La Corte separa il terzo comma dal resto dell’art. 8 Cost. e dichiara insindacabile il diniego governativo di avvio di trattative finalizzate alla stipula di un’intesa (2/2016)

Stampa

Sentenza n. 52/2016 – Giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato

Deposito del 10/03/2016 – Pubblicazione in G.U. 16/03/2016 n. 11 

Motivi della segnalazione

La decisione segnalata presenta numerosi profili di interesse, affrontando e risolvendo, in una maniera ritenuta da molti discutibile in dottrina, una questione di estrema rilevanza concernente, da un particolare punto di vista, l’interpretazione dell’art. 8 Cost.

La decisione della Corte, pronunciata nell’ambito di un giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro le Sezioni unite della Corte di cassazione, si colloca al termine di una lunga vicenda giudiziaria, dipanatasi dinanzi ad organi di giustizia amministrativa e approdata anche davanti alla Corte di cassazione, in seguito a un ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, per “motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111, ult. comma, Cost.). All’origine della vicenda si pone un ricorso al TAR Lazio da parte dell’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) contro una delibera del Consiglio dei  Ministri con cui si era deciso di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa con la stessa UAAR, sul presupposto che la professione di ateismo non potesse essere assimilata ad una confessione religiosa.

Il TAR Lazio aveva dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, qualificando, ai sensi dell’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 104/2010,  la delibera del Consiglio dei Ministri “atto politico” non impugnabile. In secondo grado, il Consiglio di Stato aveva affermato invece l’esistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che l’atto di avvio o mancato avvio delle trattative non possa qualificarsi come atto politico, bensì come atto di valutazione tecnica con cui l’Amministrazione sia tenuta a motivare la ponderazione degli interessi in gioco: quello dell’associazione ad addivenire all’intesa, con l’interesse pubblico alla selezione dei soggetti con cui avviare le trattative. Aveva, inoltre, rilevato il Consiglio di Stato che la valutazione governativa della riconduzione dell’associazione alla categoria delle “confessioni religiose” dovesse essere sindacabile e che, in ogni caso, quanto meno l’avvio delle trattative dovesse reputarsi come obbligatorio, una volta pervenuti ad una conclusione favorevole alla qualificazione come confessione religiosa dell’associazione richiedente, salve la facoltà del Governo di non stipulare l’intesa all’esito delle trattative e quella del Parlamento di non tradurre in legge l’intesa medesima.

Il Presidente del Consiglio aveva, a quel punto, proposto ricorso davanti alla Corte di cassazione contro la decisione del Consiglio di Stato, sostenendo che il rifiuto di avviare trattative per la conclusione di un’intesa ex art. 8, comma  3, Cost. dovesse considerarsi quale atto politico insindacabile. Il ricorso era stato rigettato dalla Corte di cassazione, sul presupposto che «l’accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa costituisce esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell’amministrazione, come tale sindacabile in sede giurisdizionale» (punto 1 del Considerato in diritto). La Suprema Corte aveva argomentato la sua decisione, ponendo in relazione il primo comma dell’art. 8 Cost., che garantisce l’eguaglianza delle confessioni religiose davanti alla legge (identificato come un fine), con il successivo terzo comma, che assegna all’intesa la regolazione dei rapporti tra Stato e confessioni diverse da quella cattolica (individuato come uno strumento per il perseguimento del fine sopra citato). Sulla base di ciò, secondo la Cassazione, la decisione circa l’attitudine di una confessione religiosa a stipulare un’intesa con lo Stato non potrebbe essere rimessa all’assoluta discrezionalità del potere esecutivo.

