Banca d'Italia (3/2020)

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Aggiornato al 10.11.2020

  1. La decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea in tema di riforma delle banche popolari.

La Corte di Giustizia UE, con decisione del 16 luglio 2020, in causa C-686/16, si è pronunziata sulla questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato con ordinanza della VI sezione del 26.10.2018, n. 6129, nell’ambito dei giudizi connessi alla riforma delle banche popolari, avviata con d.l. n. 3/2015 (conv. con l. n. 33/2015).

La riforma delle banche popolari, per il tramite dell’impugnativa delle disposizioni attuative della Banca d’Italia, è stata portata all’attenzione del Giudice amministrativo con tre ricorsi, che ne avversavano diversi profili e ne lamentavano la contrarietà a parametri unionali e costituzionali.

Il Consiglio di Stato, adito dopo la reiezione dei ricorsi da parte del TAR Lazio, ha dapprima sollevato questione di costituzionalità, decisa con la sentenza della Corte costituzionale n. 99/2018.; dopodiché, ritenuti sussistenti comunque possibili profili di frizione con la normativa dell’Unione Europea, ha sollevato cinque questioni pregiudiziali ex art. 267 TFUE.

Per comodità espositiva, stanti la complessità della questione e l’estrema articolazione della vicenda, possiamo distinguere le questioni vagliate dalla Prima Sezione della Corte di Giustizia in due gruppi.

 

  1. L’obbligo di trasformazione in s.p.a.

Il primo punto controverso riguarda l’obbligo – contemplato al co. 2-bis dell’art. 29 Testo Unico Bancario - di trasformazione delle banche popolari in società per azioni al raggiungimento di una determinata soglia di attivo (8 miliardi di euro).

La previsione di un simile obbligo si fonda sul presupposto che “da  tempo … le  banche  popolari” o almeno quelle di maggiori dimensioni “hanno  solo  la  forma cooperativa  e  non  la  sostanza  della  mutualità,  sicché  in  esse  la  società  cooperativa  si  presenta  come  mera  forma  organizzativa” (Relazione alla l. n. 33/2015, p. 2); d’altro canto, della forma cooperativa tali società presentavano i limiti, individuati dal legislatore nella non contendibilità del controllo, nel forte diaframma fra proprietà e gestione e nella rigidità della forma di governo (ibidem).

Sulla previsione in questione, peraltro, si era già pronunziata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 287/2016.

In tale pronunzia, al punto 3 del “Considerato in diritto”, La Corte aveva dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale di detta previsione legislativa affermando in particolare che: i) “l’obiettivo di adeguamento della forma giuridica delle banche popolari di maggiori dimensioni alla forma tipica delle banche commerciali è stato perseguito dal legislatore statale  dimensione dell’attivo è criterio idoneo a descrivere la complessità di una banca”; ii) la discrezionalità del legislatore nel fissare la soglia al cui superamento scatta l’obbligo di riduzione dell’attivo o di trasformazione in società per azioni, non è sindacabile dal Giudice delle leggi se non in caso caso di manifesta irragionevolezza; iii) nel caso di specie, quest’ultima condizione non ricorre, in quanto “il limite di otto miliardi di euro, individuato dalla riforma, non risulta sproporzionato all’obiettivo perseguito, in quanto conduce a ricomprendere nell’ambito delle aziende di credito tenute a trasformarsi in società per azioni le banche popolari più significative (…) nel panorama nazionale”.

Non migliore fortuna hanno incontrato le perplessità sollevate dal Consiglio di Stato a livello europeo, laddove la Corte di Giustizia (punti 98 ss. della sentenza) ha ritenuto unico quesito ricevibile quello sulla compatibilità tra normativa nazionale impositiva del limite sopra ricordato e art. 63 ss. TFUE, ovverosia le norme in tema di libera circolazione dei capitali (seconda questione).

La Corte ha riconosciuto che una normativa come quella della specie, che vieta l’esercizio di attività bancaria a banche costituite in una determinata forma giuridica, se di maggiori dimensioni, “può dissuadere investitori di Stati membri diversi dalla Repubblica italiana e di Stati terzi dall’acquisire una partecipazione nel capitale di dette banche e costituisce, di conseguenza, una restrizione alla libera circolazione dei capitali vietata, in linea di principio, dall’articolo 63 TFUE”. Nondimeno, richiamando la propria consolidata giurisprudenza in materia, il Giudice unionale ha rilevato che da ciò non consegue automaticamente l’”illegittimità comunitaria” della disciplina nazionale in questione: anche le restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali sono ammesse, infatti, purché motivate da ragioni di interesse generale e proporzionate rispetto a tale obiettivo.

Ne consegue che la prescrizione  dal d.l. n. 3/2015 può dirsi non contrastante con l’ordinamento UE “a condizione che la soglia di attivo fissata da tale normativa …. sia idonea a garantire la realizzazione di tali obiettivi e non ecceda quanto necessario per il loro raggiungimento”. Ma la verifica di tale circostanza viene rimessa al giudice del rinvio.

Come notato, tuttavia, uno scrutinio circa l’adeguatezza della soglia dell’attivo al perseguimento delle finalità della riforma era già stato effettuato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 287/2016 cit.

Ed infatti il Consiglio di Stato, nell’unica pronuncia che fin qui ha avuto modo di emettere a seguito del rinvio, sulla revoca della sospensione cautelare dell’attuazione della riforma (Sez. VI, ord. 02.10.2020, n. 5810, ha rilevato che “la valutazione di proporzionalità richiesta è stata già effettuata da Corte cost., 21 dicembre 2016 n. 287”, menzionando proprio il punto 3 del “Considerato in diritto” della sentenza, sopra citato.

