'impalcatura della programmazione, cioè i suoi caratteri generali. Uno di questi è la ripartizione di compiti tra giunta regionale e consiglio: alla prima spetta proporre il programma, mentre il secondo è competente ad approvarlo. Siffatta suddivisione dei poteri rivela un obiettivo ben preciso: il raggiungimento di un accordo, il più ampio possibile, in seno all'organo politico rappresentativo sulle linee strategiche (o, almeno, su alcune di esse) in un ambito così delicato per lo sviluppo di qualsiasi regione.

Inoltre, bisogna sottolineare la durata triennale dei programmi. Quest'ultima regola si fonda su un condivisibile principio di buon senso: tre anni sono un periodo sufficiente per consentire agli indirizzi generali fissati dall'esecutivo di produrre i propri frutti e, quindi, essere passibili di valutazione. Va anche notato che pressoché tutte le leggi regionali hanno previsto la possibilità di aggiornare il programma, al fine di adattarlo alle eventuali mutazioni di fatto. In quest'ottica, è solitamente disposta l'attuazione del programma mediante piani annuali, redatti e approvati dalla giunta.

Al riguardo, si menziona l'art. 10 della legge regionale del Lazio 4 agosto 2008, n. 13. Secondo tale disposizione, la Regione "adotta il programma strategico regionale per la ricerca, l'innovazione ed il trasferimento tecnologico [...], di durata triennale, nel quale sono stabiliti gli indirizzi e gli obiettivi strategici per le politiche di ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico". Quanto, poi, alla facoltà di aggiornare il documento, l'art. 12 ha stabilito: "Ai fini dell'attuazione del programma strategico, nonché di un suo eventuale aggiornamento sulla base del monitoraggio e della valutazione effettuati con le modalità previste nel programma stesso, la Giunta regionale [...] adotta, entro il mese di marzo di ogni anno, un piano, nel quale sono individuati, per l'anno di riferimento, gli interventi, i soggetti ammessi, le risorse, nonché i tempi e le modalità per la realizzazione degli interventi stessi".

Un altro elemento comune alle varie regioni è costituito dall'istituzione di organismi aventi funzioni consultive nei confronti degli organi di governo regionali. In tal modo, i legislatori intendono perseguire due finalità, entrambe apprezzabili: la prima è garantire il coinvolgimento della società civile nell'assunzione delle decisioni in una materia, quella della ricerca ed innovazione, destinata a produrre effetti (più o meno diretti) sulla collettività; la seconda consiste, invece, nel fornire alla giunta regionale i dati e gli elementi tecnici, frutto di apposite analisi e ricerche, che costituiscono, nel loro complesso, un ausilio fondamentale all'adozione delle decisioni. Quanto al primo scopo, si agisce, soprattutto, sui criteri di nomina: i membri dei suddetti organi devono rappresentare categorie ben determinate, tendenzialmente coincidenti con gli stakeholder del settore.

I vari aspetti appena indicati emergono, ad esempio, dalla legge regionale del Piemonte 30 gennaio 2006, n. 4. Nel dettaglio, l'art. 6 della legge ha previsto l'istituzione del Comitato regionale per la ricerca e l'innovazione, definito - al comma 1 - "organismo di raccordo, consultazione e partecipazione della comunità regionale"; ai sensi del comma 2, ad esso spetta, tra gli altri compiti, "contribuire alla definizione del programma triennale della ricerca di cui all'articolo 5". Inoltre, l'art. 8 ha disposto la creazione di una Commissione scientifica. Questa, in base al comma 2, "è organo di consulenza della Giunta regionale in materia di valutazione, analisi e previsione su problematiche e tendenze della ricerca a livello regionale, nazionale ed internazionale e di consulenza al Comitato regionale per la ricerca e l'innovazione ai sensi dell'articolo 6, comma 7".

In terzo luogo, un altro dato che conviene menzionare è la disciplina delle fonti di finanziamento degli interventi in materia di ricerca ed innovazione. La regolamentazione di tale profilo può essere considerata una costante delle leggi regionali: ogni legislatore locale ha sentito l'esigenza di effettuare una qualche sistemazione degli strumenti attraverso i quali procedere, istituzionalmente, all'erogazione di risorse finanziarie a favore della ricerca. In particolare, dall'analisi dei diversi testi legislativi è agevole ricavare, quantomeno, due tendenze principali.

