La Corte di giustizia interpreta gli articoli 19 TUE e 47 della Carta a presidio dell’indipendenza dei giudici polacchi, nell’ambito della procedura di infrazione e del rinvio pregiudiziale (3/2019)

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Corte di giustizia (Grande Sezione), sentenza 5 novembre 2019, causa C-192/18, Commissione europea c. Polonia, ECLI:EU:C:2019:924
Corte di giustizia (Grande sezione), sentenza 19 novembre 2019, cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18, A.K., ECLI:EU:C:2019:982
Le sentenze oggetto di questa segnalazione, entrambe rese dalla Corte di giustizia nella composizione della Grande sezione, si inseriscono nell’ormai nutrito filone giurisprudenziale relativo alla tutela della rule of law negli Stati membri. Esse permettono, da un lato, di chiarire i fondamenti giuridici della competenza della Corte a pronunciarsi in casi relativi all’indipendenza dei giudici nazionali; dall’altro lato, di approfondire le modalità attraverso le quali tale intervento può avvenire.
In primo luogo, nella sentenza resa nell’ambito di una procedura di infrazione aperta dalla Commissione nei confronti della Polonia (causa C-192/18), la Corte ha affermato, in particolare, la propria competenza a pronunciarsi sulla base dell’art. 19, par. 1, comma secondo, TUE in relazione alle modifiche intervenute con la legge polacca del 12 luglio 2017, riguardante l’abbassamento dell’età pensionabile per i giudici dei tribunali ordinari, che ha altresì garantito al Ministro della Giustizia il potere di autorizzare la proroga dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali dei suddetti giudici oltre il nuovo limite di età. In questo caso, la Corte ha rilevato la violazione degli obblighi derivanti dall’art. 19, par. 1, comma secondo, TUE da parte della Polonia, in quanto le condizioni e le modalità cui è soggetta una proroga come quella prevista dalla legge polacca non sono tali da garantire il principio dell’indipendenza dei giudici.
In secondo luogo, nel rinvio pregiudiziale, la Corte ha fondato invece la propria competenza a pronunciarsi sulla direttiva 2000/78 e, in congiunzione con quest’ultima, sull’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In questo caso, la Corte ha fornito al giudice del rinvio una serie di indicazioni interpretative utili ad accertare se le condizioni e modalità procedurali attraverso le quali deve avvenire la nomina dei componenti della Sezione disciplinare della Corte suprema polacca siano tali da pregiudicare il principio dell’indipendenza dei giudici, chiarendo altresì che, ove questa circostanza fosse verificata, il giudice nazionale dovrebbe procedere alla loro disapplicazione. In questo caso, la Corte non ha ritenuto necessario procedere all’interpretazione dell’art. 19, par. 1, comma secondo, TUE che non “potrebbe che corroborare” la medesima conclusione.

A fronte della difficoltà di rendere operative le procedure di cui all’art. 7, paragrafi 1 e 2 TUE, a causa della loro natura essenzialmente politica e alle alte soglie di voto richieste, negli ultimi anni la Corte di giustizia ha iniziato a esplorare altre vie per conoscere delle violazioni, da parte degli Stati membri, dei valori di cui all’art. 2 TUE – in particolare, dello stato di diritto –, segnatamente attraverso gli strumenti della procedura di infrazione e del rinvio pregiudiziale. In questo modo, la Corte ha anche ovviato ai limiti imposti dall’art. 269 TFUE1 alla sua competenza riguardo alle procedure ex art. 7 TUE, dotando invece l’Unione di strumenti efficaci per far fronte al deterioramento dello stato di diritto in alcuni Stati membri. Inoltre, le due recenti sentenze di cui alla presente nota illustrano come la Corte di giustizia abbia riaffermato la sua competenza a pronunciarsi rispetto alle riforme del sistema giudiziario intraprese da uno Stato membro (nel caso di specie, la Polonia). Tuttavia, mentre nella procedura di infrazione la Corte ha individuato il fondamento della propria competenza nell’art. 19, par. 1, secondo comma TUE, che trova applicazione anche indipendentemente dalla situazione in cui gli Stati membri attuano il diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta, nel rinvio pregiudiziale l’art. 19, par. 1, secondo comma TUE è rimasto sullo sfondo rispetto all’art. 47 della Carta; al contempo, in tale sede la Corte ha comunque osservato che “un esame separato degli articoli 2 e 19 paragrafo 1, comma secondo TUE [non] potrebbe che corroborare la conclusione già esposta” (A.K. par. 169) sulla base dell’art. 47 della Carta.
Nella sentenza del 5 novembre 2019, la Corte era stata adita a seguito dell’avvio, da parte della Commissione, di una procedura di infrazione nei confronti della Polonia sulla base di due motivi: in primo luogo, con legge del 12 luglio 2017, la Polonia aveva introdotto un’età per il pensionamento dei giudici dei tribunali ordinari, dei pubblici ministeri e della Corte suprema di 60 anni per le donne e di 65 anni per gli uomini, mentre essa era in precedenza di 67 anni per entrambi i sessi. Tale modifica, secondo la Commissione, si poneva in contrasto con l’art. 157 TFUE, sul principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, nonché con alcuni articoli della direttiva 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. In secondo luogo, la stessa legge del 2017 aveva abbassato l’età per il pensionamento applicabile ai magistrati giudicanti dei tribunali ordinari polacchi, contestualmente conferendo al Ministro della Giustizia il potere di decidere in merito al prolungamento del periodo di servizio attivo di singoli giudici di tribunali ordinari (10 anni per gli uomini e 5 anni per le donne). In quest’ultimo caso la Commissione aveva contestato alla Polonia di essere venuta meno ai suoi obblighi derivanti dall’art. 19, par. 1, secondo comma TUE, in combinato disposto con l’art. 47 della Carta, che sancisce espressamente il diritto a un giudice indipendente.