A fronte di questa decisione della Cassazione, sebbene il TAR avesse respinto il ricorso dell’UAAR, ritenendo corretto il diniego governativo di avvio di trattative, sul presupposto della mancata riconducibilità della stessa alla categoria delle confessioni religiose, il Presidente del Consiglio aveva, cionondimeno, sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della sentenza della Corte di cassazione, sostenendo che «essa avrebbe menomato la funzione d’indirizzo politico, che la Costituzione assegna al Governo in materia religiosa (artt. 7, 8, terzo comma, 92 e 95 Cost.), funzione “assolutamente libera nel fine” e quindi “insuscettibile di controllo da parte dei giudici comuni”». Sarebbe, infatti,  infondata, secondo il ricorrente la tesi della doverosità dell’avvio delle trattative per la conclusione dell’intesa ex art. 8, terzo comma, Cost, previsione che «costituirebbe norma sulle fonti, dal momento che le intese integrerebbero il presupposto per l’avvio del procedimento legislativo finalizzato all’approvazione della legge che regola i rapporti tra Stato e confessione religiosa, e pertanto parteciperebbero della stessa natura, di atto politico libero, delle successive fasi dell’iter legis» (corsivo mio), coinvolgendo «la responsabilità politica del Governo, ma non la responsabilità dell’amministrazione».

Quello appena riferito costituisce il nucleo dell’argomentazione della parte ricorrente, secondo cui, «poiché l’omesso esercizio della facoltà di iniziativa legislativa in materia religiosa rientra tra le determinazioni politiche sottratte al controllo dei giudici comuni, così come il Governo è libero di non dare seguito alla stipulazione dell’intesa, omettendo di esercitare l’iniziativa per l’approvazione della legge prevista dall’art. 8, terzo comma, Cost., a maggior ragione dovrebbe essere libero, nell’esercizio delle sue valutazioni politiche, di non avviare alcuna trattativa». La conclusione di tale ragionamento è data, nell’ottica del ricorrente, dalla esatta qualificazione del preteso “diritto” all’apertura delle trattative come un «interesse di mero fatto non qualificato, privo di protezione giuridica».

La Corte costituzionale, nel decidere la questione nel  senso  dell’affermazione della non spettanza alla Corte di cassazione della possibilità di affermare la sindacabilità del diniego di avvio di trattative finalizzate all’intesa, con conseguente annullamento della decisione della Suprema Corte, ha sostanzialmente fatto propri gli argomenti sostenute dal Governo, seguendo un iter argomentativo che è opportuno ripercorrere sinteticamente.

Trascurando di prendere qui in considerazione i pur rilevanti profili attinenti ai presupposti soggettivi e oggettivi dell’ammissibilità del conflitto, deve rilevarsi che le motivazioni addotte dalla Corte a supporto della sua decisione prendono le mosse da considerazioni attinenti alla natura e al significato da riconoscere all’intesa, nel nostro ordinamento costituzionale, come strumento di regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Tale significato si esaurisce integralmente, secondo la Corte, nell’estensione alla regolazione dei rapporti con le confessioni diverse dalla cattolica del “metodo della bilateralità”, funzionale all’elaborazione di discipline capaci di rispondere alle esigenze specifiche di ciascuna confessione religiosa e ad impedire l’introduzione unilaterale, da parte dello Stato, di regolazioni speciali e derogatorie, potenzialmente discriminatorie, dei rapporti tra lo Stato e le singole confessioni religiose.

La Corte afferma, richiamando la sua giurisprudenza pregressa sul punto, che la stipula delle intese non costituisce presupposto per l’esercizio della libertà di organizzazione e di azione delle confessioni religiose o per l’applicazione delle norme che, nei diversi ambiti dell’ordinamento, concernono le confessioni stesse. A queste ultime spetta, infatti, la garanzia dell’eguale libertà di organizzazione e di azione desumibile dai primi due commi dell’art. 8 Cost. e dall’art. 19 Cost., il quale tutela la libertà religiosa esercitata anche in forma associata. In mancanza di una legislazione generale e complessiva sul fenomeno religioso applicabile alle sole confessioni che abbiano stipulato un’intesa con lo Stato, nell’ordinamento italiano, contraddistinto dal principio di laicità (artt. 3, 8, commi 1 e 2, 19 e 20 Cost.), «la Costituzione impedisce che il legislatore, in vista dell’applicabilità di una determinata normativa attinente alla libertà di culto, discrimini tra associazioni religiose, a seconda che abbiano o meno stipulato un’intesa». Soltanto l’eventuale adozione da parte del legislatore di una complessiva disciplina del procedimento di stipulazione delle intese, che introducesse parametri oggettivi, capaci di vincolare il Governo nella scelta dell’interlocutore consentirebbe di individuare un requisito di legittimità e validità delle scelte governative, sindacabile in sede giurisdizionale.