Una prima tendenza si sostanzia nell'istituzione di un fondo unico per il settore della ricerca ed innovazione. Si tratta di un'operazione che è manifestamente volta alla chiarificazione e semplificazione: si cerca di convogliare in un unico istituto i fondi eterogenei in precedenza rilevanti. Una delle regioni che si è mossa in tale direzione è la Sardegna. Infatti, l'art. 6, comma 1, a) della legge regionale 7 agosto 2007, n. 7, ha stabilito che la Regione provvede ad istituire "il fondo unico regionale per la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica", al dichiarato fine di razionalizzare la gestione delle relative politiche.

Inoltre, è necessario sottolineare altresì che, per quanto concerne specificamente la ricerca industriale e l'innovazione, quindi, tutte quelle attività che implicano sempre un contatto - immediato o mediato - con le imprese, piuttosto diffusa è la costituzione per legge di un fondo di rotazione. Un caso esemplare, al riguardo, è dato dalla legge regionale della Liguria 16 gennaio 2007, n. 2, il cui art. 16 è rubricato "Costituzione e finalità del Fondo di rotazione".

Ai sensi del comma 1, questo fondo, creato dalla Giunta regionale, è diretto a finanziare: "a) progetti di ricerca industriale e sviluppo precompetitivo; progetti di investimento di innovazione tecnologica, produttiva, commerciale, organizzativa e gestionale, anche finalizzati a migliorare la sicurezza dei processi produttivi e la sicurezza dei luoghi di lavoro; c) progetti di investimento innovativi diretti a favorire processi durevoli di integrazione produttiva e di aggregazione delle imprese; d) progetti di start-up di imprese ad alto potenziale tecnologico e di spin-off aziendale".

In altre realtà regionali, invece, il legislatore ha preferito elencare tutta una serie di strumenti messi a disposizione per il finanziamento della ricerca e dell'innovazione, rimettendo in toto all'organo esecutivo e al suo apparato amministrativo i compiti attuativi. Questa impostazione rende ancora più marcata l'intrinseca commistione tra la ricerca condotta nelle università e negli enti pubblici di ricerca e quella svolta all'interno delle imprese.

Un approccio di questo tipo si ritrova nella legge regionale della Lombardia 2 febbraio 2007, n. 1. Essa, dopo aver fissato - all'art. 1 - le finalità perseguite in materia di ricerca ed innovazione, ha individuato, all'art. 2, i mezzi volti a conseguire gli scopi predeterminati, appunto, senza operare una distinzione netta tra università e imprese quali destinatarie degli interventi. In particolare, sono stati identificati i seguenti strumenti: politiche fiscali; credito; agevolazioni (intendendo con tale temine - fondamentalmente - "incentivi, contributi, voucher, sovvenzioni"); finanza innovativa; promozione; informazione. Tra l'altro, il 'modello lombardo' ha ispirato, soprattutto, la legge regionale della Basilicata 16 febbraio 2009, n. 1, che ne ha ripreso, almeno in parte, l'impianto e la terminologia.

Si è orientato in questo senso anche il legislatore abruzzese. Infatti, secondo l'art. 25, comma 2, della legge regionale dell'Abruzzo 8 agosto 2012, n. 40, integrano tipologie di intervento ammissibili ai fini del raggiungimento degli obiettivi in tema di ricerca e innovazione: "a) contributi in conto interessi; b) promozione e finanziamento di progetti; c) costituzione, partecipazione e finanziamento di organismi pubblici e privati; d) fondi di rotazione e di garanzia ed altre forme agevolative che prevedano il coinvolgimento del settore creditizio; e) altre forme di intervento individuate e definite dalla Giunta regionale".

Un quarto elemento che viene in evidenza, in quanto comune ad una pluralità di contesti locali, consiste nell'istituzione di una rete regionale della ricerca. Si tratta di un chiara operazione di razionalizzazione, volta a garantire un coordinamento dei rapporti che vengono ad istaurarsi tra i diversi soggetti, pubblici e privati, che svolgono attività nel settore. Una delle regioni che ha sentito con maggiore intensità l'esigenza della razionalizzazione in discorso è, sicuramente, la Toscana. In effetti, la legge regionale della Toscana 27 aprile 2009, n. 20 ha costruito un'articolata struttura pubblica che ruota attorno alla ricerca e all'innovazione.

La rete regionale è stata qualificata dall'art. 3, comma 1, della legge come un organo diretto a favorire "la cooperazione fra i soggetti operanti in Toscana nell'ambito dell'alta formazione, della ricerca pubblica e privata, della diffusione e del trasferimento dei risultati della ricerca stessa". Peraltro, la stessa finisce per essere semplicemente un ingranaggio, sia pure fondamentale, dell'intero meccanismo predisposto dal legislatore.

