Editoriale 2/2014

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La rubrica "saggi" è dedicata in gran parte ad interventi svolti durante un incontro organizzato, nel maggio scorso, a Firenze da Roberto Zaccaria per discutere e, se possibile, dare un contributo al miglioramento del progetto di riforma costituzionale attualmente in discussione al Senato.

All'incontro, che è stato aperto da una relazione di Ugo De Siervo, hanno partecipato alcuni docenti delle università toscane (Firenze, Pisa e Siena) che, anche in questa occasione, hanno dato testimonianza dell'impegno profuso dai costituzionalisti nelle più diverse sedi scientifiche ed istituzionali per un costruttivo confronto sulla proposta in esame.

L'aspettativa, come più volte ho avuto modo di sottolineare, è quella che si possa portare a termine questa lunga e travagliata stagione di riforme, liberando il nostro Paese da quello stato di "sofferenza" che lo rende sempre più incapace di rispondere, con la necessaria urgenza ed efficienza, alle domande che provengono dal Paese e dall'Europa. Una aspettativa che, naturalmente, ha motivo di essere solo nella prospettiva di raggiungere il migliore dei risultati finali.

Gli interventi pubblicati non tengono conto delle modifiche approvate dalla Commissione affari costituzionali prima del passaggio in Aula del progetto, fermandosi volutamente alla data dell'incontro. E ciò al fine di non vanificare un dibattitto che era stato organizzato proprio nell'intento di dare un qualche apporto critico rispetto a quelle che, a parere degli intervenuti, apparivano le parti meno convincenti e, in questa prospettiva, al fine di lasciare traccia di vedute ed indicazioni che possono mantenere una loro fondatezza e validità anche nel proseguo della discussione.

Quali, invece, gli elementi sicuramente positivi che caratterizzano la proposta governativa.

Come molti hanno sottolineato anche in questa occasione, il suo maggior pregio sta proprio nell'obiettivo di fondo che la caratterizza. L'obiettivo, cioè, di coniugare la ormai indispensabile modifica del nostro sistema bicamerale con l'introduzione di una rappresentanza territoriale che, abbinata ad una consistente riforma del titolo V, permetta di semplificare e rafforzare il sistema delle autonomie locali, migliorando la disciplina adottata nel lontano 2001.

Alla base di ciò vi è il tentativo, sicuramente apprezzabile in uno Stato a forte decentramento quale è il nostro, di recuperare la realtà territoriale all'interno di una delle Camere, restituendo alle sedi vocate alla decisione politica quel ruolo di mediazione e di ricomposizione dei conflitti fra centro e periferia fino ad oggi giocato, non sempre di buon grado, dal giudice costituzionale.

Guardata in questa prospettiva, mi sembra che la soluzione del Governo offra una risposta di gran lunga migliore all'ipotesi, pur autorevolmente sostenuta, ma a mio avviso affatto convincente, di chi ha, invece, ritenuto di accompagnare la modifica del nostro sistema bicamerale con la creazione di un Senato composto da persone elette sulla base di rigorosi requisiti di esperienza, competenza e moralità. Un Senato, dunque, al quale, in un'ottica prettamente garantista, definita con una qualche suggestione "costituzionalistica", sarebbe stato attribuito il compito di bilanciare, con l'autorevolezza dei suoi componenti, le scelte e gli indirizzi espressi da una Camera politica, resa forte – come è probabile – da un sistema di elezione di tipo maggioritario (v. la lettera del 4 maggio 2014, inviata al Presidente della Commissione affari costituzionali da G. Zagrebelsky pubblicata su Astrid on line).

A parte le questioni legate ai meccanismi di selezione di tali soggetti - dai quali sembra difficile escludere quelle stesse forze politiche che essi sarebbero stati chiamati a controllare - restava l'incognita della effettiva capacità di essi di rispondere alle istanze di un organo destinato a svolgere una delicata funzione tecnico-politica. Come tale, bisognoso di competenze e capacità, che potevano risultare non garantite da soggetti lontani dalle logiche che caratterizzano il confronto istituzionale.

L'ipotesi, come sappiamo, non è più in discussione. E, tuttavia, nonostante la condivisa impostazione di fondo che caratterizza la proposta del Governo, non mancano certo ad essa difetti e lacune per la sua corretta realizzazione; difetti e lacune che, anche in questa sede, sono stati ampiamente evidenziati, nell'auspicio di un confronto che rimanga ancora aperto e nella prospettiva del lungo cammino che il progetto deve percorrere prima della sua approvazione finale.