Innanzitutto, sebbene a seguito del parere motivato emesso dalla Commissione la Polonia avesse modificato le disposizioni della legge del 12 luglio 2017, la Corte ha comunque ritenuto di doversi pronunciare sul ricorso, in quanto “l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata in base alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato, e che la Corte non può tener conto dei mutamenti successivi” (par. 45).
Riguardo alla prima questione, relativa alle differenziazioni tra uomini e donne attinenti all’età per il pensionamento, la Corte ha rilevato che essa rientra nell’ambito di applicazione materiale dell’art. 157 TFUE, nonché della direttiva 2006/54 (par. 69 e 73) e che la censura della Commissione relativa alla violazione di tali norme dovesse essere accolta, poiché la misura nazionale aveva introdotto condizioni direttamente discriminatorie fondate sul sesso (paragrafi 78 e 82).
Riguardo alla seconda censura, la Corte ha inizialmente affrontato la questione sollevata dalla Polonia, relativa all’applicabilità e alla portata dell’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE in un caso come quello di specie. Infatti, secondo lo Stato membro interessato, le norme nazionali in questione “riguardano l’organizzazione e il buon funzionamento della giustizia nazionale, [e] non ricadono nel diritto dell’Unione o nella competenza di quest’ultima, bensì nella competenza esclusiva e nell’autonomia procedurale degli Stati membri” (par. 93). Facendo riferimento alla sua giurisprudenza precedente, la Corte ha ricordato in via preliminare che l’art. 19 TUE, “che concretizza il valore dello Stato di diritto affermato dall’art. 2 TUE, affida ai giudici nazionali e alla Corte il compito di garantire la piena applicazione del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri, nonché la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza di detto diritto” (par. 98). Dopo aver richiamato il contenuto della disposizione e la natura del principio della tutela giurisdizionale effettiva, a cui l’art. 19 par. 1, secondo comma TUE fa riferimento, il giudice dell’Unione si è quindi soffermato sull’ambito di applicazione ratione materiae dell’articolo. Esso ha ribadito quanto affermato nella sentenza Associação Sindical dos Juízes Portugueses, affermando che “tale disposizione riguarda i ‘settori disciplinati dal diritto dell’Unione’ indipendentemente dalla situazione in cui gli Stati membri attuano tale diritto, ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta” (par. 101). Pertanto, nell’esercizio della loro competenza relativa all’organizzazione della giustizia, “gli Stati membri sono tenuti a rispettare gli obblighi per essi derivanti dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’art. 19 par. 1, secondo comma, TUE” (par. 102). Questo implica che gli Stati membri devono garantire che gli organi che fanno parte, in quanto “organi giurisdizionali” del proprio sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, e che, pertanto, possono trovarsi a dover statuire sull’applicazione o interpretazione di tale diritto, soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva.
Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che “è pacifico che i tribunali polacchi possono, in tale qualità, essere chiamati a pronunciarsi su questioni legate all’applicazione o interpretazione del diritto dell’Unione” (par. 104) e che pertanto, in quanto organi giurisdizionali del sistema di rimedi nazionale rientrano nell’ambito di applicazione materiale dell’art. 19, par. 1, comma secondo TUE. Tuttavia, “per garantire che tali tribunali ordinari siano in grado di offrire una simile tutela, è di primaria importanza preservare l’indipendenza di detti organi, come affermato dall’art. 47, secondo comma, della Carta, che menziona l’accesso a un giudice ‘indipendente’ tra i requisiti connessi al diritto fondamentale ad un ricorso effettivo” (par. 105). Infatti, secondo la Corte, il requisito di indipendenza degli organi giurisdizionali è un aspetto essenziale di tale diritto e riveste importanza cardinale “quale garanzia della tutela dell’insieme di diritti derivanti al singolo dal diritto dell’Unione e della salvaguardia dei valori comuni agli Stati membri enunciati dall’art. 2 TUE, segnatamente del valore dello Stato di diritto” (par. 106). Pertanto, la Corte ha ritenuto che le norme nazionali in questione potessero essere vagliate alla luce dell’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE, al fine di verificarne un’eventuale violazione.
Nel merito della censura, la Corte ha inizialmente ricordato che il requisito dell’indipendenza si compone di un aspetto di carattere esterno e uno di natura interna. Il primo di essi esige che “l’organo interessato eserciti le sue funzioni in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo gerarchico o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere istruzioni da alcuna fonte, con la conseguenza di essere quindi tutelato dagli interventi o dalle pressioni esterni idonei a compromettere l’indipendenza di giudizio dei suoi membri e a influenzare le loro decisioni” (ibid., par. 109). Il secondo aspetto si ricollega invece alla nozione di imparzialità e “riguarda l’equidistanza dalle parti della controversia e dai loro rispettivi interessi nei confronti dell’oggetto di quest’ultima [, imponendo] il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica” (par. 110).
