La Corte costituzionale richiama l’attenzione del legislatore sull’inadeguatezza della disciplina relativa alla sostituzione della pena (2/2020)

Stampa

sent. n. 15/2020. Giudizio di costituzionalità in via incidentale.
Deposito del 11/02/2020; Pubblicazione in G. U. 12/02/2020 n. 7.

Motivo della segnalazione

La Consulta, sollecitata da un ricorso promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, III sezione penale, è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 135 del Codice penale, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., “nella parte in cui stabilisce il tasso di ragguaglio tra pene pecuniarie e detentive in ragione di 250 euro, o frazione di 250 euro, per un giorno di pena detentiva, anziché il diverso tasso, previsto dall’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, di 75 € per un giorno di pena detentiva, aumentabili fino al triplo tenuto conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare.”.

La Corte costituzionale ha valutato le questioni sottoposte alla sua attenzione come inammissibili, perché viziate da aberratio ictus: il giudice rimettente, infatti, da un lato ha censurato una norma (l’art. 135 c.p.) che opera in una pluralità di ipotesi “del tutto distinte rispetto alla sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria”, mentre dall’altro lato non ha censurato proprio la disposizione di cui all’art. 53 della l. n. 689/1981, che detta lo speciale criterio di ragguaglio applicabile nel caso concreto. Di qui, appunto, l’inammissibilità (cfr. punto 2.2 del ‘considerato in diritto’).
La Consulta, però, sottolinea che “il problema che fa da sfondo alle questioni sollevate è, invero, reale” (punto 2.1 del ‘considerato in diritto’).
Nel tempo – afferma il giudice delle leggi – il tasso di ragguaglio fissato dall’art. 135 c.p. per la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria è passato da 38 a 250 €, a seguito della l. n. 94/2009 (intitolata “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”). Come si legge nell’ultima parte del punto 2.2 del ‘considerato in diritto’, “ciò ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria, che pure era stata concepita dal legislatore del 1981 – in piena sintonia con la logica dell’art. 27, terzo comma, Cost. – come prezioso strumento destinato a evitare a chi sia stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce. Con il conseguente rischio di trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti: ciò che appare di problematica compatibilità con l’art. 3, secondo comma, Cost., il cui centrale rilievo nella commisurazione della pena pecuniaria è stato da tempo sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 131 del 1979).”.
Quanto appena esposto è quel che spinge la Corte a rivolgere un monito al legislatore, formulando l’auspicio che questi intervenga “a porre rimedio alle incongruenze evidenziate […], nel quadro di un complessivo intervento – la cui stringente opportunità è stata anche di recente segnalata (sentenza n. 279 del 2019) – volto a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale. E ciò nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei.”