Vero è che, rispetto alla data del nostro incontro, molti sono i miglioramenti operati dalla Commissione affari costituzionali sulla proposta in discussione. La quale mostra oggi indubbie novità a fronte della sua formulazione iniziale: una più marcata sensibilizzazione verso il rafforzamento degli istituti di garanzia e una positiva riconsiderazione di quelle che erano apparse le scelte più discusse e criticate.

Così, da un lato, la prevista riserva ai regolamenti delle Camere di una disciplina che assicuri i diritti delle minoranze parlamentari (art. 64, secondo comma); un significativo rafforzamento degli istituti di democrazia diretta (artt. 71, terzo comma, ed art. 75); la nuova previsione di un preventivo ricorso alla Corte costituzionale circa la legittimità delle leggi elettorali di Camera e Senato (art. 73, secondo comma); una più ampia disciplina del potere di rinvio presidenziale (art. 74, primo e secondo comma) ed, infine, ma non ultima, la indicazione di nuove maggioranze per l'elezione del Capo dello Stato (art. 84, secondo comma).

Dall'altro, una parziale riscrittura, rispetto al progetto iniziale, degli artt. 116 e 117, ma soprattutto una consistente rivisitazione della composizione e delle funzioni attribuite al Senato (che, significativamente, riassume la sua denominazione costituzionale). Senato che si vede potenziato sia quanto al concorso alla funzione legislativa, attraverso l'aumento delle leggi bicamerali (art.70, primo comma), sia quanto all'esercizio dell'attività di controllo.

Il nuovo art. 55 prevede, infatti, che spetti al Senato "(valutare) l'attività delle pubbliche amministrazioni, (verificare) l'attuazione delle leggi dello Stato, (controllare) e (valutare) le politiche pubbliche, (concorrere) ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo" (art.55, terzo comma). Infine "(disporre) inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali" (art. 82, secondo comma).

Ma, soprattutto, molte le modifiche che riguardano la composizione della seconda Camera, sulle quali mi preme qui soffermarmi.

Nonostante, infatti, le novità introdotte, non sono pochi i profili ancor oggi in discussione i quali, dopo il passaggio in Aula del progetto, sono probabilmente destinati ad un ulteriore confronto nel corso del futuro iter parlamentare.

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Obiettivamente criticabile il dato di partenza rappresentato dalla originaria previsione di un Senato composto oltre che da 21 senatori eletti (eventualmente) dal Capo dello Stato, da 122 membri: 21 presidenti di regione e delle province autonome, 21 sindaci delle città capoluogo di regione e di provincia autonoma, 40 consiglieri regionali eletti dai rispettivi consigli e 40 sindaci eletti in ciascuna regione da un collegio elettorale costituito dai sindaci della regione medesima. Entrambi, consiglieri regionali e sindaci, designati con voto limitato a garanzia della rappresentanza delle minoranze (art.2).

Da accogliersi con ovvio favore, quindi, le modifiche apportate dalla Commissione affari costituzionali la quale ha tenuto conto delle critiche che, anche in questa sede, sono state rivolte alla proposta iniziale: la composizione, irragionevolmente paritaria, dei sindaci e dei rappresentati regionali oltre che l'uguale peso, in termini di seggi, attribuito, ancora una volta irragionevolmente, a tutte le regioni, indipendentemente dalla loro dimensione e popolazione. Infine, la previsione di 21 senatori nominati, per i loro meriti, dal Capo dello Stato, il cui elevato numero, a tacer d'altro, avrebbe potuto alterare, ancora una volta in modo irragionevole, le maggioranze politiche presenti in Senato (Cheli).

L'attuale progetto prevede ora un Senato dove appaiono decisamente ridotti i senatori di nomina presidenziale (da 21 a 5) e dove gli altri componenti (diminuiti a 95) sono eletti dai consigli regionali e dai consigli delle province autonome di Trento e Bolzano in parte fra i propri membri, in numero che varierebbe da regione a regione a seconda della popolazione (con l'eccezione delle Province autonome di Trento e Bolzano alle quali spetterebbero due senatori per ciascuna) e in parte tra i sindaci della regione e delle province autonome , nella misura di uno per ciascuno.

Scompaiono i membri di diritto: i presidenti di regione e delle province autonome e i sindaci dei comuni capoluogo delle regioni e delle province autonome.

Non vi è dubbio che la eliminazione dei membri di diritto costituisca, già di per sé, un buon risultato.

E' questo un punto sul quale si sono criticamente soffermati molti di coloro che sono intervenuti a questo seminario.

L'idea, infatti, che soggetti istituzionali, già così impegnati nell'amministrazione locale, potessero svolgere contemporaneamente funzioni tanto gravose e delicate ha suscitato non poche perplessità. E ciò a fronte del pericolo, non così peregrino, di inevitabili "assenze" o solo di fatali "distrazioni" che avrebbero potuto pregiudicare l'autorevolezza di un organo chiamato, con la Camera, all'adempimento, di funzioni sovrane (Cheli, De Siervo).

