Editoriale n. 3/2016

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filippo donati1. La riforma costituzionale “Renzi – Boschi”, bloccata dal referendum del 4 dicembre, ha profondamente diviso non solo le forze politiche e l’opinione pubblica, ma anche il mondo accademico.
Si trattava di un ampio progetto di riforma approvato dal Parlamento dell’Italia repubblicana. Esclusi pochi settori (la magistratura, l’organizzazione del governo, la pubblica amministrazione, gli organi ausiliari), la sua conferma avrebbe inciso profondamente su tutto il modello istituzionale delineato dalla Parte II della Costituzione.
Il progetto è stato oggetto di valutazioni contrapposte. Da una parte molti hanno considerato la riforma, valutata nel suo complesso, un opportuno passo avanti verso un modello istituzionale più chiaro ed efficiente. Dall’altra parte si è invece ritenuto che essa, per come era scritta, avrebbe finito per introdurre nel sistema elementi di maggiore complicazione e di incoerenza, tali da impedirne il buon funzionamento. A rendere più acceso lo scontro ha senz’altro contribuito la sua forte politicizzazione, innescata proprio dal presidente del Consiglio, che ha collegato la permanenza del governo all’esito del referendum. Ne è risultato un dibattito infuocato, che ha spaccato in due il Paese.

Le critiche mosse al progetto di riforma non riguardano generalmente gli obiettivi perseguiti. Dopo quasi 30 anni di tentativi falliti, permane l’esigenza di modificare il nostro assetto istituzionale per rimettere in moto lo sviluppo del paese. La riforma mirava soprattutto a superare il bicameralismo perfetto e riequilibrare la distribuzione dei poteri tra lo Stato e le Regioni, così superando alcuni evidenti errori compiuti nel 2001. Essa prevedeva, tra l’altro, anche l’abolizione delle Province e del CNEL. Sono obiettivi, questi, su cui si registra un generalizzato consenso. Il dibattito ha peraltro evidenziato alcuni difetti e imperfezioni nella scelta degli strumenti per realizzare tali obiettivi, in particolare con riferimento alla composizione del Senato, all’articolazione del procedimento legislativo e alla concreta determinazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni. Chi valorizzava gli aspetti positivi della riforma, da una parte riteneva che le imperfezioni del testo approvato dal Parlamento avrebbero potuto essere facilmente corrette e, dall’altra, avvertiva il rischio che una bocciatura referendaria potesse portare a una paralisi del processo riformatore. Chi al contrario ha ritenuto prevalenti i difetti della proposta sottoposta a referendum, ha confermato l’esigenza di un aggiustamento del nostro modello costituzionale proponendo a tal fine l’approvazione di una nuova legge di revisione costituzionale che, pur confermando gli obiettivi di quella in discussione, ne correggesse le carenze.
E’ dunque possibile prevedere che il tema della riforma costituzionale sarà destinato, nel medio o lungo termine, a tornare al centro del dibattito.