Una rete regionale della ricerca simile a quella toscana è stata prevista nella regione Campania ed è stata espressamente denominata 'Campania INHUB'. Una particolarità si ritiene degna di nota: la regolazione di moduli organizzativi di questo tipo viene solitamente inserita in una legge specificamente dedicata alla materia della ricerca (spesso abbinata all'innovazione). In questo caso, invece, la rete è stata disciplinata dall'art. 41, comma 7, della legge 27 gennaio 2012, n. 1, cioè della legge finanziaria regionale per l'anno 2012.

Bisogna altresì segnalare che in alcune regioni non è stato istituito un vero e proprio organismo amministrativo atto a ricomprendere gli attori che agiscono nel settore all'interno del territorio di riferimento. Però, è ben presente il concetto di rete, anche se in un senso che assume sfumature diverse a seconda dell'esperienza a cui si fa riferimento.

A titolo meramente esemplificativo, dalla legge regionale del Veneto 18 maggio 2007, n. 9 si ricava che la "messa in rete" dei soggetti attivi in materia, ai sensi dell'art. 2, costituisce un mezzo per la promozione delle loro attività, promozione la quale integra una delle finalità perseguite dalla programmazione regionale. È legittimo osservare che il legislatore, pur seguendo una strada differente da quella descritta precedentemente, persegue, in sostanza, la stessa finalità: il coordinamento delle azioni poste in essere dai soggetti coinvolti. A conferma di ciò, il medesimo art. 2 parla testualmente di "sistema regionale della ricerca e dell'innovazione". Tale formula e quelle molto simili utilizzate in altri contesti regionali, tutte - comunque - contenenti il termine "sistema", suggeriscono esattamente l'idea di un'armonizzazione delle iniziative in materia.

Inoltre, vi sono ipotesi nelle quali per rete si intende, invece, la creazione di un collegamento diretto tra gli impianti in cui materialmente vengono effettuate le attività in discorso. L'esempio più calzante, in merito, è dato dalla legge regionale dell'Emilia-Romagna 14 maggio 2002, n. 7. L'art. 6 della legge, rubricato "Sviluppo di rete", al comma 1, ha previsto "lo sviluppo nel territorio regionale di una rete di "Laboratori di ricerca e trasferimento tecnologico" o "Centri per l'innovazione", aggiungendo che "la Giunta regionale stabilisce con successivo atto i requisiti di tali Laboratori o Centri per l'accesso alle agevolazioni regionali".

È palese, ancora una volta, come l'obiettivo sostanziale che si ha di mira sia quello di coordinare le operazioni espletate nell'ambito della ricerca ed innovazione, affinché lo svolgimento delle relative azioni risulti organico. A scanso di equivoci, il legislatore ha ricondotto la norma suddetta all'art. 1, comma 1, c), che ha inserito tra le finalità degli interventi regionali in materia anche lo "sviluppo coordinato di una rete di iniziative, attività e strutture per la ricerca di interesse industriale e l'innovazione tecnologica". Si può notare, nuovamente, la sussistenza di un nesso strettissimo tra l'idea di rete e il concetto di coordinamento.

Infine, è opportuno segnalare che il concetto di rete viene impiegato, esplicitamente ovvero in modo implicito, da buona parte dei legislatori regionali anche ai fini della condivisione dei dati della ricerca tra tutti gli attori che operano nell'ambito del territorio di riferimento. Tale scopo prende le mosse dal rilievo che l'esistenza di un patrimonio informativo comune a cui gli attori stessi possono attingere in qualunque momento è idonea a produrre effetti benefici in termini di efficienza ed efficacia delle attività di ricerca.

Al riguardo, citiamo l'esperienza della regione Calabria, la cui legge 17 agosto 2009, n. 24, ha istituito, all'art. 3, il Sistema della Ricerca Regionale (SRR). Ebbene, secondo il comma 3 dell'articolo, questo organismo, al quale partecipano enti tanto pubblici quanto privati, ha il compito di raccogliere e trattare "tutti i dati della ricerca progettata ed attuata dai soggetti che lo compongono, nel rispetto della disciplina in materia di riservatezza". Poi, il comma 4 - ed è questo l'aspetto di maggiore interesse - ha precisato: "Ai dati accedono tutti i soggetti della ricerca regionale attraverso la rete informatica della ricerca regionale, nonché hanno diritto di accesso le Università e gli enti di ricerca nazionali ed internazionali accreditati".