La Corte censura l’uso improprio del potere emendativo del Parlamento nell’ambito del procedimento di conversione dei decreti-legge (1/2014)

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Sentenza n. 32/2014 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale 

Deposito del 25/02/2014 – Pubblicazione in G.U.

Motivi della segnalazione: 

La pronuncia trae origine da una questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di cassazione in riferimento agli articoli 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.

La Suprema Corte contestava, in relazione alle disposizioni impugnate, del requisito dell’omogeneità con le disposizioni originarie del decreto-legge, requisito la cui sussistenza sarebbe richiesta dall’art. 77, comma 2, Cost., che, «secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 2012)» - si riporta nel primo punto del Considerato in diritto della pronuncia in esame del giudice delle leggi – «istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario», di modo che si può affermare che «la legge di conversione […] rappresenta una legge “funzionalizzata e specializzata” che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico». In subordine, la Corte di cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter, per difetto del requisito della necessità ed urgenza, richiesto dal medesimo art. 77, secondo comma, Cost. In altri termini, la Cassazione affermava che, ove la Corte costituzionale avesse ritenuto infondata la questione sollevata nei termini prima richiamati, giudicando le norme impugnate non del tutto eterogenee rispetto ai contenuti del decreto-legge, il giudice delle leggi non avrebbe potuto ritenere legittimo l’inserimento in sede di conversione di previsioni le quali sarebbero risultate in ogni caso prive di collegamento con le ragioni di necessità ed urgenza poste alla base del decreto-legge, senza potersi riconoscere alcuna efficacia sanante all’approvazione della legge di conversione (sentt. Nn. 171/2007 e 128/2008).

La Corte costituzionale accoglie la questione sollevata dalla Corte di cassazione in riferimento all’art. 77, comma 2, Cost. per difetto di omogeneità, dichiarando assorbita la seconda questione sollevata. Passando alle argomentazioni esposte, il giudice delle leggi richiama la propria giurisprudenza (sentenza n. 22/2012 e ordinanza n. 34/2013), la quale ha «chiarito che la legge di conversione deve avere un contenuto omogeneo a quello del decreto-legge […] in ossequio, prima ancora che a regole di buona tecnica normativa, allo stesso art. 77, secondo comma, Cost., il quale presuppone “un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario” (sentenza n. 22 del 2012)». L’iter parlamentare semplificato e particolarmente rapido che la Costituzione prefigura per i disegni di legge di conversione – afferma la Corte – si connette alla e si giustifica in ragione della funzionalizzazione della legge di conversione alla stabilizzazione di un atto avente forza di legge adottato dal Governo e caratterizzato da provvisorietà e validità circoscritta ad un breve e predefinito lasso temporale. Il giudice delle leggi nota molto significativamente che dalla natura di legge a competenza tipica propria della legge di conversione derivano anche i limiti alla emendabilità dei decreti-legge previsti dai Regolamenti delle Camere, le cui previsioni sono puntualmente richiamate. «Diversamente» - rileva la Corte – «l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare. Pertanto, l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua».

Non è dunque giustificato un uso improprio del potere emendativo, finalizzato ad introdurre nel testo che risulta dal procedimento di conversione una disciplina estranea ai contenuti e alla ratio del decreto-legge. Né – aggiunge la Corte – il Parlamento può farsi per così dire scudo del contenuto già originariamente eterogeneo del decreto-legge, capace già di per sé di porre, d’altronde, problemi in ordine al requisito dell’omogeneità. In casi di questo genere, infatti, «ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso». L’eterogeneità delle disposizioni introdotte dalla legge di conversione determina un vizio procedurale a carico delle stesse, evidenziabile soltanto attraverso un esame dei loro contenuti sostanziali, che fonda un giudizio di illegittimità nei confronti delle (sole) norme intruse.

Passando all’esame specifico del caso sottoposto al suo esame, la Corte rileva come, all’interno del decreto-legge le uniche previsioni cui quelle aggiunte in sede di conversione potrebbero in qualche modo connettersi sono quelle in tema di recupero di alcune categorie di tossicodipendenti recidivi. Si tratta però di disposizioni di natura processuale attinenti a modalità di esecuzione della pena e riguardanti perciò la persona del tossicodipendente. Al contrario, le previsioni aggiunte nel corso del procedimento di conversione attengono agli stupefacenti e non alla persona del tossicodipendente ed hanno inoltre carattere sostanziale, dettando una nuova disciplina dei reati in materia di stupefacenti. La Corte ha poi modo di rilevare anche che lo stesso legislatore, integrando il titolo originario del decreto con un riferimento alla materia disciplinata dalle previsioni aggiunte, ha mostrato consapevolezza, in un certo senso, della loro eterogeneità rispetto alle materia già disciplinate dall’atto del Governo. E non manca di richiamare anche il parere espresso dal Comitato per a legislazione della Camera, nel quale si evidenziava l’eterogeneità dei contenuti di un disegno di legge, eterogeneità uscita poi ulteriormente accentuata dal passaggio al Senato.

