Parità di genere e sistema elettorale dei piccoli Comuni: la Corte conferma la possibilità di tutelare diritti fondamentali con soluzioni non “a rime obbligate”, ma costituzionalmente adeguate e coerenti con il tessuto normativo preesistente (2/2022)

Stampa

Sent. n. 62/2022 – giudizio di costituzionalità in via incidentale

Deposito del 10/03/2022 – Pubblicazione in G. U. 16/03/2022 n. 11

 

Motivi della segnalazione
La sentenza della Corte costituzionale risolve, con una decisione di accoglimento, questioni sollevate dal Consiglio di Stato aventi ad oggetto gli artt. 71, comma 3-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 51, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).


Si tratta di disposizioni concernenti la promozione della parità di genere in ordine ai procedimenti elettorali comunali, censurate dal giudice a quo, in un caso, «nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti» e, nell’altro, «nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista” […] le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti».
La Corte perviene a dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli, nella parte in cui non prevede l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, per contrasto con l’art. 51, comma 1, Cost. e con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2, Cost.). A differenza che per i Comuni di maggiori dimensioni, per quelli con meno di 5.000 abitanti non sono previste misure specifiche, quali la doppia preferenza di genere o la quota di lista, così che per tali Comuni l’unica norma di promozione del riequilibrio risulta essere quella generale, secondo cui «[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi» (art. 71, comma 3-bis, primo periodo, t.u. enti locali, introdotto nel 2012), senza che però a presidio di tale obbligo sia prevista alcuna sanzione, a differenza di quanto stabilito per gli altri due meccanismi di promozione della parità di accesso alle cariche applicati in relazione ai Comuni con popolazione tra i 5.000 e i 15.000 abitanti.
Ciò è considerato dalla Corte, che pur riconosce l’ampia discrezionalità di cui in materia elettorale gode il legislatore, abilitato tra l’altro a graduare i vincoli finalizzati alla parità di genere in considerazione anche delle dimensioni dei Comuni, irragionevole e in contrasto con l’obbligo di «promuove[re] attraverso appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», al fine di garantire a tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso la possibilità di accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza (art. 51, primo comma, Cost.).
La Corte ammette che la soluzione richiesta dal giudice rimettente per porre rimedio al vulnus costituzionale, cioè l’estensione ai Comuni con meno di 5.000 abitanti l’esclusione della lista dalla competizione elettorale, prevista per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti non può dirsi costituzionalmente obbligata, considerata la varietà dei mezzi a disposizione del legislatore per promuovere la parità di genere e, in particolare, per sanzionare la violazione degli obblighi posti a tale fine. La Corte ricorda però, richiamando testualmente le sentt. nn. 63/2021 e 28/2022, che, a fronte di ciò, «soccorre la ormai copiosa giurisprudenza di questa Corte secondo cui, di fronte alla violazione di diritti fondamentali […] non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate”», essendo sufficiente la «presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore” […] e dovendosi aggiungere che «onde non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento, la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso “precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti” […]».
Alla luce di ciò, nel dichiarare l’incostituzionalità delle disposizioni nei termini più sopra richiamati (mentre è dichiarata assorbita la questione sollevata in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 14 della CEDU), la Corte ritiene costituzionalmente adeguata la soluzione indicata dal rimettente, affermando che «per un verso, la sanzione dell’esclusione della lista in caso di violazione delle condizioni prescritte dalla legge per la sua ammissibilità è già presente nella normativa in esame» e «per altro verso, da un punto di vista più generale, la soluzione prospettata si inserisce nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore: essa non altera il complessivo sistema delle misure di promozione delineato dalla legge n. 215 del 2012, che conserva comunque il carattere di gradualità in ragione della dimensione dei comuni», ferma restando la possibilità per il legislatore di individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione, purché rispettosa dei principi costituzionali».