  1. Le limitazioni al rimborso in caso di recesso

Il secondo gruppo di questioni riguarda il nuovo art. 28 del TUB, come modificato dal d.l. n. 3/2015, laddove al comma 2-ter di dispone ora quanto segue: “Nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di  trasformazione, morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca”.

Questa norma, di significativa incisività rispetto alla posizione degli azionisti, trova i suoi antecedenti nella disciplina prudenziale armonizzata a livello europeo, in particolare nell’art. 29 del Regolamento UE 575/2013 (cd. CRR) e nel Regolamento Delegato n. 241/2014: tale ultima fonte richiede appunto, per la computabilità delle azioni nel capitale di qualità primaria (ovvero l’aggregato patrimoniale più rilevante ai fini della stabilità della banca), che alla società sia data la facoltà di rinviare il rimborso o di limitare l'importo rimborsabile per un periodo illimitato di tempo, nei confronti del socio che eserciti il diritto di exit.

La Banca d’Italia ha attuato la delega legislativa con una modifica delle proprie Disposizioni di Vigilanza, e precisamente della Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (Aggiornamento del 9 giugno 2015), ricalcando fedelmente i dettami delle norme unionali.

Al riguardo, il Consiglio di Stato aveva innanzitutto compulsato la Corte Costituzionale, la quale peraltro, con la sentenza n. 99/2018, ha escluso però ogni vulnus a parametri costituzionali.

Il Giudice delle leggi, in sintesi, ha affermato che: le regole prudenziali europee impongono di attribuire all’ente creditizio la capacità di limitare o rinviare il rimborso, mentre soluzioni che escludono l’una o l’altra facoltà del pari inibiscono la computabilità delle azioni nel capitale di classe 1; tali regole si applicano anche in caso di deliberazione “coatta” di trasformazione per raggiungimento della soglia dimensionale; simile normativa non realizza un esproprio senza indennizzo, perché il rinvio o la limitazione intanto sono legittimi in quanto siano giustificati dalla necessità di soddisfare le esigenze prudenziali, e per il tempo a ciò necessario.

La Corte ha anche negato la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte UE, asserendo l’univocità dell’interpretazione delle norme prudenziali in gioco e ricordando la giurisprudenza unionale nel senso della prevalenza delle ragioni di stabilità finanziaria sul diritto di proprietà degli azionisti e dei creditori subordinati delle banche.

Ciononostante, il Consiglio di Stato – non dimenticando la sua natura di giudice di ultima istanza - ha ritenuto che vi fossero ancora perplessità da fugare in ordine alla compatibilità della previsione speciale del TUB con il quadro normativo UE.

Anche in questo caso, poche delle questioni sollevate hanno superato il vaglio di ricevibilità, finendo per riassumersi nel seguente quesito: se l’art. 29 CRR, l’art. 10 del Regolamento Delegato n. 241/2014, nonché gli articoli 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, debbano essere interpretati nel senso che essi ostano alla normativa di uno Stato membro, che consente a una banca popolare di rinviare per un periodo illimitato il rimborso della quota del socio recedente e di limitarne l’importo.  

La risposta della Corte di Giustizia UE è negativa.

Con riguardo alla normativa prudenziale europea, sulla base di un’interpretazione letterale, la Corte nota che essa richiede appunto di rinviare il rimborso e di limitarne l’importo per tutto il tempo e nella misura in cui ciò sia necessario alla luce della situazione prudenziale della banca: ovverosia, esattamente quanto dispone la legge italiana.

Quanto ai precetti della Carta di Nizza su libertà di impresa e diritto di proprietà, la decisione in commento ritiene inverate le condizioni dell’articolo 52, par. 1, della Carta, che ammette limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà sanciti da quest’ultima, purché tali limitazioni siano previste dalla legge, rispettino il contenuto essenziale di tali diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, risultino necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione.

Secondo la Corte, nel caso di specie: i) le limitazioni sono previste per legge; ii) rispettano il contenuto essenziale dei diritti, perché non pregiudicano l’essenza del diritto di proprietà e non impediscono l’esercizio dell’attività bancaria tout court; iii) l’obiettivo perseguito, che in sintesi è quello di rafforzare la stabilità del sistema bancario e finanziario, è di interesse generale dell’Unione (come già affermato dalla Corte nei noti casi decisi nel 2016 Kotnik e Dowling, in cui tali interessi erano stati riconosciuti come preminenti, a determinate condizioni, su diritti individuali di soci e di altri interessati).

Anche in questo caso, comunque, per concludere sulla legittimità della normativa limitativa dei diritti dei soci, si impone un vaglio di proporzionalità. E, di nuovo, la Corte di Giustizia rimanda al giudice del rinvio per la verifica in concreto sulla congruità delle limitazioni rispetto a quanto necessario, tenuto conto della situazione prudenziale delle banche interessate.

Su quest’ultimo punto, tuttavia, il rinvio sembra non tanto al Consiglio di Stato, quale giudice del rinvio investito non della cognizione di una fattispecie concreta, ma della prima valutazione generale della riforma, quanto piuttosto al giudice nazionale che di volta in volta conoscerà le doglianze dei singoli azionisti attinti dalla misura. Non è un caso che, nella menzionata ordinanza n. 5810/2020, il Supremo Giudice amministrativo abbia rilevato, sul punto, che “il profilo di proporzionalità invocato dalla CGUE potrà essere apprezzato solo in concreto e quindi successivamente all’esito della decisione in ordine al rinvio o alla limitazione del rimborso”.