Editoriale 1/2014

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Nell'ambito del dibattito sulle riforme costituzionali ogni tanto fa capolino il tema della riforma dei regolamenti parlamentari. Non si tratta affatto di un tema eterogeneo rispetto a quello delle riforme, posto che, come ormai è consapevolezza comune, la funzionalità del cuore della forma di Governo, ossia i rapporti tra Parlamento ed Esecutivo, riposa in larga misura proprio sulle norma che disciplinano la vita interna delle assemblee elettive. Non deve, dunque, destare alcuna meraviglia che il tema abbia trovato spazio nella relazione lavori del "gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali", costituito dal Presidente della Repubblica e nella relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali, istituita dal Governo Letta. Oggi i frutti di questo dibattito sono rifluiti, sia pur molto parzialmente, nello schema di riforma del regolamento della Camera dei deputati assunto come base per la successiva discussione dalla Giunta per il regolamento nella seduta dell'8 gennaio. Non si tratta affatto di un novella di scarso rilievo, ma al contrario di una novella che, in certi casi, tocca alcuni dei nodi principali dell'attività parlamentare: dal procedimento legislativo, alla funzione di indirizzo e controllo, dallo statuto delle opposizioni ai raccordi con l'UE. Vale, dunque, la pena di richiamarne i punti più qualificanti, rinviando alla lettura dei saggi pubblicati in questo numero per un'analisi e una valutazione più dettagliata.

Quanto al procedimento legislativo, oltre alla codificazione di alcune prassi già consolidate, le novità si registrano su quattro piani. Innanzitutto, su quello dell'allargamento dei canali di comunicazione tra Camera e società civile, nel corso dell'iter legislativo, sia attraverso un allargamento del novero dei soggetti che possono partecipare alle audizioni formali, sia attraverso una nuova disciplina, più garantista, dell'istituto dell'iniziativa popolare (presa in considerazione da parte della Commissione entro due mesi, previa eventuale audizione di un rappresentante dei promotori e sulla base di una proposta formulata da un apposito comitato permanente; esame entro due mesi delle proposte ammesse e loro calendarizzazione per i lavori dell'Assemblea). In secondo luogo, si prevede di porre un argine alla prassi dei maxiemendamenti, introducendo la regola della irricevibilità in Aula e in Commissione di emendamenti interamente sostitutivi di un articolo e contestualmente sostitutivi di altri o in ogni caso volti ad introdurre una pluralità di modifiche prive di una "evidente consequenzialità logico-normativa". Si tratta forse della novità più significativa dell'intero "pacchetto" di riforme, posto che tocca una delle deformazioni più rilevanti che ha subito in questi anni il procedimento legislativo. Ma non meno significative sono anche le modifiche tese a rafforzare il ruolo delle Commissioni in sede di esercizio della funzione legislativa, un ruolo che negli ultimi anni è stato progressivamente spinto sullo sfondo dal prevalere della tendenza a valorizzare l'Aula quale sede nella quale riesce più agevole al Governo guidare la sua maggioranza. Se a tutto quanto ora detto si aggiungono le modifiche volte a rafforzare le garanzie a favore delle opposizioni (ad esempio in sede di calcolo del contingentamento dei tempi), nonché quelle relative al Comitato per la legislazione (per la verità non molto significative) apparirà chiaro il tentativo di rivitalizzare il procedimento legislativo ordinario, che da tempo era segnalato come il malato più grave degli istituti parlamentari.

Quanto ai poteri di indirizzo e controllo, si va da un significativo potenziamento delle indagini conoscitive (anche qui puntando a valorizzare il ruolo delle opposizioni), alla tipizzazione della funzione, svolta dalle Commissioni, di monitoraggio delle politiche pubbliche nelle materie di loro competenza, all'unificazione del regime delle interrogazioni, al potenziamento dei pareri delle Commissioni in ordine alle nomine governative. Resta ancora largamente scoperto il settore del controllo in materia di finanza pubblica, al quale avrebbe dovuto essere riservata invece una particolare attenzione posto che l'art. 5, c. 4, della legge cost. n. 1/2012 affida espressamente alle Camere questo tipo di controllo che presenta caratteristiche diverse rispetto al passato.