 

Tale parte del percorso argomentativo della Corte, che contiene già alcune premesse dell’approdo raggiunto, è completato da ulteriori passaggi argomentativi, che portano la Corte a negare, per ragioni istituzionali e costituzionali, la configurabilità, nel nostro ordinamento, di una pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative finalizzate alla eventuale stipula di un’intesa. Il giudice delle leggi, in particolare, rileva, in primo luogo, che a tale pretesa osta il riferimento al metodo della bilateralità, che, tanto più in assenza di una specifica disciplina del procedimento, «pretende una concorde volontà delle parti, non solo nel condurre e nel concludere una trattativa, ma anche, prima ancora, nell’iniziarla». In secondo luogo, la Corte rileva che «un’autonoma pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative non è configurabile proprio alla luce della non configurabilità di una pretesa soggettiva alla conclusione positiva di esse». In altri termini, si afferma, contrastandosi sul punto una posizione sostenuta in giudizio dall’interveniente UAAR, che la mancata azionabilità di un “diritto all’intesa”, come risultato delle trattative, si porrebbe in contraddizione con l’asserita sindacabilità del diniego di avvio delle trattative, giacché – afferma la Corte - «non si comprende a che scopo imporre l’illusoria apertura di trattative di cui non si assume garantita giudizialmente la conclusione». Anche la decisione sull’avvio o meno dell’intesa sarebbe dunque, nell’ottica sostenuta dalla Corte, assorbita dalla logica della piena discrezionalità politica.

E tale conclusione sarebbe avvalorata da ulteriori ragioni «del massimo rilievo istituzionale e costituzionale». Si tratterebbe, in particolare, della «necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative», motivi e vicende rispetto a cui, «alla luce di un ragionevole bilanciamento dei diversi interessi protetti dagli artt. 8 e 95 Cost.», la piena discrezionalità governativa potrebbe essere oggetto, nell’ambito di una forma di governo parlamentare, dell’esercizio della funzione di controllo politico di cui sono titolari le Camere, ma non di una qualsiasi forma di sindacato giurisdizionale.

La Corte, concludendo il suo iter argomentativo, che porta, come si è detto, ad un esito favorevole al Governo (parte ricorrente), afferma che, in ogni caso, l’atto di diniego dell’avvio delle trattative non può produrre effetti, eventualmente pregiudizievoli per l’interlocutore, al di fuori del procedimento diretto alla stipula dell’intesa. Ciò significa che il suddetto atto, ove adottato sul presupposto che l’interlocutore non sia una confessione religiosa, non determina conseguenze ulteriori rispetto al mancato avvio del negoziato, quale il mancato riconoscimento di una serie di situazioni giuridiche che alle confessioni religiose, spettano, a prescindere dalla stipula o meno di un’intesa. In altre parole – conclude la Corte - «un conto è l’individuazione, in astratto, dei caratteri che fanno di un gruppo sociale con finalità religiose una confessione, rendendola, come tale, destinataria di tutte le norme predisposte dal diritto comune per questo genere di associazioni. Un altro conto è la valutazione del Governo circa l’avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost., nel cui ambito ricade anche l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore. Quest’ultima è scelta nella quale hanno peso decisivo delicati apprezzamenti di opportunità, che gli artt. 8, terzo comma, e 95 Cost. attribuiscono alla responsabilità del Governo».

Tags: , , , ,