L’indipendenza e imparzialità richiedono l’esistenza di regole che le tutelino, tra cui il principio di inamovibilità, il quale esige, in particolare, “che i giudici possano continuare a esercitare le proprie funzioni finché non abbiano raggiunto l’età obbligatoria per il pensionamento o fino alla scadenza del loro mandato, qualora quest’ultimo abbia una durata determinata” (par. 113). Inoltre, il principio di indipendenza impone che “le regole relative al regime disciplinare e, pertanto, all’eventuale revoca di coloro che svolgono una funzione giurisdizionale offrano le garanzie necessarie per evitare qualsiasi rischio di utilizzo di un regime siffatto come sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie” (par. 114). Il principio di inamovibilità non è comunque assoluto e può essere limitato solo a condizione che ciò “sia giustificato da motivi legittimi e imperativi, nel rispetto del principio di proporzionalità”, come nel caso di incapacità o inadempimento grave dei giudici, e purché “[non] suscit[i] legittimi dubbi nei singoli quanto all’impermeabilità degli organi giurisdizionali interessati rispetto a elementi esterni e alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti” (par. 115).
Nel caso di specie, la misura contestata dalla Commissione non riguardava solo l’abbassamento dell’età pensionabile per i giudici dei tribunali ordinari polacchi, ma tale aspetto doveva essere considerato insieme alla possibilità, riservata al Ministro della Giustizia, di autorizzare la proroga dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali attive dei giudici di detti tribunali al di là dell’età pensionabile in tal modo abbassata. Secondo la Commissione, infatti, questo meccanismo avrebbe pregiudicato l’indipendenza dei giudici, “in quanto non consentirebbe di garantire che essi esercitino le loro funzioni in piena autonomia e al riparo da interventi o pressioni esterne [, pregiudicando] l’inamovibilità degli interessati” (par. 116). Qualora, infatti, gli Stati membri dovessero optare per un tale meccanismo, essi sarebbero tenuti ad assicurare che le condizioni e le modalità cui è soggetta una proroga come quella prevista dalla legge polacca non siano tali da pregiudicare il principio dell’indipendenza dei giudici.
Nel valutare tali modalità e procedure, la Corte ha inizialmente rilevato che “la circostanza che un organo quale il Ministro della Giustizia sia investito del potere di decidere o meno di concedere un’eventuale proroga dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali oltre l’età per il pensionamento ordinaria non è di per sé sufficiente a far ravvisare l’esistenza di una violazione del principio di indipendenza dei giudici” (par. 117). Tuttavia, i requisiti sostanziali e le modalità procedurali che presiedono all’adozione di simili decisioni devono essere tali da non poter suscitare dubbi legittimi in merito “all’impermeabilità dei giudici interessati rispetto a elementi esterni e alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti” (ibid.). Nel caso di specie, il giudice dell’Unione ha invece ritenuto che le disposizioni nazionali che subordinavano l’eventuale proroga dell’esercizio delle funzioni di giudice dei tribunali ordinari polacchi al di là della nuova età per il pensionamento non rispondessero a tali esigenze per una serie di ragioni. Sebbene il Ministro della Giustizia possa decidere sulla proroga in base a criteri previsti dalla legge, essi appaiono tuttavia “troppo vaghi e non verificabili” (par. 112). Inoltre, la decisione del Ministro può non essere motivata e sindacata in giudizio (ibid.). Infine, “la durata del periodo durante il quale i giudici possono quindi dover continuare a restare in attesa della decisione del Ministro della Giustizia, una volta chiesta la proroga dell’esercizio delle loro funzioni, dipende anch’essa, in ultima analisi, dalla discrezionalità di quest’ultimo” (par. 123). Alla luce di tali rilievi, la Corte ha quindi ritenuto che il potere di cui è investito il Ministro della Giustizia fosse idoneo a suscitare legittimi dubbi nei singoli.
La Corte ha poi osservato che anche il principio di inamovibilità fosse violato dalla disposizione nazionale. Infatti, in primo luogo, il nuovo sistema previsto dalla legge polacca era tale da suscitare nei singoli dubbi legittimi quanto al fatto che esso fosse diretto “a consentire al Ministro della Giustizia di escludere a propria discrezione taluni gruppi di giudici in servizio presso i tribunali ordinari polacchi una volta che avessero raggiunto l’età ordinaria per il pensionamento come fissata ex novo, mantenendo al contempo in servizio un’altra parte degli stessi” (par. 127). In secondo luogo, “la durata dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali dei magistrati giudicanti dei tribunali ordinari polacchi che, sotto tale aspetto, dipende dal potere puramente discrezionale del Ministro della Giustizia, è considerevole, poiché si tratta degli ultimi dieci anni di esercizio di dette funzioni per una carriera di magistrato di sesso femminile e degli ultimi cinque anni di esercizio delle medesime per quanto riguarda una carriera di magistrato di sesso maschile” (par. 128). In terzo luogo, il giudice poteva trovarsi in una situazione di incertezza nel periodo oltre l’età del pensionamento, nell’attesa del parere del Ministero della Giustizia, il quale non era soggetto a termini.
Infine, in relazione all’argomento sollevato dalla Polonia relativo a una presunta somiglianza tra le disposizioni nazionali e la procedura applicabile all’eventuale rinnovo del mandato dei giudici della Corte di giustizia dell’Unione, la Corte ha rilevato che, “a differenza di magistrati nazionali che sono nominati fino al raggiungimento dell’età per il pensionamento stabilita dalla legge, la nomina di giudici alla Corte avviene, come previsto dall’art. 253 TFUE, per una durata determinata di sei anni” (par. 133). Inoltre la nomina dei giudici dell’Unione avviene nel rispetto di una serie di garanzie e regole rigorose, che non sono invece presenti a livello nazionale.