Oltre alle argomentazioni a supporto della riscontrata inesistenza di un nesso di interrelazione funzionale tra disposizioni impugnate e previsioni originariamente contenute nel decreto-legge, molto rilevante è anche il passaggio in cui la Corte ripercorre il procedimento parlamentare del disegno di legge, ricordando come le modifiche adesso censurate per la loro eterogeneità rispetto ai contenuti del decreto fossero state introdotte mediante un maxi-emendamento su cui era stata posta la questione fiducia, posta poi, tale questione, anche al Senato, così impedendosi anche alla Camera alta di intervenire sui contenuti della legge di conversione ed, anzi, azzerando completamente al Senato la fase dell’esame in sede referente, richiesto dall’art. 72, comma 1, Cost. E impedendosi di fatto anche, data l’imminente fine della legislatura e l’effettiva urgenza di approvare alcune delle previsioni contenute nel decreto, al Presidente della Repubblica di esercitare un controllo effettivo sulla legge attraverso la sua facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost., non essendo peraltro configurabile l’esercizio di un potere di rinvio parziale. Un controllo che avrebbe potuto portare alla luce, attraverso l’esercizio del potere di rinvio, le forti perplessità più volte manifestate dal Capo dello Stato, e di recente anche dal Presidente del Senato, in riferimento all’uso improprio dello strumento della legge di conversione in contrasto con l’art. 77, comma 2, Cost. I riferimenti, puntualmente elencati dalla Corte sono quelli alla lettera inviata il 27 dicembre 2013 ai Presidenti del Senato e della Camera, sulle modalità di svolgimento dell’iter parlamentare di conversione in legge del decreto-legge c.d. “salva Roma” (decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126); alla lettera inviata il 23 febbraio 2012 ai Presidenti del Senato e della Camera; allettera inviata il 22 febbraio 2011 ai Presidenti del Senato e della Camera; al messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002) – e, per quanto concerne il Presidente del Senato, al suo comunicato del Presidente del Senato inviato il 28 dicembre 2013. Considerazioni, quelle sopra richiamate, alla luce delle quali si comprende, secondo il giudice delle leggi, come «il rispetto del requisito dell’omogeneità e della interrelazione funzionale tra disposizioni del decreto-legge e quelle della legge di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. sia di fondamentale importanza per mantenere entro la cornice costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento della funzione legislativa».

Di rilievo non trascurabile risulta anche il punto 5 del Considerato in diritto, in cui la Corte afferma che, in seguito alla caducazione delle disposizioni impugnate, riprenderanno vigore le previsioni di cui all’art. 73 del Dpr n. 309/1990 nella versione precedente rispetto alle modifiche introdotte dalle succitate disposizioni, in quanto invalide, essendo state adottate da Camere operanti in carenza di potere, non capaci di continuare validamente a dispiegare efficacia abrogativa. Infatti, come aggiunge il giudice delle leggi, richiamando propria giurisprudenza pregressa, «l’atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010)», così come accade anche con riguardo alle norme legislative dichiarate illegittime in quanto emanate in difetto di delega. Peraltro – rileva ancora la Corte, richiamando i contenuti della decisione quadro n. 2004/757/GAI del 2004 dell’Unione europea – «se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost».

L’ultima parte della decisione prende in considerazione il profilo degli effetti della pronuncia della Corte, da cui conseguirà – si afferma – un alleggerimento del trattamento sanzionatorio penale in relazione agli illeciti concernenti le c.d. “droghe leggere” ed un aggravamento, invece, in relazione agli illeciti concernenti le “droghe pesanti”. In ordine a tale aspetto, viene richiamata la giurisprudenza costituzionale secondo cui «gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva di legge vigente in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.) di “configurare nuove norme penali” (sentenza n. 394 del 2006), siano esse incriminatrici o sanzionatorie, eventualità questa che non rileva nel presente giudizio, dal momento che la decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all’applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore».  Al giudice comune spetterà poi applicare con riguardo ai singoli imputati le norme applicabili in seguito alla decisione della Corte, operando nel rispetto dei principi sulla successione delle leggi penali nel tempo, i quali vogliono che si applichi la norma più favorevole al reo. E sempre al giudice comune spetterà – aggiunge la Corte – «individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della presente decisione».