La Corte EDU afferma la responsabilità dello Stato in base all’art. 6, para. 1, della Convenzione per aver dato effetto ad un lodo arbitrale pronunciato da un tribunale arbitrale con il concorso di un arbitro non indipendente (2/2021)

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Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione Prima), sentenza 20 maggio 2021, Caso No. 5312/11, BEG S.p.A. c. Italia

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 20 maggio 2021 afferma la responsabilità dello Stato per violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per aver dato effetto ad un lodo arbitrale pronunciato con il concorso di un arbitro privo della necessaria indipendenza. Il diritto ad un equo processo non è invocabile unicamente davanti all’autorità giurisdizionale dello Stato, ma anche in giudizi arbitrali, che presuppongono la rinuncia alla giustizia ordinaria. Il fatto che uno degli arbitri avesse rivestito importanti cariche nella società controllante una delle parti dell’arbitrato e l’avesse assistita in un procedimento giudiziario determina la mancanza d’indipendenza e la responsabilità dello Stato per aver dato effetto al lodo arbitrale. 

 

Con sentenza del 20 maggio 2021 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (“Corte”) ha sanzionato l’Italia per violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (“Convenzione” o “CEDU”) in relazione alla mancanza della necessaria imparzialità di uno dei membri di un tribunale arbitrale, condannandola al risarcimento dei danni nei confronti della parte attrice nel procedimento arbitrale. Il ricorso era fondato sui rapporti professionali dell’arbitro in questione con una delle parti in causa, non rivelati al momento dell’accettazione dell’incarico. Convenuta nell’arbitrato era infatti EnelPower S.p.A., società controllata da Enel S.p.A., di cui l’illustre giurista era stato vicepresidente e membro del Consiglio di amministrazione.

La vicenda trae origine da un procedimento arbitrale amministrato dalla Camera arbitrale di Roma, che aveva dato origine a diversi procedimenti giudiziari: i) la ricusazione dell’arbitro, dichiarata inammissibile in quanto tardiva dal Presidente del Tribunale di Roma; ii) un’azione per danni della parte attrice nell’arbitrato nei confronti della Camera arbitrale di Roma, rigettata dallo stesso Tribunale di Roma, che non ha ravvisato un comportamento negligente dell’istituzione arbitrale; iii) l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, rigettata dalla Corte d’appello di Roma con decisione confermata dalla Corte di Cassazione, che non ha ritenuto provato il difetto di imparzialità dell’arbitro; iv) il giudizio di exequatur del lodo; e v) un giudizio penale nei confronti degli arbitri in relazione alla loro condotta nel procedimento arbitrale, risoltosi con l’archiviazione.

La Corte ha confermato la propria competenza ratione personae (peraltro non contestata) in quanto i fatti invocati coinvolgevano la responsabilità dello Stato italiano. Come dimostrato dai diversi procedimenti giudiziari che ne erano derivati, la convenzione arbitrale all’origine del procedimento e il regolamento da essa richiamato non escludevano (né avrebbero potuto escludere) infatti l’intervento delle corti nazionali in sede di impugnazione o esecuzione del lodo, o per esaminare eventuali atti od omissioni della Camera arbitrale.

La Corte ha poi rigettato diverse eccezioni d’inammissibilità del ricorso. In primo luogo, essa ha disatteso l’argomento che il ricorso avesse natura abusiva in base all’articolo 44 (d) del Regolamento della Corte[[i]]. Da un lato, essa non ha ritenuto le espressioni polemiche usate dal ricorrente tali da eccedere i limiti della critica legittima alla condotta dello Stato. Dall’altro, l’aver omesso di informare la stessa Corte circa l’introduzione del giudizio nei confronti della Camera arbitrale non costituiva omissione intenzionale ed abusiva. In secondo luogo, la Corte non ha ritenuto il ricorso tardivo con riferimento al termine di sei mesi decorrenti dalla data della decisione interna definitiva (articolo 35, paragrafo 1, della Convenzione)[[ii]], individuando il dies a quo nella data della sentenza della Corte di Cassazione che aveva posto fine al giudizio sulla validità del lodo, indipendentemente dalla data della conclusione degli altri procedimenti. In terzo luogo, l’obiezione d’inammissibilità del ricorso per mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni, avanzata dallo Stato con riferimento ad una delle circostanze invocate dal ricorrente, è stata rigettata in quanto sollevata tardivamente.

Sul merito, la Corte ha confermato il proprio precedente orientamento secondo cui il diritto ad un processo equo, tutelato dall’articolo 6, paragrafo 1, della CEDU, non è soddisfatto unicamente dalla possibilità di accesso ad una corte di tipo tradizionale ed è pienamente compatibile con il diritto di deferire controversie ad un tribunale arbitrale[[iii]]. La rinuncia alla giurisdizione nazionale, tuttavia, per essere efficace, presuppone l’imparzialità e l’indipendenza dell’organo arbitrale non solo da ogni potere pubblico, ma anche dalle parti in causa. La Corte ha sottolineato l’esistenza di un criterio oggettivo di imparzialità, affine a quello di indipendenza, consistente nel verificare se, al di là del comportamento concreto del giudicante, esistano “ascertainable facts which may raise doubts as to his impartiality”.

Applicando tale criterio ai fatti del caso, la Corte ha escluso che le parti della convenzione arbitrale avessero rinunciato al diritto al giudizio di un organo indipendente e imparziale. Tale rinuncia non potrebbe infatti desumersi dalla mancata reazione all’accettazione dell’incarico da parte dell’arbitro, che non aveva rivelato circostanze rilevanti ai fini della propria indipendenza e imparzialità: in assenza di un obbligo di confermare espressamente l’assenza di tali circostanze, le parti potevano legittimamente confidare che il silenzio degli arbitri dipendesse dall’assenza di circostanze degne di rivelazione.

