Elezioni regionali e “quote rosa”…ma cosa? (3/2020)

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REGIONE

ELEZIONI 2015

ELEZIONI 2020

DIFFERENZA

(val. assoluto)

DIFFERENZA

(val. %)

Campania

11 su 51 (22%)

9 su 51 (18%)

-2

-4%

Liguria*

5 su 31 (16%)

3 su 31 (10%)

-2

-6%

Marche

6 su 31 (19%)

8 su 31 (26%)

+2

+7%

Puglia*

5 su 51 (10%)

8 su 51 (16%)

+3

+6%

Toscana

11 su 41 (27%)

16 su 41 (39%)

+5

+12%

Valle d’Aosta

8 su 35 (23%)

4 su 35 (11%)

-4

-12%

Veneto

11 su 51 (22%)

17 su 51 (33%)

+6

+11%

MEDIA

8 - 20%

9 - 22%

+1

+2

 

Niente, non c’è verso! Le sette regioni in cui il 20 e 21 settembre scorsi di è andati al voto ci restituiscono impietosamente un una rappresentanza femminile perdurantemente labile e traballante, ammontante mediamente al 22% del totale delle assemblee e che stenta ad affermarsi e consolidarsi.

Questa volta, nemmeno l’introduzione last minute in alcuni sistemi elettorali regionali (ci si riferisce a Liguria e Puglia*) della doppia preferenza di genere e di soglie di lista ha portato all’elezione di un numero apprezzabilmente più elevato di donne. Anzi, semmai, talora, l’esatto contrario, se solo si pensa, ad esempio, che il Consiglio regionale - Assemblea Legislativa della Liguria ne conterà meno rispetto alle due scorse legislature (tornando così alla cifra del 2005); e che la Puglia, dopo il tanto discusso intervento sostitutivo del Governo, ha visto l’ingresso di solo tre donne in più nell’organo di rappresentanza regionale.

Peraltro, la situazione appare tanto più paradossale proprio ricordandosi di come l’opportunità per le attese riforme generali del sistema di elezione fosse stata offerta – per non dire sofferta – in maniera abbastanza imprevedibile, incombente il solleone, dall’intimazione governativa ad adeguare la disciplina elettorale nella prospettiva di favorire la parità di genere. Ciò che, come si rammenterà, aveva suscitato molte critiche anche a motivo dello scarsissimo lasso di tempo ormai, a quel punto, nella disponibilità delle forze politiche per rimediare alla lacuna, nell’ambito di campagne elettorali che già si trovavano ai cancelletti di partenza.

Se, dunque, la tempistica viene annoverata tra le ragioni della debacle (per la difficoltà di trovare illico et immediate donne disponibili a candidarsi), non difettano, tuttavia, altre circostanze a cui imputare qualche corresponsabilità. Così, sul piano più prettamente tecnico, può citarsi l’avvenuta riduzione del numero dei consiglieri regionali, ritenendosi verosimile che, ad oggi, il mantenimento dell’ammontare “originario” avrebbe potuto favorire una rappresentanza maggiormente paritaria (di qui, tra l’altro, l’auspicio che il fenomeno sia scongiurato a livello nazionale dopo il “taglio” avallato dal referendum costituzionale). In Liguria, poi, con un altro apparente paradosso, anche l’abolizione del criticatissimo listino bloccato del candidato presidente pare avere inciso negativamente, se si rammenta che la scorsa volta esso aveva favorito (per puro caso?) l’ingresso di tre donne (delle cinque elette) in consiglio. Ancora, sul deprecato (da noi) esito non può non aver avuto effetto l’impostazione della campagna di presentazione delle candidature da parte di tutte le forze in campo incentratesi in tutte le regioni al voto in maniera assorbente sui candidati Presidenti (quasi tutti uomini), lasciandosi nell’ombra la valorizzazione dei “ticket” uomo-donna che avrebbe dovuto portare in maggiore auge proprio la rappresentanza femminile. Sempre con riguardo alla strategia comunicazionale, poi, non pare aver giovato alla causa il “riserbo” osservato sulla riforma stessa del sistema di voto (v., Liguria e Puglia), così che la più gran parte delle elettrici e degli elettori sembra essere andata alle urne senza addirittura nemmeno conoscere “doppia di genere” e “quota di lista”. Difficile, da ultimo, dire quanto possa aver giocato la probabile maggior propensione “conservatrice” dei bacini elettorali periferici rispetto alle più “dinamiche” circoscrizioni e liste presentate nelle grandi città, da pare essere perlopiù sortita la rappresentanza femminile adesso in carica.

Al fondo della problematica, resta, tuttavia, a maggior ragione dopo aver sperimentato la sostanziale inefficacia della disciplina elettorale regionale, la perdurante neghittosità del Parlamento ad individuare soluzioni adeguate: ciò che non ha coinciso nemmeno con la rivisitazione della legge-quadro in materia (v. la legge n. 165 del 2004, come riformata dalla legge n. 20 del 2016, non essendosi potuto far altro che attribuire alle novità favorevoli alla rappresentanza femminile un carattere meramente programmatico, con la conseguenza di farle risultare prive di immediata cogenza (anche nel relativo contenzioso).

Di qui, ci pare, l’improrogabile necessità di norme legislative statali di natura chiaramente precettiva e sanzionate in modo stringente, in vista di un effettivo «riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive» (sent. n. 422 del 1995)… in ragione, tra l’altro, degli effetti benefici che una tale soluzione avrebbe, vuoi sulla riacquisizione di una certa centralità, almeno in questa materia, del Parlamento, vuoi sull’apertura delle vie di accesso ai giudici (ordinari e, se del caso, amministrativi), aumentando così le probabilità di un voto conforme al dettato costituzionale (artt. 48, 51, 1° c.; e 117, 7° c.; 122 Cost.). Del resto, sembra improbabile che, in una simile evenienza, la Corte costituzionale possa mettersi di traverso, trattandosi, a ben vedere, del compimento del percorso tracciato in ambito interno e sovranazionale da essa medesima auspicato, verso il fondamentale traguardo dell’uguaglianza di genere nelle cariche elettive (v., spec., le sentt. n. 49 del 2003 e n. 4 del 2010 successive alla riforma del Titolo V della Costituzione); anzi, in quest’ottica, in una tale normativa essa potrebbe addirittura vedervi una “legge costituzionalmente necessaria”, in quanto unica ed univoca possibile attuazione dello stesso precetto costituzionale.

In ogni caso, resta malauguratamente disattesa quella giurisprudenza in cui la medesima Consulta, più di vent’anni or sono, scommetteva su di «un’intensa azione di crescita culturale» in grado di portare «partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l’effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare» (sent. n. 422 del 1995). Più in generale, è ad oggi persa la sfida del consolidamento, nel nostro Paese, di un sentire sociale solidale e dell’edificazione di un sistema di welfare tali da offrire il necessario supporto alle donne che, oltre a tutto il (tanto) resto, intendano prestarsi alle Istituzioni …e, con ciò stesso la consapevolezza che la «presenza femminile in politica, nei posti cosiddetti “di potere” non serve soltanto alle donne ma serve a migliorare la qualità della società. Per tutti» (T. Anselmi).