La Corte respinge il referendum “uninominalista” per «eccessiva manipolatività» di una sua parte essenziale (1/2020)

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Sentenza n. 10/2020 – giudizio sull’ammissibilità dei referendum
Deposito del 31/01/2020 – pubblicazione in G. U. 05/02/2020 n. 6

Motivo della segnalazione

Nell’autunno del 2019 era stato promosso un referendum abrogativo da parte di otto Consigli regionali (Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Liguria). Oggetto di tale richiesta referendaria erano in particolare le due leggi elettorali del Senato e della Camera con l’obiettivo di eliminare la quota proporzionale, trasformando così il sistema elettorale interamente in un maggioritario a collegi uninominali. Inoltre, data l’esigenza anche in tal caso di ridisegnare i collegi, il quesito investiva anche (manipolandola fino a darne un senso diverso dalla ratio originaria) la delega conferita al Governo con la legge n. 51/2019 per la ridefinizione dei collegi in vista di una riduzione del numero dei parlamentari.

La Corte costituzionale – con la sentenza n. 10 del 2020 – ha dichiarato inammissibile tale richiesta referendaria, proprio per la “eccessiva manipolatività del quesito referendario, nella parte in cui investe la delega di cui all’art. 3 della legge n. 51 del 2019”, ritenuto “incompatibile con la natura abrogativa dell’istituto del referendum previsto all’art. 75 Cost.” (punto 7.3. del Considerato in diritto).
Come precisa la Corte, «La legge n. 51 del 2019 non è intervenuta per modificare i meccanismi di conversione dei voti in seggi, ma per sostituire l’indicazione numerica dei collegi uninominali con un’indicazione a mezzo di frazioni, al fine di rendere immediatamente applicabile la legge elettorale vigente in caso di modifica del denominatore della frazione (cioè del totale dei seggi), restando del tutto inalterata la proporzione tra il numero dei parlamentari eletti nei collegi uninominali (con sistema maggioritario) e quello dei parlamentari eletti nei collegi plurinominali (con sistema proporzionale)», recando altresì «una norma di delega (art. 3) per la determinazione dei nuovi collegi elettorali (uninominali e plurinominali), che, pur rimanendo nella stessa proporzione quanto ai parlamentari eletti (i tre ottavi di questi ultimi nei collegi uninominali e i cinque ottavi in quelli plurinominali), a seguito dell’eventuale entrata in vigore della legge costituzionale saranno ovviamente di numero inferiore e, di conseguenza, di dimensioni maggiori rispetto agli attuali».
La norma di delega de qua presenta dunque la caratteristica di essere sottoposta a una condizione sospensiva legata al verificarsi di un evento complesso: la promulgazione, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge n. 51 del 2019, di una legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere.
La stessa Corte parla di «una delega “precaria”, rispetto al cui esercizio è incerto l’an, ma non il quando, essendo definiti i limiti temporali del suo esercizio, ovviamente possibile solo a condizione che si verifichi l’evento complesso di cui sopra».
Oltre a tale legge, ovviamente, il quesito referendario investe «le disposizioni recate dai testi unici delle leggi elettorali della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica attinenti all’articolazione del territorio nazionale in collegi uninominali e plurinominali, e inoltre dall’art. 3 della legge n. 51 del 2019, che contiene l’anzidetta norma di delega in materia di determinazione dei collegi elettorali in caso di modifica del numero dei parlamentari, nonché dall’art. 3 della legge n. 165 del 2017, nelle parti – peraltro eccedenti il mero richiamo ad esso contenuto nell’art. 3 della legge n. 51 del 2019 – in cui stabilisce i principi e criteri direttivi della delega per la determinazione dei collegi elettorali a seguito della modifica del sistema elettorale operata dalla stessa legge n. 165 del 2017».
Tutto ciò volto, secondo le intenzioni dei promotori, «ad abrogare tutte le disposizioni, i frammenti normativi e le singole parole che fanno riferimento ai collegi plurinominali, con l’obiettivo di estendere alla totalità dei seggi un meccanismo di assegnazione basato su collegi uninominali, portandolo quindi dall’attuale previsione di tre ottavi al totale di otto ottavi».
