Sentenza 2/2016: obblighi internazionali "di risultato" e discrezionalità normativa (1/2016)

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Sentenza n.  2/2016 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 14/01/2016; Pubblicazione in G. U. 20/01/2016  n. 3

La Corte è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge della Provincia autonoma di Trento 27 luglio 2007, n. 13 (Politiche sociali nella provincia di Trento), sollevata dal Tribunale ordinario di Trento, sezione distaccata di Tione di Trento, in riferimento agli artt. 38, primo comma, della Costituzione e 4 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Testo unico delle leggi costituzionali concernente lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), in relazione alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13 dicembre 2006, nella parte in cui prevede che i soggetti che fruiscono di prestazioni assistenziali consistenti nella erogazione di un servizio siano chiamati a compartecipare alla spesa in relazione alla condizione economico-patrimoniale del nucleo familiare di appartenenza, anziché in riferimento al reddito esclusivo dello stesso interessato.

La Corte, quanto al rispetto degli obblighi internazionali, rileva come il principio del necessario rispetto, da parte dei legislatori interni, dei vincoli derivanti dall’adesione ad una Convenzione internazionale – nella specie, firmata dall’Italia il 30 marzo 2007 ma ratificata e resa esecutiva con la legge 3 marzo 2009, n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità), in epoca dunque successiva alla promulgazione del provvedimento legislativo che contiene la disciplina censurata – si configura alla stregua, per così dire, di “obblighi di risultato”: gli strumenti pattizi si limitano, infatti, ordinariamente, a tracciare determinati obiettivi riservando agli Stati aderenti il compito di individuare in concreto – in relazione alle specificità dei singoli ordinamenti e al correlativo e indiscusso margine di discrezionalità normativa – i mezzi ed i modi necessari a darvi attuazione. Ciò comporta, evidentemente, che – anche sul piano della individuazione delle relative risorse finanziarie – l’obbligo internazionale e convenzionale non possa, di regola, implicare e tantomeno esaurire le scelte sul quomodo: ciò che, invece, il giudice a quo erroneamente presuppone, laddove reputa che la Convenzione di New York avrebbe, in forma, per così dire, “autoapplicativa”, inteso specificamente precludere agli Stati di tenere conto dei livelli di reddito dei familiari della persona disabile, ancorché civilisticamente obbligati, al fine di stabilire il quantum delle prestazioni assistenziali da erogare. Ove, del resto, così fosse stato, la Convenzione avrebbe, da un lato, direttamente inciso sull’ordinamento civile interno, frustrando, in parte qua, la disciplina dettata dagli artt. 433 e seguenti del codice civile; dall’altro, si sarebbe – indebitamente – sostituita al legislatore nazionale, nel determinare una normativa di dettaglio, quale certamente è quella destinata a stabilire i criteri di commisurazione della base reddituale per fruire di una contribuzione pubblica.

Nessuna delle accennate evenienze può, peraltro, dirsi riscontrabile nella Convenzione di cui si tratta. Essa, infatti, si limita, secondo la propria natura, a consacrare una serie di importanti princìpi, tutti coerentemente tesi a realizzare le finalità tracciate dalle Parti contraenti e paradigmaticamente sintetizzate, all’art. 1, nell’enunciazione dello scopo di «promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità». Il nucleo della Convenzione ruota, così, essenzialmente, intorno all’avvertita esigenza di conformare i vari ordinamenti interni in chiave non già meramente protettiva delle persone con disabilità, ma piuttosto in una prospettiva dinamica e promozionale, volta a garantire a ciascuna di esse la più efficace non discriminazione, non solo sul piano formale ma su quello delle effettive condizioni di esistenza: attraverso, cioè, anzitutto, il pieno e integrale riconoscimento di diritti e di tutele che, in quanto fondamentali, non possono non essere adeguate alla dignità di qualsiasi persona in quanto tale, ma anche attraverso la predisposizione di misure idonee a compensare, per quanto possibile, e nelle forme più compatibili, la condizione di chi si trovi così particolarmente svantaggiato. Nulla, dunque, che possa vincolare gli Stati aderenti ad adottare scelte normative dirette ad allontanare o, perfino, a sradicare la persona disabile dal sistema delle relazioni familiari o a disconoscerne il diritto all’appartenenza al medesimo; e neppure, di riflesso, nulla che possa indurre a sollecitare, sul piano normativo, l’esclusione dei familiari, o il loro disimpegno, da qualsiasi programma di assistenza che, sulla base delle diverse condizioni economiche, consenta di articolare differenziati livelli di compartecipazione ai programmi medesimi. Al contrario, si può semmai cogliere, fin dal preambolo della Convenzione, una indicazione di segno opposto, essendo, alla lettera (x), formulato l’esplicito richiamo alla famiglia come « nucleo naturale e fondamentale della società» insieme all’espresso convincimento che tanto le persone con disabilità quanto i «membri delle loro famiglie dovrebbero ricevere la protezione ed assistenza necessarie a permettere alle famiglie di contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità». A proposito, poi, della violazione dell’art. 38, primo comma, Cost., l’ordinanza di rimessione, oltre che apparire fortemente carente in punto di motivazione, finisce per rivelarsi incoerente rispetto all’oggetto stesso della censura che propone, sostenuta esclusivamente dall’assunto, del tutto apodittico, secondo cui, nel parametro evocato, la persona inabile «assume rilievo di per se stessa, senza alcun riferimento al suo nucleo familiare». È, infatti, del tutto evidente che la garanzia costituzionale del «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» presuppone che la persona disabile sia «sprovvista dei mezzi necessari per vivere» e che l’accertamento di questa condizione di effettiva indigenza possa richiedere anche una valutazione delle condizioni economiche dei soggetti tenuti all’obbligo alimentare. Ove così non fosse, verrebbero, d’altra parte, a poter irragionevolmente godere dello stesso trattamento di assistenza e di mantenimento, con conseguente identico carico finanziario e sociale, tanto le persone con disabilità individualmente e “familiarmente” non abbienti, quanto quelle prive di reddito ma concretamente assistite o anche potenzialmente assistibili da familiari con consistenti possibilità economico-patrimoniali.

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