Quanto, infine, alle procedure di raccordo con l'Unione Europea, una cui rivisitazione è resa necessaria non solo dalle novità che al riguardo contiene il Trattato di Lisbona, ma anche dell'avvenuta approvazione della legge n. 234/2012, che è in buona parte attuativa del Protocollo sul ruolo dei Parlamenti nazionali, si tratta della parte dello schema di riforma che presenta forse più ombre che luci. Se da un lato, infatti, si procede alla codificazione, con qualche lieve modifica, delle procedure avviate alla Camera in via sperimentale in tema di esame degli atti e dei documenti trasmessi dal Governo e dalle istituzioni europee al Parlamento, in tema di riserva parlamentare, in tema di esame dei documenti di programmazione interni e dell'UE, in tema di controllo di sussidiarietà, risultano quasi del tutto trascurati altri aspetti importanti come quello del c.d. "dialogo politico", dei rapporti con i Consigli regionali e tutto il versante della cooperazione interparlamentare. In sintesi, se non tutto quanto contenuto nello schema di riforma appare del tutto convincente, se le lacune non mancano, come viene sottolineato nei saggi che seguono (si pensi oltre a quelle già segnalate, la mancata riforma della disciplina dei gruppi, dell'articolazione delle commissioni permanenti, e così via), a me pare che complessivamente questo tentativo costituisca, dopo un periodo di inerzia durato troppo a lungo, una significativa reazione della camera a prassi che spesso ne hanno marginalizzato il ruolo. Un tentativo equilibrato, il cui successo dipenderà molto, come sottolinea Nicola Lupo nella sua nota introduttiva, dall'attenuarsi delle forti "spinte alla decisione" dovute ad un assetto ancora incerto della nostra rappresentanza politica. Un tentativo, in ogni caso, che merita di essere seguito con attenzione ora che è entrato nella sua fase decisiva in seno alla Giunta.

2. Accanto agli interventi dedicati alla riforma del regolamento della Camera dei deputati si pubblicano nell'apposita sezione quattro interessanti saggi, uno dei quali si collega direttamente ad uno dei temi toccati nello schema di riforma del regolamento della Camera, ossia quello delle procedure di raccordo con l'Unione europea. Esso è, infatti, dedicato ad un'analisi della già richiamata legge n. 234/2012 recante "Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea". Si tratta di una legge di cui sono già state analizzate in altra sede pregi e difetti (mi permetto di segnalare il mio "La legge n. 234/2012 che disciplina la partecipazione italiana alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea: un traguardo o ancora una tappa intermedia?", in Le Regioni, 2012, pp. 840 ss.), ma che l'Autore (Davide Paris) esamina dal punto di vista della sua prima applicazione, avvenuta con l'approvazione delle leggi nn. 96/2013 (legge di delegazione europea 2013) e n. 97/2013 (legge europea 2013). Nel complesso, la verifica operata in sede di prima applicazione, conferma quanto la legge n. 234 lasciava intendere a prima lettura. Lo sdoppiamento della legge comunitaria in due distinti provvedimenti legislativi ha rivelato in modo chiaro che la vera finalità della legge è stata quella di accelerare la fase di attuazione della normativa dell'Unione (pressoché interamente concentrata nella legge di delegazione europea) e affidata interamente all'istituto della delega (con una sorta di un ritorno al passato). A fronte di questa scelta (che in termini di tempestività dell'intervento attuativo ha avuto successo) c'è peraltro da segnalare una particolare attenzione riservata dalla legge n. 234 alla fase ascendente della formazione del diritto dell'Unione, quasi ad intendere che è soprattutto su questo piano che si gioca il ruolo dei Parlamenti nazionali nell'ambito dei processi decisionali che fanno capo alle istituzioni dell'Unione.