Con riferimento alle fonti del diritto, è particolarmente interessante la parte relativa alla delega ex l.n. 51 del 2019: i promotori del referendum chiedono l’abrogazione dell’incipit dell’art. 3 comma 1 là dove si individua la condizione sospensiva della delega e di quella parte del comma 2 in cui si fissa il dies a quo del termine di 60 giorni per l’esercizio della delega. Infine, sono oggetto del quesito il riferimento ai collegi plurinominali contenuto nella rubrica e nel comma 1, nonché il richiamo dei principi e criteri direttivi di delega previsti nell’art. 3, comma 1, lettera b), e comma 2, lettera b), della legge n. 165 del 2017. Quanto invece all’art. 3 della legge n. 165 del 2017, recante la norma di delega già scaduta ed esercitata dal Governo con il d.lgs. n. 189 del 2017, i promotori del referendum chiedono l’abrogazione delle parti di esso costituenti principi e criteri direttivi dell’altra delega contenuta nell’art. 3 della legge n. 51 del 2019.
In definitiva, sintetizza la Corte, «l’abrogazione parziale dell’art. 3 della legge n. 51 del 2019 è chiesta per adattare la delega al Governo per la ridefinizione dei collegi al mutamento del sistema elettorale determinato dall’eventuale esito positivo del referendum abrogativo. A sua volta l’abrogazione parziale dell’art. 3 della legge n. 165 del 2017 è chiesta per adattare i principi e criteri direttivi in esso contenuti al detto mutamento del sistema elettorale». Essa è dunque chiamata, complessivamente, a «giudicare sull’ammissibilità di quest’ultimo alla luce dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost. e del complesso dei ‘valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum, al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.’ (sentenza n. 16 del 1978)».
La Corte richiama quindi i suoi precedenti in tema di ammissibilità referendaria ed in particolare quelli volti a consentire, talora, anche operazioni di “ritaglio”, «a condizione però che l’abrogazione parziale chiesta con il quesito referendario non si risolva sostanzialmente ‘in una proposta all’elettore, attraverso l’operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione’ (sentenza n. 36 del 1997). Richiama altresì i suoi precedenti su come «l’eventuale abrogazione parziale di leggi costituzionalmente necessarie, e in primis delle leggi elettorali, [debba] comunque garantire l’’indefettibilità della dotazione di norme elettorali’ (sentenza n. 29 del 1987), dovendosi evitare che l’organo delle cui regole elettorali si discute possa essere esposto ‘alla eventualità, anche solo teorica, di paralisi di funzionamento’ (sentenza n. 47 del 1991).
Nel caso de quo, il quesito referendario è giudicato «sicuramente univoco nell’obiettivo che intende perseguire e risulta dotato di una matrice razionalmente unitaria», alla quale «non è estraneo l’intervento proposto sulla norma di delega del 2019 e, in quanto oggetto di rinvio da parte di quest’ultima, su quella del 2017, giacché l’inclusione nel quesito anche di queste normative si pone come strumentale, nelle intenzioni dei promotori, al raggiungimento del medesimo risultato»: tuttavia, «l’operazione abrogativa richiesta, che non manca, come visto, di intrinseca coerenza, si presenta […] inammissibile per l’assorbente ragione del carattere eccessivamente manipolativo dell’intervento sulla norma di delega».