Si potrebbe se mai pensare, per non perdere l' indiscutibile apporto fornito da tali soggetti, di prevedere (in Costituzione o nel regolamento del Senato) la loro obbligatoria presenza tutte le volte che vengano in discussione temi di particolare rilievo, ovvero di prevedere la loro audizione tutte le volte che essi lo ritengano necessario, senza obbligarli ad un impegno continuato.

I "ripensamenti" che, sotto questo profilo, hanno caratterizzato ordinamenti a noi assai vicini, dovrebbero suggerire una maggiore prudenza, evitando, dopo tanto lavoro, di incamminarci in esperienze che potrebbero rivelarsi non adatte alla nostra realtà politica e sociale (mi riferisco naturalmente alla legge organica n. 15 del 2014 approvata in Francia).

Vero è che, anche esclusi i membri di diritto, rimane l'opzione di fondo che, come già detto, prevede, anche nella sua versione aggiornata, che l'elezione dei senatori avvenga da parte dei consigli regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano in parte scegliendo tra i propri membri e in parte tra i sindaci della regione e delle province autonome.

Le considerazione appena fatte valgono naturalmente anche per tale componente che, questa volta, rappresenterebbe la parte più consistente dei membri del Senato.

Senza mettere in discussione l'opzione manifestata dal Governo (e a tutt'oggi ampiamente contrastata) di una elezione indiretta dei membri del Senato che, a mio avviso, meglio risponde alle logiche istituzionali di un organo escluso dal rapporto di fiducia e dal relativo controllo sul Governo, rimane discutibile la scelta di eleggere i componenti della seconda camera all' "interno" e non all' "esterno" dei consigli regionali e provinciali.

Devo dire che, nonostante le perplessità che l'ipotesi può suscitare (il timore che una elezione di questo tipo possa favorire una sorta di "candidature di risulta" di soggetti non usciti vincitori dalle elezioni e, non ultima, la non felice esperienza registrata nella sua applicazione in Austria), nonostante tali perplessità, dicevo, mi sembra che i vantaggi potrebbero essere, alla fine, maggiori degli svantaggi. Svantaggi fra i quali, va detto, non può essere certo annoverata la spesa - altrimenti non dovuta - delle indennità dei singoli senatori: spesa che non può essere messa in discussione a fronte della natura e del rilievo delle funzioni assegnate ai membri della seconda Camera.

Milita, invece, a favore di una tale ipotesi l'eliminazione del rischio di possibili contrapposizioni tra "consiglieri semplici" e "consiglieri-senatori", certo foriere di conflitti e fratture fra le due componenti, e il configurarsi di una rappresentanza che, resa più libera dalle strette logiche assembleari, potrebbe svolgere le sue molte funzioni con maggiore credibilità, se non anche autorevolezza.

Ed, infine, ma non ultimo, milita a favore di una tale ipotesi, e vengo all'altro punto che vorrei sottolineare, un più chiaro e meno ambiguo status dei membri del Senato, ancora assai discusso e lontano da una sua definitiva previsione.

Anche su questo punto non sono mancate, come è noto, ampie discussioni.

Assai criticabile, come sottolineato da più parti – e come si è da molti ripetuto anche nel corso di questo seminario - l'iniziale previsione che, da un lato, parificava deputati e senatori, riconoscendo ad entrambi la garanzia del divieto del mandato imperativo, dall'altro, distingueva nettamente le due componenti parlamentari, riservando solo ai primi (e cioè ai deputati) le immunità previste al secondo e terzo comma dell'art. 68 Cost.

Si è così giustamente rilevato come, nonostante le cattive pratiche e l'ovvio disfavore che circonda tali istituti nell'opinione pubblica, essi non possano non assistere organi ugualmente sovrani.

A riguardo, anche nel corso di questo seminario, si è correttamente sottolineato come potesse costituire un vero e proprio errore di "sintassi costituzionale" la mancata parificazione degli status di deputati e senatori, tutti chiamati, pur nella diversità dei ruoli, a svolgere funzioni di indiscusso rilievo costituzionale: l'approvazione di leggi costituzionali e revisione costituzionale, l'elezione e la messa in stato di accusa del Capo dello Stato, l'elezione dei giudici costituzionali( Cheli, De Siervo).

Come sappiamo la formulazione attuale del progetto corregge l'impostazione originaria, riportando l'art. 68 al testo attualmente in vigore.

Non sappiamo se questa scelta rimarrà confermata.