Alla luce del ragionamento svolto, la Corte ha quindi ritenuto che la seconda censura della Commissione, relativa alla violazione degli obblighi derivanti dall’art. 19, par. 1 secondo comma TUE da parte della Polonia dovesse essere accolta.
Nella sentenza del 19 novembre 2019, resa a seguito di tre rinvii pregiudiziali sollevati dalla Sezione per il lavoro e la previdenza sociale della Corte suprema polacca, la Corte di giustizia ha avuto modo di tornare sulla questione dell’indipendenza degli organi giurisdizionali nazionali, in relazione alle riforme sull’ordinamento giuridico interno intraprese, anche in questo caso, dalla Polonia.
I rinvii pregiudiziali traevano origine, da un lato, dal ricorso presentato da A. K. avverso il parere negativo emesso dal KRS (Consiglio nazionale della magistratura) sulla possibilità di continuare le proprie funzioni di giudice della Corte suprema amministrativa anche al di là dell’età per il collocamento a riposo anticipato (ovvero, 65 anni); dall’altro lato, dai ricorsi presentati da due giudici della Corte suprema direttamente avverso la decisione adottata dal Presidente della Repubblica, relativa al loro collocamento a riposo dopo il compimento del 65esimo anno di età, e volti a far dichiarare che il loro rapporto di giudice in servizio attivo non si era trasformato. Nelle decisioni di rinvio, in particolare, la Sezione per il lavoro e la previdenza sociale della Corte suprema, adita dai ricorrenti, rilevava ulteriormente che essa era stata chiamata a pronunciarsi su tali ricorsi quando ancora la Sezione disciplinare, competente in principio a conoscere di tali ricorsi in base alle nuove norme polacche, non era stata ancora costituita.
Le questioni poste alla Corte di giustizia erano quindi cinque, due relative alla causa A.K. (C-585/18), e tre nelle cause relative invece ai giudici della Corte suprema (C-624/18 e C-625/18).
Dopo aver riunite le cause e averne prevista la trattazione con procedimento accelerato, la Corte ha innanzitutto preso in esame la rilevanza, ai fini della decisione che il giudice nazionale deve prendere, della prima questione sollevata nella causa riguardante i due giudici della Corte suprema. La Corte era stata infatti chiamata a statuirei circa la compatibilità con il diritto dell’Unione, di un obbligo per un giudice di ultima istanza di non applicare le disposizioni nazionali che riservano la competenza a conoscere di un ricorso concernente il diritto dell’Unione a un organo che, come la Sezione disciplinare, non era ancora costituito. Il giudice dell’Unione ha tuttavia ritenuto non più rilevante la questione sollevata dalla Sezione per il lavoro e la previdenza sociale in quanto, dopo l’adozione delle decisioni di rinvio, era intervenuta la nomina dei giudici della Sezione disciplinare da parte del presidente della Repubblica. Pertanto, la Corte ha ritenuto che non vi fosse più luogo a provvedere.
Con le altre quattro questioni sollevate, invece, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi riguardo al fatto se una sezione di un organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro, come la Sezione disciplinare, che è competente su cause vertenti sul diritto dell’Unione, soddisfi i requisiti di indipendenza e di imparzialità che discendono dagli articoli 2 e 19, par. 1, comma secondo, TUE, dall’art. 267 TFUE, nonché dall’art. 47 della Carta, tenuto conto delle condizioni che hanno presieduto alla sua istituzione e alla nomina dei suoi membri, (par.72).
Prima di affrontare la questione nel merito, la Corte ha preso in esame i rilievi sollevati rispetto alla sua competenza a pronunciarsi, in quanto “le disposizioni del diritto dell’Unione considerate in tali questioni non definiscono la nozione di ‘organo giurisdizionale indipendente’ e non contengono norme relative alla competenza dei giudici nazionali e ai consigli nazionali della magistratura, aspetti che rientrano, pertanto, nella competenza esclusiva degli Stati membri e sono sottratti a qualsiasi controllo da parte dell’Unione” (par. 73). Tuttavia, il giudice dell’Unione ha statuito rilevando che tale interpretazione rientra manifestamente nella competenza della Corte ai sensi dell’art. 267 TFUE, per diversi ordini di ragioni. In primo luogo, nell’esercizio della competenza relativa all’organizzazione della giustizia, “gli Stati membri sono tenuti a rispettare gli obblighi per essi derivanti dal diritto dell’Unione” (par. 75). In secondo luogo, la Corte si è soffermata sul rilievo per cui “le disposizioni nazionali discusse nel procedimento principale non attuano il diritto dell’Unione né rientrano nell’ambito di applicazione dello stesso” (par. 76) e che esse non possono, pertanto, essere valutate alla luce degli articoli 19, par. 1, secondo comma, TUE e 47 della Carta. Per quanto riguarda la Carta, il giudice dell’Unione ha ricordato che l’ambito di applicazione della stessa è dato dall’art. 51, par. 1, della Carta e che, nel caso di specie, i ricorrenti facevano valere la violazione nei loro confronti del divieto di discriminazione fondato sull’età in materia di occupazione, previsto dalla direttiva 2000/78. Pertanto, secondo la Corte, “le presenti cause corrispondono a situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, cosicché i ricorrenti nel procedimento principale possono legittimamente far valere il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva garantito loro dall’art. 47 della Carta” (par. 81). Riguardo, poi, all’ambito di applicazione dell’art. 19, par. 1, comma secondo, TUE, la Corte ha rilevato che, poiché le controversie a livello nazionale riguardano asserite violazioni di norme di diritto dell’Unione, “è sufficiente rilevare che, nel caso di specie, l’organo chiamato a dirimere dette controversie sarà portato a pronunciarsi su questioni relative all’applicazione o all’interpretazione del diritto dell’Unione e rientranti, pertanto, nei settori disciplinati da tale diritto, ai sensi dell’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE” (par. 84). Infine, il Protocollo n. 30 sull’applicazione della Carta alla Polonia e al Regno Unito non rimette in discussione l’applicabilità della Carta in Polonia, né ha lo scopo di esonerare tale Stato membro dall’obbligo di rispettare le disposizioni della Carta stessa (par. 85).