Parimenti rigettato, e francamente sorprendente, è l’argomento dello Stato che il ricorrente fosse presumibilmente al corrente dei legami professionali dell’arbitro con la controparte in arbitrato: in assenza di prove al riguardo, una tale conoscenza non potrebbe presumersi ed implicare una rinuncia al diritto di essere giudicati da arbitri indipendenti ed imparziali.

Infine, la Corte ha ritenuto che non potesse considerarsi rinuncia ad un giudizio imparziale da parte di un organo indipendente la mancata tempestiva ricusazione dell’arbitro nel giudizio arbitrale: nel giudizio sulla validità del lodo, la Corte di Cassazione aveva infatti ritenuto tempestiva la ricusazione, rigettandola nel merito.

Esclusa l’esistenza di prove circa un comportamento non imparziale dell’arbitro in questione, il nocciolo del ragionamento della Corte riguarda la sua oggettiva indipendenza agli occhi delle parti. Il ragionamento della Corte è coerente con la moderna prassi internazionale, quale rispecchiata, per esempio, nelle Linee guida dell’International Bar Association sui conflitti di interesse nell’arbitrato internazionale[[iv]]. Non solo il rapporto di controllo totalitario tra Enel ed EnelPower, ma anche il diretto intervento di Enel nelle trattative del contratto oggetto della controversia e l’importanza dell’operazione economica rendevano le cariche dell’arbitro in Enel incompatibili con il ruolo di arbitro. Ugualmente problematica è stata ritenuta la rappresentanza di Enel da parte dell’arbitro in un procedimento giudiziario contemporaneo al giudizio arbitrale, soprattutto alla luce del fatto che al momento dell’introduzione di tale procedimento, EnelPower, successivamente costituita come società autonoma, era ancora una mera divisione interna della stessa Enel.

Particolarmente interessante è il riferimento della Corte all’evoluzione del diritto italiano dell’arbitrato, che ha portato all’adozione, con la riforma del 2006, di criteri di ricusazione degli arbitri più rigorosi di quelli previgenti. Benché l’articolo 815 del Codice di procedura civile riformato non fosse applicabile ratione temporis al giudizio di ricusazione introdotto dal ricorrente davanti al Tribunale di Roma, che era quindi basato sul generico criterio dell’assenza di “interesse nella causa” di cui all’articolo 51 del Codice di procedura civile (richiamato dall’articolo 815 del codice in vigore fino al 2006)[[v]], la circostanza è vista dalla Corte come una chiara indicazione di una tendenza rigoristica dello stesso ordinamento italiano, tale da far ipotizzare alla Corte che, se giudicata in base alla nuova normativa, la ricusazione avrebbe potuto avere esito diverso. Al di là delle circostanze del caso in esame, quindi, la Corte sembra affermare un generale obbligo degli Stati di attenersi a standards di indipendenza degli arbitri accettati a livello internazionale, anche se non riconosciuti dal diritto nazionale applicabile all’arbitrato.

Pur avendo riconosciuto l’esistenza di una violazione dell’Articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, la Corte ha affermato di non potere  ordinare allo Stato la riapertura del procedimento arbitrale come  richiesto dal ricorrente, essendo l’individuazione delle misure più appropriate per dare effetto alle sue sentenze rimessa agli stessi Stati e vista l’importanza dei principi di certezza giuridica e res judicata[[vi]]. La Corte ha anche rigettato la domanda di danni fondata sul nesso causale tra la violazione della Convenzione e l’esito del giudizio arbitrale, non ritenendo accertato tale nesso. Essa si è limitata a riconoscere al ricorrente una modesta somma (EUR 15,000) a titolo di “non-pecuniary damages” e una esigua porzione delle spese sostenute dal ricorrente nei diversi procedimenti nazionali menzionati in precedenza.

 

[i] Articolo 44 (d) del Regolamento della Corte (“Osservazioni fuori luogo formulate da una parte”): “Se il rappresentante di una parte formula osservazioni abusive, frivole, vessatorie, fuorvianti o prolisse, il presidente della camera può escluderlo dalla procedura, rifiutare di ammettere in tutto o in parte le osservazioni in questione o emettere qualsiasi altra ordinanza che ritenga appropriata, fatto salvo l’articolo 35 § 3 della Convenzione”.

[ii] Articolo 35(1) della Convenzione: “La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva”.

[iii] Suda v. the Czech Republic, Caso No. 1643/06, 28 ottobre 2010, paragrafo 48; Tabbane v. Switzerland, Caso No. 41069/12, 1 marzo 2016, paragrafo 25.

[iv] V. IBA Guidelines on Conflict of Interest in International Arbitration. Per la versione attualmente in vigore, del 2014, v.: https://www.ibanet.org/MediaHandler?id=e2fe5e72-eb14-4bba-b10d-d33dafee8918.

[v] L’articolo 815, primo comma, del Codice di procedura civile in vigore prima della riforma del 2006 prevedeva: “La parte può ricusare l’arbitro che essa non ha nominato per i motivi indicati nell’articolo 51”. L’articolo 51, primo coma, prevede i seguenti motivi di astensione dei giudici: “1) se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto; 2) se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori; 3) se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave  inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei  suoi difensori; 4) se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico; 5) se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa”.

[vi] Bochan v. Ukraine (No. 2), Caso No. 22251/08, 11 marzo 2015, paragrafo 57.