Il secondo saggio di Andrea Simoncini ci offre una valutazione articolata e critica di quella parte della Relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali dedicata al sistema delle fonti. E' quella parte che è ricompresa nel titolo sul procedimento legislativo e che inevitabilmente risente delle ipotesi avanzate in punto di riforma della forma di governo e della nostra formula bicamerale. Ciò rileva innanzitutto sul piano della nuova tipologia della legge ( nella quale si segnala la novità della previsione delle leggi organiche, accanto alle leggi bicamerali e alle leggi monocamerali ) e su quello della disciplina della decretazione d'urgenza ( soprattutto nel tentativo di contenerne l'abuso attraverso la previsione dell'istituto del "voto a data fissa" sui provvedimenti che il governo ritenga prioritari ). Accanto ad alcuni aspetti positivi e condivisibili delle proposte avanzate, Simoncini mette in luce anche alcuni profili discutibili tra i quali soprattutto quello di aver sostanzialmente tenuto fermo il criterio "materiale" nella disciplina delle fonti, anziché un criterio "funzionale" e di aver concentrato l'attenzione solo su alcune fonti, trascurando ad esempio tutto il versante della normazione secondaria.

Il terzo saggio, quello di Anna Alberti, torna su un tema assai dibattuto come quello della natura della legge di conversione di un decreto legge. Più in particolare, il saggio prende spunto dalla sentenza n. 237/2013 della Corte costituzionale, che, come è noto, ha posto un limite di omogeneità rispetto al contenuto del decreto di eventuali emendamenti approvati in sede di conversione nel senso che questi ultimi "non possono alterare l'omogeneità complessiva dell'atto normativo rispetto all'oggetto o allo scopo". Di qui una serie di interrogativi che l'Autrice si pone in ordine alla portata di questo limite: da riferire all'intera legge di conversione o a singole sue disposizioni? E come si misura il grado di omogeneità? Tutti interrogativi che ci riportano al tema della natura della legge di conversione e della sua capacità di innovazione normativa. Muovendo dall'assunto che la legge di conversione non sia distinguibile da questo punto di vista dalle altre leggi parlamentari, il saggio si conclude proponendo un significato del requisito dell'omogeneità, da intendersi come "omogeneità minima" che, dunque, non vieterebbe l'introduzione di disposizioni di contenuto eterogeneo, purché appunto non tali da ledere l'omogeneità complessiva del decreto.

Infine, il quarto saggio di Laura Buffoni, muove dalla lettura dell'interessante saggio di Roberto Bin, A discrezione del giudice. Ordine e disordine. Una prospettiva quantistica, FrancoAngeli, 2013. In sintesi, la tesi "fisicalista" di Bin è che lo studio del diritto dovrebbe assumere quali parametri metodologici quelli utilizzati dalle scienze naturali e in particolare dalla fisica quantistica. Un tesi volta ad impostare su basi diverse la teoria dell'interpretazione soprattutto al fine di porre un freno all'eccessiva discrezionalità del giudice. Ebbene l'Autrice conduce un serrato ragionamento volto se non a confutare, certamente a sollevare una serie di dubbi sulla tesi espressa da Bin. E ciò a partire soprattutto da due considerazioni. In primo luogo, dalla constatazione che la fisica quantistica non rappresenta affatto l'ultima frontiera della fisica e che, dunque, mal si presta ad essere assunta come modello (dal punto di vista metodologico). In secondo luogo, e soprattutto, dalla considerazione che nei loro più recenti sviluppi anche le scienze naturali tendono a configurarsi sempre più come pratiche sociali, guidate da regole, sì che alla logica pura si va sostituendo la ragionevolezza delle decisioni scientifiche in condizioni di incertezza. Se questo è vero, o almeno in parte vero, conclude l'Autrice, si potrebbe ritenere che il rapporto tra scienze naturali, la fisica in particolare, e il diritto potrebbe essere descritto in termini opposti rispetto a quelli ipotizzati da Bin, nel senso che dal diritto sarebbero desumibili elementi per costruire un modello analogico, in chiave euristica, da sovrapporre alle scienze naturali, come dimostrato dalla valorizzazione della dimensione argomentativa e giustificativa propria del diritto nei procedimenti decisionali scientifici. Si tratta di un saggio di grande interesse, ma che, per essere davvero apprezzato, richiede nel lettore qualche rudimento in tema di fisica newtoniana, dei quanti e delle "stringhe". In ogni caso una lettura molto stimolante.