La delega in materia di sospensione e decadenza dalle cariche politiche nelle regioni e negli enti locali (1/2017)

Stampa

Sentenza n. 276/2016 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 16 dicembre 2016 – Pubblicazione in G.U. del 21/12/2016, n. 51

Motivo della segnalazione
Nella sentenza n. 276 del 2016 la Corte costituzionale ha esaminato, fra le altre, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 8, comma 1, e 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo, c.d. legge Severino), sollevata dalla Corte d’appello di Bari, dal Tribunale ordinario di Napoli e da quello di Messina con tre distinte ordinanze, per violazione dell’articolo 76 della Costituzione.
Ad avviso dei giudici rimettenti, l’articolo 8, comma 1, e l’articolo 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 235 del 2012 si porrebbero in contrasto con l’evocato parametro costituzionale per eccesso di delega, in relazione ai principi e ai criteri direttivi di cui all’articolo 1, comma 64, lettera m), della legge n. 190 del 2012, che delega il Governo a «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica». L’asserito contrasto viene censurato sotto due distinti profili.
In primo luogo, le tre ordinanze di rimessione censurano le disposizioni impugnate nella parte in cui prevedono che la sospensione dalla carica di amministratore locale operi di diritto in caso di condanna non definitiva. In aggiunta a tale profilo, il Tribunale di Napoli lamenta il contrasto, con la norma di delega, dell’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo n. 235 del 2012, laddove non limita la sospensione dalla carica alle condanne intervenute successivamente alla presentazione della candidatura.
La Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega, con riferimento ad entrambi i profili sopra richiamati.
Il percorso argomentativo compiuto dai giudici costituzionali, «in mancanza di una chiara formulazione letterale della norma delegante e di fronte alla possibilità di attribuirle due diversi sensi», si è incentrato sull’interpretazione della legge di delega, mediante il ricorso ai «consueti criteri ermeneutici, che fanno riferimento al testo della legge in cui [la norma delegante]si inserisce e alla sua ratio». Secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, la definizione del contenuto della delega deve avvenire tenendo conto del «sistema normativo nel quale la stessa si inserisce, poiché soltanto l’identificazione della sua ratio consente di verificare, in sede di controllo, se la norma delegata sia con essa coerente (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 163 del 2000)».
Nella pronuncia in esame, dopo aver ripercorso l’evoluzione normativa che ha interessato la normativa in materia di incandidabilità, decadenza e sospensione dalle cariche politiche, la Corte osserva che il contesto normativo di riferimento in cui si inscrive la legge delega ha sempre previsto la sospensione dalla carica politica per provvedimenti precedenti la condanna definitiva e la decadenza dalla carica al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Posto dunque che, sotto il profilo letterale, «la formulazione del comma 64, lettera m), non è tale da escludere un’interpretazione in continuità con il regime precedente» e osservato anche che sulla base di considerazioni di carattere logico-sistematico è da respingersi la soluzione interpretativa offerta dai giudici rimettenti, la Corte conclude sostenendo che «se l’obiettivo è quello di ricondurre a sistema una disciplina stratificata negli anni […] la conseguenza [è] che i principi sono quelli già posti dal legislatore (sentenza n. 341 del 2007 e n. 53 del 2005), il che esclude l’illegittimità della scelta attuata dal Governo di conservazione dell’istituto nei suoi caratteri essenziali e del suo semplice adattamento alle innovazioni introdotte su altri versanti dalla nuova disciplina».
Sotto altro profilo, la sentenza n. 276 del 2016 si segnala anche per l’ulteriore questione di legittimità costituzionale sollevata, nei confronti delle medesime disposizioni oggetto di impugnativa con le ordinanze sopra menzionate, per violazione dell’articolo 117 della Costituzione, con riferimento all’articolo 7 della CEDU. I giudici rimettenti dubitano, infatti, della compatibilità delle norme censurate con il principio di irretroattività delle sanzioni di cui al citato articolo 7 della CEDU.
Nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale in relazione a tale ulteriore profilo, la Corte ha ribadito che spetta ad essa «valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 317 del 2009). In altri termini, spetta a essa di apprezzare la giurisprudenza europea formatasi sulla norma conferente, «in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)» (sentenza n. 236 del 2011; da ultimo, sentenza n. 193 del 2016)».