La Corte è quindi competente a interpretare l’art. 47 della Carta e l’art. 19, par.1, secondo comma, TUE.
Per quanto riguarda l’ulteriore rilievo relativo al non luogo a statuire, la Corte ha preso in esame l’intervenuta modifica della legge sulla Corte suprema, adottata il 21 novembre 2018 ed entrata in vigore il 17 dicembre 2018, in base alla quale il legislatore polacco aveva previsto che i giudici nazionali collocati a riposo fossero reintegrati nei loro rispettivi organi giurisdizionali fino al compimento, conformemente alle disposizioni nazionali precedentemente in vigore, dell’età di 70 anni. Era inoltre stata rimossa qualsiasi possibilità di proroga, da parte del presidente della Repubblica, dell’esercizio delle loro funzioni al di là dell’età ordinaria per il pensionamento. Infine, l’articolo 4 della medesima legge disponeva l’archiviazione di controversie del tipo di quelle oggetto dei procedimenti dai quali erano state sollevate le questioni in via pregiudiziale. Proprio in ragione di tale ultimo rilievo, non sarebbe stato più necessario per la Corte pronunciarsi su tali rinvii.
La Corte di giustizia ha invece rilevato che il giudice del rinvio, interpellato sulla questione, aveva ritenuto che una risposta alle questioni pregiudiziali fosse necessaria per consentirgli di “risolvere i problemi preliminari di natura procedurale che è chiamato ad affrontare prima di poter emettere una sentenza” (par. 95). Infatti, come rilevato in precedenza, nelle more del procedimento, il presidente della Repubblica aveva proceduto alla nomina dei membri della Sezione disciplinare che sarebbero stati competenti a pronunciarsi sulle cause di cui era stata invece investita la Sezione per il lavoro e la previdenza sociale della Corte suprema. Come chiarito dalla Corte, il giudice del rinvio “mira ad ottenere chiarimenti non sul merito delle controversie di cui è investito e a loro volta connesse ad altre questioni vertenti sul diritto dell’Unione, bensì su un problema di natura procedurale su cui egli deve pronunciarsi in limine litis, in quanto attinente alla competenza stessa di tale giudice a conoscere delle suddette controversie” (par. 99). In questo caso, quindi, la Corte è competente “a indicare al giudice nazionale gli elementi del diritto dell’Unione che possono contribuire alla soluzione del problema di competenza che esso deve risolvere” (par. 100). Inoltre, secondo la Corte, la constatazione dell’adozione ed entrata in vigore della legge del 21 novembre 2018 non poteva avere rilievo in tale contesto, in quanto la stessa non riguardava gli aspetti relativi alla competenza giurisdizionale a conoscere dei procedimenti principali su cui il giudice del rinvio è chiamato a pronunciarsi.
Tuttavia, la Corte ha colto l’occasione per fornire alcune precisazioni circa la compatibilità di tale legge con il diritto dell’Unione e, in particolare, con il meccanismo del rinvio pregiudiziale. In primo luogo, infatti, ha rilevato che la circostanza che delle misure nazionali “ordinino l’archiviazione di controversie come quelle di cui ai procedimenti principali non può, in linea di principio e in assenza di una decisione del giudice del rinvio che ordini una tale archiviazione o un non luogo a provvedere nei procedimenti principali, indurre la Corte a concludere che essa non è più tenuta a pronunciarsi sulle questioni sottopostele in via pregiudiziale” (par. 102). Infatti, secondo il giudice dell’Unione, una norma nazionale non può impedire a un organo giurisdizionale nazionale, a seconda del caso, di avvalersi della facoltà o di conformarsi all’obbligo di sollevare una questione in via pregiudiziale alla Corte. Tanto detta facoltà quanto detto obbligo sono, infatti, “inerenti al sistema di cooperazione fra gli organi giurisdizionali nazionali e la Corte, instaurato dall’articolo 267 TFUE, e alle funzioni di giudice incaricato dell’applicazione del diritto dell’Unione affidate dalla citata disposizione agli organi giurisdizionali nazionali” (par. 103).
Pertanto, l’adozione e l’entrata in vigore della legge del 21 novembre 2018 non sono tali da giustificare che la Corte non si pronunci sulle questioni a lei sottoposte nei procedimenti relativi ai due giudici della Corte suprema, vertenti sulla permanenza o meno di un rapporto di lavoro in qualità di giudice in servizio attivo. Al contrario, per quanto riguarda il rinvio originato dal procedimento relativo ad A.K., la Corte ha ritenuto che il parere negativo del KRS, dopo la riforma legislativa, potrebbe essere considerato caduco “laddove, in forza di disposizioni nazionali adottate medio tempore, tanto le disposizioni nazionali che introducono la suddetta nuova età per il pensionamento quanto quelle che istituiscono il procedimento di proroga dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, nell’ambito del quale era necessario un simile parere, sono state abrogate, circostanza che consente al ricorrente nel procedimento principale di rimanere in servizio come giudice fino all’età di 70 anni, conformemente alle disposizioni nazionali vigenti prima dell’adozione delle disposizioni così abrogate” (par. 108). In tali circostanze, la Corte ha quindi ritenuto non più necessario pronunciarsi nella causa relativa ad A.K.
