Corte di giustizia (Grande sezione), cause riunite C-58/13 e C-59/13, Torresi c. Consiglio dell’ordine degli avvocati di Macerata (3/2014)

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Non costituisce una pratica abusiva ai sensi del diritto dell’Unione il fatto che un cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisire una qualifica professionale, e faccia di seguito ritorno nel proprio Stato membro per esercitare, sulla base della qualifica così ottenuta, l’attività ad essa relativa

Attraverso la direttiva 98/5/CE,[1] il legislatore dell’Unione ha istituito un meccanismo di mutuo riconoscimento dei titoli professionali degli avvocati migranti che intendono esercitare la professione in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno ottenuto la qualifica. Al fine di eliminare le ineguaglianze e gli ostacoli alla libera circolazione che derivano dai diversi regimi nazionali per l’acquisizione della qualifica di avvocato, l’art. 3 della Direttiva ha previsto – compiendo un’opera di completa armonizzazione – che l’avvocato che intende esercitare in uno Stato membro diverso da quello in cui ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente del primo, e che l’unico requisito è la presentazione del documento che attesta l’iscrizione del richiedente presso la corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine.

Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza in Italia, i sig.ri Torresi si sono recati in Spagna, dove hanno ottenuto un’altra laurea in giurisprudenza e l’iscrizione nell’Albo degli avvocati di Tenerife. Tornati in Italia hanno presentato domanda di iscrizione nella sezione speciale dell’Albo degli avvocati di Macerata. Poiché il Consiglio dell’ordine di Macerata non decideva nel termine di 30 giorni, i Torresi si rivolgevano al Consiglio nazionale forense. Quest’ultimo, ritenendo di essere in presenza di una situazione estranea agli obiettivi della Direttiva 98/5/CE, e configurabile come un’ipotesi di abuso del diritto UE, decideva di sollevare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. In particolare, a quest’ultima si chiedeva di chiarire se la Direttiva, letta “alla luce del principio generale del divieto di abuso del diritto e dell’art. 4, par. 2, TUE sul rispetto delle identità nazionali”, imponesse alle autorità competenti degli Stati membri di procedere alla iscrizione nell’Albo anche in una caso come quello dei sig.ri Torresi. Il Consiglio nazionale dell’ordine chiedeva, inoltre, di accertare la validità dell’art. 3 della Direttiva alla luce dell’art. 4, par. 2, TUE, prospettandone l’idoneità a consentire l’elusione del requisito del previo superamento di un esame per l’accesso alla professione forense, che trova il suo fondamento nella Costituzione italiana (segnatamente, nell’art. 33, par. 5).

La Corte di giustizia ha affermato, innanzitutto, che il Consiglio nazionale forense soddisfaceva, nel caso di specie, i requisiti della “giurisdizione” ai sensi dell’articolo 267 TFUE. Secondo una giurisprudenza consolidata, la Corte “tiene conto di un insieme di elementi, quali il fondamento legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente”.[2] In particolare, nel valutare la sussistenza di quest’ultimo requisito, che veniva contestata dai Torresi, la Corte ha evidenziato l’incompatibilità tra la carica di consigliere nazionale e quella di membro di un Consiglio dell’ordine degli avvocati locale, il fatto che il Consiglio nazionale forense è soggetto alle garanzie previste dalla Costituzione italiana in materia di indipendenza e di imparzialità dei giudici, e la circostanza che  esso esercita le proprie funzioni in piena autonomia, senza vincoli di subordinazione.[3] Inoltre, il Consiglio nazionale forense presenta anche requisiti di terzietà e imparzialità, poiché, da un lato, non può essere parte nel procedimento avviato dinanzi alla Corte suprema di cassazione contro la decisione in merito al ricorso avverso il Consiglio dell’ordine interessato; dall’altro, è prassi che il consigliere nazionale proveniente dal Consiglio dell’ordine degli avvocati interessato dalla domanda di iscrizione non fa parte del collegio giudicante del Consiglio Nazionale Forense.[4]

Rispetto alla prima questione pregiudiziale, la Corte ha osservato, in prima battuta, che un cittadino nella situazione dei sig.ri Torresi presenta tutti i requisiti necessari per essere iscritto all’Albo degli avvocati stabiliti nello Stato membro di origine, avvalendosi della qualifica professionale ottenuta in un altro Stato membro. Tanto premesso, la Corte ha proceduto a verificare la sussistenza degli estremi di un uso abusivo o fraudolento del diritto dell’Unione.[5]  La lotta contro l’abuso della libertà di stabilimento può infatti giustificare misure nazionali “volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato FUE, taluni dei [cittadini dell’unione] tentino di sottrarsi abusivamente alle norme delle loro leggi nazionali”.[6]

La Corte ha tuttavia escluso la sussistenza degli elementi costitutivi dell’abuso, ossia la circostanza che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo della stessa non è stato raggiunto (elemento oggettivo), e la volontà di ottenere un vantaggio indebito dalla normativa dell’Unione creando artificiosamente le condizioni per il suo ottenimento (elemento soggettivo). Da un lato, “il diritto dei cittadini di uno Stato membro di scegliere (…) lo Stato membro nel quale desiderano acquisire il loro titolo professionale e (…) quello in cui hanno intenzione di esercitare la loro professione è inerente all’esercizio, in un mercato unico, delle libertà fondamentali garantite dai Trattati”.[7] Dall’altro, la scelta di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro, “allo scopo di beneficiare di una normativa più favorevole non consente, di per sé, (…), di concludere nel senso della sussistenza di un abuso del diritto”.[8]

Da ultimo, la Corte ha affermato la validità dell’art. 3 della Direttiva con riferimento all’art. 4, par. 2, TUE, rilevando che tale disposizione “riguarda unicamente il diritto di stabilirsi in uno Stato membro per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine[;] non disciplina l’accesso alla professione di avvocato né l’esercizio di tale professione con il titolo professionale rilasciato nello Stato membro ospitante”.[9] Pertanto, la Direttiva non ha l’effetto di consentire di aggirare la legislazione nazionale relativa all’accesso alla professione di avvocato, come peraltro riconosciuto anche dal Governo italiano nell’udienza dinanzi alla Corte.

N.L.



[1] Direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, G.U. 1998 L 77, p. 36.

[2] Torresi, cit., par. 17.

[3] Ibid., paragrafi 20-22.

[4] Ibid., paragrafi 23 e 24.

[5] Ibid., par. 40.

[6] Ibid., par. 43.

[7] Ibid., par. 48.

[8] Ibid., par. 50.

[9] Ibid., par. 56.