A sentire le dichiarazioni del Presidente del consiglio e del Ministro per le riforme costituzionali, l'ampio dissenso registrato nell'opinione pubblica e in una parte delle forze politiche renderebbe possibile una riconsiderazione del problema.

Vedremo come andranno le cose.

Ci pare, tuttavia, importante sottolineare l'incongruità, secondo l'attuale formulazione, di prerogative che, pur correttamente riconosciute in identico modo ai membri di entrambe le Camere, non risultano poi applicabili, in entrambe, con uguale chiarezza.

Così è, da un lato, per la previsione del divieto di mandato imperativo.

Una previsione che è classicamente (ma non inutilmente) dovuta a chi sia investito di compiti di assoluto rilievo istituzionale, come è per i deputati e senatori, ma che mal si concilia, come è per quest'ultimi, se non con l'astratta attribuzione ad essi della "rappresentanza delle istituzioni territoriali"(art. 55, terzo comma) che con tale principio potrebbe anche non cadere in contraddizione (v. V. Tondi della Mura, Se il Senato delle autonomie non "rappresenta la Nazione", in www. associazioneitalianacostituzionalisti.it), con una elezione che ne mette inesorabilmente in discussione la necessaria unitarietà. E ciò in considerazione di un sistema, quello previsto dal progetto che, sovrapponendo perfettamente la rappresentanza a livello locale e quella nazionale, viene a corrodere in modo definitivo e radicale la valenza generale ed autonoma che il principio necessariamente evoca, rendendone più che mai equivoca (e quindi non credibile) la sua solenne formulazione.

Ed ancora, non minore ambiguità circonda, in un Paese fortemente gravato da fenomeni di corruzione quale è il nostro, la pur legittima previsione di meccanismi autorizzatori, previsti, sì ugualmente, per i membri di entrambe le Camere, ma destinati ad essere applicati non con identica chiarezza, E ciò proprio in ragione della loro applicazione nei confronti di soggetti che, a differenza dei deputati, risultano investiti di doppie funzioni, sia locali che nazionali.

Sembra difficile, infatti, non ipotizzare, alla luce dell'esperienza pregressa, il pericolo che si possa incorrere in valutazioni che, pur riferite a comportamenti eventualmente incorrenti in fattispecie di reato, potrebbero essere esposte, proprio in virtù della molte funzioni svolte e delle conseguenti commistioni tra "pubblico" e "privato", a più facili compromessi e una maggiore ambiguità. Con tutte le conseguenze che ciò potrebbe produrre su una corretta applicazione di tali immunità, ma soprattutto sull'autorevolezza della nuova Camera.

Come dicevo, il dibattito è ancora aperto è l'auspicio è quello che si possa in qualche modo evitare quello che oggi appare "un vero e proprio" pasticcio istituzionale.

Completano la rubrica "Saggi" due interessanti lavori (uno di Nicola Lupo e l'altro di Davide Fiumicelli), dedicati al fenomeno della decretazione d'urgenza. Fenomeno esaminato fin dalle sue più remote applicazioni, con ampi riferimenti, nel saggio di Fiumicelli, all'esperienza, non identica ma ugualmente complessa, dell'ordinamento spagnolo.

Il due lavori (di cui il primo riproduce l'intervento di Nicola Lupo ad un Seminario organizzato l'anno scorso presso la Scuola normale superiore di Pisa dal titolo "La decretazione d'urgenza nella crisi dello Stato liberale (1918-1925)" ed il secondo rappresenta il risultato di una ricerca PRIN coordinata da Francesco Merloni su "Istituzioni democratiche e amministrazioni d'Europa: coesione e innovazione al tempo della crisi economica") ben si attagliano al tema delle riforme. E ciò non solo per l'evidente riferimento ad uno dei profili affrontati dal progetto in discussione (il quale, come sappiamo, cerca di ridefinire e razionalizzare la disciplina del decreto legge), ma anche in considerazione di un'ottica, quella abbracciata da entrambi gli autori, improntata alla necessità di interventi riformatori capaci di restituire non solo al nostro ordinamento, ma all'intero sistema istituzionale la necessaria funzionalità.

Si può, così, condividere il tentativo operato dal Governo di introdurre meccanismi di razionalizzazione della decretazione d'urgenza, ben consci però che fenomeni di tal fatta abbisognano, per essere realmente efficaci, di ben più ampi interventi. Tali cioè – come sottolinea Lupo – da agire per così dire "a monte". Ossia, capaci di investire non solo l'istituto di per sé considerato con le sue irregolarità e disfunzioni, ma più in generale, l'intero processo normativo, adeguando finalmente "i tempi delle istituzioni a quelli della società".