Infine, riguardo alla ricevibilità delle due ultime questioni pregiudiziali (la seconda e la terza), sollevate nel procedimento relativo ai due giudici della Corte suprema, la Corte di giustizia ha preso in esame, in particolare, il rilievo in base al quale i procedimenti pendenti di fronte alla Sezione del lavoro e della previdenza sociale sarebbero viziati da nullità per due ragioni: sia riguardo alla violazione delle norme sulla composizione dell’organo giudicante; sia perché tale giudice nazionale del rinvio non può avocare a sé cause che rientrano nella competenza di un’altra sezione della Corte suprema, “senza violare la competenza esclusiva degli Stati membri in materia di organizzazione giudiziaria ed eccedere la competenza dell’Unione” (par. 110). La Corte, tuttavia, ha respinto il rilievo ritenendo che tali elementi attengono ad aspetti sostanziali e non sono affatto idonei ad incidere sulla ricevibilità delle questioni sollevate. Infatti, “le suddette questioni vertono, in sostanza, proprio sull’esistenza – nonostante le norme nazionali di ripartizione delle competenze giurisdizionali in vigore nello Stato membro interessato – di un obbligo, per un organo giurisdizionale quale il giudice del rinvio, di disapplicare, in forza delle disposizioni del diritto dell’Unione considerate in tali questioni, dette norme nazionali e di assumere, se del caso, una competenza giurisdizionale con riferimento ai procedimenti principali” (par. 112). Nel caso in cui la Corte si pronunciasse confermando l’esistenza di un tale obbligo, esso si imporrebbe quindi “al giudice del rinvio e a tutti gli altri organi della Repubblica di Polonia, senza che a ciò possano ostare le disposizioni interne relative alla nullità dei procedimenti o alla ripartizione delle competenze giurisdizionali richiamate dal governo polacco” (ibid.).
Dopo tali rilievi preliminari sull’ammissibilità delle questioni, la Corte si è quindi soffermata sul merito delle due questioni (la seconda e la terza) delle cause relative ai due giudici della Corte suprema.
La Corte ha ricordato quindi che le questioni relative alla violazione del divieto di discriminazione fondato sull’età in materia di occupazione, lamentato dai due giudici, rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78; pertanto, trovano applicazione sia l’art. 47 della Carta sia l’art. 9 della direttiva, che riafferma il diritto ad un ricorso effettivo.
La Corte ha rammentato poi l’art. 52, par. 3, della Carta, in base al quale, laddove quest’ultima contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani (CEDU), il significato e la portata sono uguali a quelli conferiti da detta Convenzione. Per quanto riguarda specificamente l’art. 47 della Carta, i suoi commi 1 e 2 corrispondono all’art. 6, paragrafi 1 e 13, CEDU. La Corte è quindi tenuta a sincerarsi che “l’interpretazione da essa fornita dell’articolo 47, secondo comma, della Carta assicuri un livello di protezione che non conculchi quello garantito all’articolo 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo” (par. 118), in particolare per quanto riguarda il requisito dell’indipendenza degli organi giurisdizionali. Infatti, quest’ultimo “costituisce un aspetto essenziale del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva e del diritto fondamentale a un equo processo” (par. 120). Il giudice dell’Unione ha quindi svolto il proprio ragionamento, facendo riferimento ampiamente alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU).
Dopo aver richiamato l’aspetto interno – collegato alla nozione di imparzialità – ed esterno dell’indipendenza, la Corte si è soffermata sul fatto che, “conformemente al principio della separazione dei poteri che caratterizza il funzionamento di uno Stato di diritto, l’indipendenza dei giudici dai poteri legislativo ed esecutivo deve essere garantita” (par. 124). La Corte ha quindi fatto riferimento all’art. 6, par. 1, CEDU e alla relativa giurisprudenza della Corte EDU per delineare il contenuto di tale requisito. Infatti, “al fine di determinare se un organo giurisdizionale possa essere considerato ‘indipendente’ ai sensi del suddetto articolo 6, paragrafo 1, occorre fare riferimento, segnatamente, alle modalità di nomina e alla durata del mandato dei suoi membri, all’esistenza di garanzie contro il rischio di pressioni esterne e al fatto se l’organo di cui trattasi appaia indipendente” (par. 127) con la precisazione, a quest’ultimo riguardo, “che viene in rilievo la fiducia stessa che ogni giudice deve ispirare ai singoli in una società democratica” (ibid.).
Quanto invece al requisito di “imparzialità”, ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte EDU, esso può essere valutato secondo un approccio soggettivo o oggettivo. In particolare, per quanto riguarda la valutazione oggettiva, la Corte ha richiamato quelle pronunce della Corte EDU in cui emerge che “essa consiste nel chiedersi se, indipendentemente dalla condotta personale del giudice, taluni fatti verificabili autorizzino a sospettare l’imparzialità di quest’ultimo [e] sotto questo profilo, anche le apparenze possono avere importanza” (par.128). E “l’elemento in gioco, ancora una volta, è la fiducia che i giudici, in una società democratica, devono ispirare ai singoli, a iniziare dalle parti del procedimento” (ibid.).