La Corte richiama diversi suoi precedenti nei quali aveva affermato che, per garantire l’effettiva applicabilità della normativa di risulta, specificava come fosse necessaria l’immediata disponibilità di collegi elettorali già disegnati per il nuovo assetto; specifica poi che nel giudizio de quo il problema della determinazione dei collegi elettorali si presenta in termini parzialmente diversi rispetto al passato, «per l’inclusione nel quesito referendario di una previsione di delega per la revisione dei collegi elettorali. Anche in questo caso, tuttavia, non si può non osservare che l’ineludibile necessità che siano ridisegnati i collegi elettorali e che sia quindi adottato un decreto legislativo a ciò diretto, ulteriore rispetto all’esito del referendum, finirebbe ugualmente per vanificare le prospettive di ammissibilità dell’iniziativa referendaria. Pur consapevole dei limiti che il requisito della immediata applicabilità pone all’ammissibilità di referendum su leggi elettorali, questa Corte non ritiene tuttavia praticabile il percorso demolitorio-ricostruttivo individuato dai promotori per superare l’ostacolo della non auto-applicatività»; ovvero cogliere «l’occasione dell’esistenza di una delega resa dal Parlamento al Governo al fine di consentire l’applicabilità della riforma costituzionale in itinere che modifica il numero dei parlamentari» per proporre «un intervento su di essa diretto a conferirle il contenuto di delega a rideterminare i collegi uninominali in attuazione del nuovo sistema elettorale in ipotesi prodotto dal referendum».
Tecnicamente, l’intervento sulla disposizione di delega si concretizza con: «a) la parziale modifica del suo oggetto, che viene circoscritto, sia nella rubrica sia nel comma 1 del citato art. 3, alla «determinazione dei collegi uninominali» e non più di quelli plurinominali; b) l’eliminazione della condizione sospensiva della delega, che ne consentirebbe l’esercizio anche in caso di mancata promulgazione di una legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari entro ventiquattro mesi dalla entrata in vigore della legge n. 51 del 2019; c) l’abrogazione del dies a quo del termine di sessanta giorni per l’esercizio della delega; d) l’eliminazione dei riferimenti ai collegi plurinominali nei principi e criteri direttivi della delega (sia nella legge n. 51 del 2019, sia nella legge n. 165 del 2017)». Risulta quindi evidente che «l’obiettivo che i promotori si prefiggono di raggiungere presuppone una modifica della disposizione di delega che ne investe l’oggetto, la decorrenza del termine per il suo esercizio, i principi e criteri direttivi e la stessa condizione di operatività», risultando intervento «solo apparentemente abrogativo e [traducendosi] con tutta evidenza in una manipolazione della disposizione di delega diretta a dare vita a una “nuova” norma di delega, diversa, nei suoi tratti caratterizzanti, da quella originaria».
Vi sarebbe, in tal modo, «un inammissibile effetto ampliativo della delega originaria che, conferita dal Parlamento sub condicione, diventerebbe incondizionata con il risultato di una manipolazione incompatibile, già solo per questo, con i limiti e le connotazioni peculiari della delega legislativa. A ulteriore conferma dell’inammissibile grado di manipolazione che connota il quesito referendario sul punto vi è, poi, la considerazione che la delega, ancorché parzialmente abrogata, dovrebbe rimanere utilizzabile – come affermato dalla difesa degli stessi promotori – anche a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, alla quale era destinata a dare attuazione, ed essere così oggetto di un duplice e contestuale esercizio, dopo lo svolgimento del referendum costituzionale e di quello abrogativo qui all’esame. Al che si aggiunge la possibilità che i due referendum si svolgano in tempi diversi, come potrebbe avvenire, ad esempio, nel caso in cui il referendum abrogativo dovesse essere rinviato per intervenuto scioglimento anticipato delle Camere in applicazione di quanto previsto all’art. 34, secondo comma, della legge n. 352 del 1970. Nel qual caso la delega stessa risulterebbe esaurita, e non più utilizzabile, all’atto dello svolgimento del referendum abrogativo».
Dunque, «l’unicità del quesito referendario e la sua stessa matrice razionalmente unitaria» impediscono alla Corte di «scindere la valutazione di ammissibilità della parte del quesito relativa alla norma di delega da quella relativa alle altre parti, con la conseguenza che sul quesito stesso deve essere formulato un giudizio unitario», portandola dunque a ritenere che «l’eccessiva manipolatività del quesito referendario, nella parte in cui investe la delega di cui all’art. 3 della legge n. 51 del 2019, è incompatibile con la natura abrogativa dell’istituto del referendum previsto all’art. 75 Cost., ciò che ne determina l’inammissibilità».