Secondo la Corte, le nozioni di imparzialità oggettiva e di indipendenza, essendo strettamente connesse, devono essere generalmente esaminate insieme. In particolare, in base alla giurisprudenza della Corte EDU, per pronunciarsi sull’esistenza di motivi di temere che tali requisiti di indipendenza o di imparzialità oggettiva non siano soddisfatti in una determinata causa, “l’elemento determinante consiste nello stabilire se i timori di cui trattasi possano essere considerati oggettivamente giustificati” (par. 129).
Nel caso di specie, la Corte di giustizia ha quindi preso in esame la questione se, alla luce delle norme nazionali relative alla creazione di un organo specifico, come la Sezione disciplinare, “tale organo e i membri che lo compongono soddisfino i requisiti di indipendenza e di imparzialità che un organo giurisdizionale deve osservare in forza dell’articolo 47 della Carta quando è chiamato a pronunciarsi su una controversia in cui un singolo lamenti, come nel caso di specie, una violazione del diritto dell’Unione nei suoi confronti” (par. 131).
Secondo la Corte, tuttavia, spetta al giudice nazionale, in ultima analisi, pronunciarsi su questo punto. Tuttavia, la Corte può comunque fornire a tale giudice gli elementi d’interpretazione del diritto dell’Unione che possano essergli utili per la valutazione degli effetti delle varie disposizioni di quest’ultimo.
A questo proposito, la Corte ha quindi rilevato che, in relazione alle nomine dei membri della Sezione disciplinare, “il solo fatto che essi siano nominati dal presidente della Repubblica non è idoneo a creare una dipendenza di questi ultimi nei suoi confronti, né a generare dubbi quanto alla loro imparzialità, se, una volta nominati, gli interessati non sono soggetti ad alcuna pressione e non ricevono istruzioni nell’esercizio delle loro funzioni” (par. 133).
Tuttavia, “i requisiti sostanziali e le modalità procedurali che presiedono all’adozione delle decisioni di nomina [devono essere] tali da non poter suscitare nei singoli dubbi legittimi in merito all’impermeabilità dei giudici interessati rispetto a elementi esterni e alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti, una volta avvenuta la nomina degli interessati” (par.134). Nel caso di specie, la Corte ha quindi proceduto alla valutazione delle modalità procedurali della nomina dei membri della Sezione disciplinare, costatando l’intervento del KRS nel procedimento, ossia l’organo al quale la Costituzione polacca assegna il compito di garante dell’indipendenza degli organi giurisdizionali e dei giudici. Secondo il giudice dell’Unione, “l’intervento di un organo siffatto, nel contesto di un processo di nomina dei giudici, può, in linea di principio, certamente essere idoneo a contribuire a rendere obiettivo tale processo” (par. 137). In particolare, secondo la Corte, “il fatto di assoggettare la possibilità stessa, per il presidente della Repubblica, di procedere alla nomina di un giudice al Sąd Najwyższy (Corte suprema) all’esistenza di una proposta in tal senso proveniente dalla KRS è idonea a delimitare obiettivamente il margine di manovra di cui dispone il presidente della Repubblica nell’esercizio della competenza in tal senso conferitagli” (ibid.). Questo però a condizione che lo stesso KRS sia sufficientemente indipendente dai poteri legislativo ed esecutivo e dall’autorità alla quale è chiamato a presentare una tale proposta di nomina.
Spetterà sempre al giudice nazionale verificare se tale condizione sia sodisfatta. A questo proposito, la Corte ha rilevato che il giudice del rinvio menzionava già una serie di elementi che, considerati nel loro insieme erano tali da “indurre a dubitare dell’indipendenza di un organo chiamato a partecipare al procedimento di nomina di giudici, e ciò quand’anche, considerando detti elementi separatamente, una conclusione del genere non si imponga” (par. 142). La Corte ha quindi elencato alcuni di questi elementi rilevanti ai fini di detta valutazione: “in primo luogo, quella che la KRS di nuova composizione sia stata istituita attraverso una riduzione del mandato in corso, di quattro anni, dei membri che fino ad allora componevano tale organo; in secondo luogo, la circostanza che, mentre i quindici membri della KRS scelti tra i giudici erano eletti, in precedenza, dai loro omologhi magistrati, essi vengono ora eletti da un ramo del potere legislativo tra candidati che possono essere presentati, segnatamente, da gruppi di duemila cittadini o di venticinque giudici, riforma, questa, che conduce a nomine le quali portano il numero di membri della KRS direttamente provenienti dal potere politico o eletti da quest’ultimo a ventitré sui venticinque membri di cui detto organo si compone; nonché, in terzo luogo, l’eventuale esistenza di irregolarità che avrebbero potuto viziare il processo di nomina di taluni membri della KRS nella sua nuova composizione, irregolarità menzionate dal giudice del rinvio e che spetterà ad esso, eventualmente, verificare” (par. 143). Infine, la Corte ha ritenuto rilevante anche il fatto che le decisioni del Presidente della Repubblica, recanti la nomina dei giudici della Corte suprema, non potevano essere oggetto di sindacato giurisdizionale.
Inoltre, il giudice dell’Unione ha indicato ulteriori punti di cui il giudice nazionale dovrà tenere conto in tale valutazione, non solo relativi alla nomina dei giudici. In primo luogo, la Corte ha indicato la circostanza che a tale organo è stata specificamente affidata una competenza esclusiva a conoscere delle cause in materia di diritto del lavoro e della previdenza sociale e di collocamento a riposo riguardanti i giudici della Corte suprema, cause che sino ad allora rientravano nella competenza dei giudici ordinari. Tale aspetto, sebbene non sia determinante in quanto tale, occorre che sia inserito nel contesto delle riforme intraprese dalla Polonia, tra cui l’adozione di “disposizioni della nuova legge sulla Corte suprema che hanno previsto un abbassamento dell’età per il pensionamento dei giudici del Sąd Najwyższy (Corte suprema) e l’applicazione di tale misura ai giudici in carica di tale organo giurisdizionale, e che hanno conferito al Presidente della Repubblica il potere discrezionale di prorogare l’esercizio della funzione giudiziaria attiva dei giudici di detto organo giurisdizionale al di là dell’età per il pensionamento ex novo fissa” (par. 148).
In secondo luogo, in forza della nuova legge sulla Corte suprema, la Sezione disciplinare deve essere unicamente composta da giudici di nuova nomina, con esclusione dei giudici già in carica presso la Corte suprema (par. 149).
In terzo luogo, la Corte ha rilevato che la Sezione disciplinare della Corte suprema, a differenza delle altre sezioni che compongono tale organo giurisdizionale, “sembra godere di un grado di autonomia particolarmente elevato all’interno di detto organo” (par. 151).
Anche in questo caso la Corte ha rilevato che spetta al giudice del rinvio valutare se la combinazione di tali elementi “e di qualunque altra circostanza pertinente, debitamente dimostrata, di cui esso venga a conoscenza sia idonea a generare dubbi legittimi, nei singoli, quanto all’impermeabilità della Sezione disciplinare rispetto a elementi esterni e, in particolare, a influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti e, pertanto, possa portare a una mancanza di apparenza d’indipendenza o di imparzialità di detto organo tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare a detti singoli in una società democratica” (par. 153).
Se tale giudice arrivasse a tale conclusione, ne conseguirebbe che la Sezione disciplinare della Corte non soddisfarebbe i requisiti derivanti dall’art. 47 della Carta e dall’art. 9 della direttiva 2000/78.
In tale ipotesi, la Corte ha quindi preso in considerazione se il principio del primato del diritto dell’Unione imponga al giudice nazionale “di disapplicare le disposizioni nazionali che riservano la competenza giurisdizionale a conoscere delle controversie di cui ai procedimenti principali al suddetto organo” (par. 155). La Corte ha quindi richiamato l’obbligo di interpretazione conforme, ribadendo che, nel caso di impossibilità di procedere a tale interpretazione, il giudice nazionale adito dovrà disapplicare qualsiasi disposizione di diritto interno contrastante con una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui il giudice è investito. A quest’ultimo proposito, la Corte ha ribadito, in base alla sua giurisprudenza precedente, che l’art. 47 della Carta “è sufficiente di per sé e non deve essere precisata mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale” (par. 162). Allo stesso modo, anche l’art. 9 della direttiva 2000/78 è idoneo, secondo la Corte, a produrre effetti diretti (par. 163).
Pertanto, “il giudice nazionale è tenuto ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica spettante ai singoli in forza dell’articolo 47 della Carta e dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 e a garantire la piena efficacia di tali articoli, disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione nazionale contraria” (par. 164). Cosicché, “qualora risulti che una disposizione nazionale riserva la competenza a conoscere di una controversia come quelle di cui ai procedimenti principali a un organo che non risponde ai requisiti di indipendenza o di imparzialità richiesti ai sensi del diritto dell’Unione, in particolare dell’articolo 47 della Carta, un altro organo investito di una controversia del genere ha l’obbligo – al fine di garantire una tutela giurisdizionale effettiva, ai sensi di detto articolo 47, e conformemente al principio di leale cooperazione sancito dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE – di disapplicare detta disposizione nazionale” (par. 166). In questo modo secondo la Corte, la controversia potrà essere risolta “da un giudice che risponda ai medesimi requisiti e che sarebbe competente nel settore interessato se detta disposizione non vi ostasse.” (ibid.), vale a dire dal giudice che era competente sulla base della legislazione in vigore prima che intervenisse la modifica legislativa che ha attribuito tale competenza all’organo che non soddisfa i requisiti di indipendenza e imparzialità.
Come ultimo punto, la Corte ha ritenuto non necessario procedere all’interpretazione degli artt. 2 e 19, par. 1, secondo comma, TUE, in quanto “non potrebbe che corroborare” (par. 169) la conclusione già raggiunta sulla base dell’art. 47 della Carta e art. 9 della direttiva 2000/78. Né, secondo la Corte, è necessario procedere all’interpretazione dell’art. 267 TFUE, non avendo, il giudice del rinvio, fornito alcuna indicazione in merito alle ragioni per le quali un’interpretazione di tale articolo potrebbe rivelarsi pertinente ai fini della soluzione delle questioni. Inoltre, l’interpretazione dell’art. 47 della Carta e dell’art. 9, par. 1, della direttiva 2000/78, “appare sufficiente a dare al giudice una risposta che possa guidarlo in vista delle decisioni che esso è chiamato ad adottare nelle suddette controversie” (par.170).


1 Articolo 269 TFUE: “La Corte di giustizia è competente a pronunciarsi sulla legittimità di un atto adottato dal Consiglio europeo o dal Consiglio a norma dell'articolo 7 del trattato sull'Unione europea unicamente su domanda dello Stato membro oggetto di una constatazione del Consiglio europeo o del Consiglio e per quanto concerne il rispetto delle sole prescrizioni di carattere procedurale previste dal suddetto articolo.
La domanda deve essere formulata entro il termine di un mese a decorrere da detta constatazione. La Corte statuisce entro il termine di un mese a decorrere dalla data della domanda”.