2.- Il presente numero dell’osservatorio ospita quattro saggi dedicati al tema della riforma.
Il saggio di Ugo de Siervo analizza, con taglio critico, la proposta di revisione costituzionale nella parte che riguarda il procedimento legislativo. L’Autore svolge un’analisi accurata dei diversi procedimenti legislativi prefigurati dalla riforma e mette in luce una serie di problemi applicativi che ne potranno discendere. Secondo l’Autore la riforma avrebbe accentuato i conflitti politici e giurisdizionali, in contrasto con gli obiettivi di semplificazione delle procedure e di riduzione della conflittualità da essa perseguiti.
Il secondo saggio analizza la fisionomia che il Senato avrebbe assunto per effetto della riforma. Lorenzo Spadacini muove dal rilievo che il nuovo art. 57 Cost. avrebbe attribuito al Senato una fisionomia ambigua, oscillante tra quella di una camera territoriale e quella di una camera politica. La definizione del modello di Senato sarebbe dipesa dalla legge bicamerale chiamata a fissare i criteri per l’elezione dei senatori. La riforma (nel nuovo art. 57 Cost.) avrebbe sancito tre criteri non facilmente armonizzabili tra loro: l’elezione consiliare, l’indicazione da parte degli elettori, l’adozione di un meccanismo che, nella distribuzione dei seggi, tenga conto sia dei voti espressi sia della composizione di ciascun consiglio. L’analisi svolta porta l’Autore a concludere che la nuova legge elettorale avrebbe finito per accentuare la natura politica del Senato a scapito di quella rappresentativa della autonomie territoriali.
Il lavoro di Anna Alberti è volto a dimostrare che la riforma costituzionale non avrebbe avuto effetto senza una previa modifica degli statuti delle Regioni speciali. L’Autrice sostiene che gli statuti speciali siano fonti a competenza riservata, in quanto tali resistenti all’abrogazione (espressa o tacita) da parte di una legge costituzionale adottata secondo la procedura dettata dall’art. 138 Cost. Poiché gli statuti vigenti prevedono l’incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di parlamentare, conclude quindi l’Autrice, il nuovo Senato non avrebbe potuto validamente costituirsi senza una previa revisione statutaria diretta a rimuovere questa incompatibilità. Con la conseguenza che ciascuna Regione a statuto speciale avrebbe avuto un decisivo potere di veto sull’operatività della riforma.
L’ultimo saggio, di Marco Armanno, è dedicato alle questioni di costituzionalità della nuova legge elettorale sollevate dai Tribunali di Messina, di Torino e di Perugia. L’Italicum era un elemento importante della complessiva riforma istituzionale, tanto che vari esponenti politici avevano subordinato il voto positivo sul referendum alla riforma del sistema elettorale. In questa prospettiva il partito di maggioranza si è recentemente impegnato a una modifica dell’Italicum. In attesa della (ennesima) riforma del sistema elettorale, tuttavia, una riflessione sulle criticità – reali o apparenti - dell’attuale dettato normativo, come quella condotta da Marco Armanno, è senz’altro di grande utilità. Punto obbligato di riferimento per lo svolgimento di tale analisi sono ovviamente i principi stabiliti dalla Corte costituzionale nella celeberrima sentenza n. 1 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei meccanismi di attribuzione del premio di maggioranza e del sistema del voto di lista previsti della legge n. 270 del 2005. L’analisi svolta dall’Autore è volta a dimostrare che molte delle critiche mosse alla nuova legge elettorale meriterebbero un ripensamento.

3.- Assai spesso gli effetti di una riforma costituzionale dipendono dalla relativa disciplina di attuazione. In questa prospettiva appare senz’altro di interesse il saggio di Luca Bartolucci, che analizza le disposizioni per l’attuazione del principio costituzionale di pareggio di bilancio introdotto dal nuovo art. 81 Cost. Tale legge, che deve essere approvata a maggioranza assoluta, è stata recentemente oggetto di riforma. L’Autore sostiene che la frettolosità e dall’assenza di adeguata istruttoria che hanno caratterizzato l’approvazione della legge n. 243 del 2012 hanno reso necessaria una riforma della stessa, nonostante che l’art. 81 Cost. le abbia attribuito il carattere di legge “rinforzata” e “organica”. Di qui un importante avvertimento circa l’importanza della disciplina di attuazione delle riforme costituzionali, da cui può dipendere il successo o il fallimento delle stesse.

4.- Il dibattito sulla riforma costituzionale non può evidentemente distogliere da altri importanti temi, anch’essi meritevoli di attenzione e di approfondimento. In questa prospettiva i saggi di Laura Buffoni e di Massimo Rubechi analizzano l’argomento, di grande attualità e importanza, relativo alla trasparenza dei lavori parlamentari.
Il primo saggio evidenzia il legame che sussiste tra la pubblicità dei lavori parlamentari e i principi di democrazia e di rappresentanza. In particolare, l’Autrice dimostra che le nuove tecniche rappresentative del Parlamento difficilmente potranno fornire una risposta alla crisi di rappresentatività che investe tale organo nelle democrazie costituzionali di oggi. Il saggio di Massimo Rubechi affronta invece il tema della pubblicità dei lavori delle commissioni parlamentari durante lo svolgimento del procedimento legislativo. Nel corso delle ultime legislature si sono succedute varie proposte di modifica dei regolamenti parlamentari volte a garantire una maggiore trasparenza dei lavori. La richiesta di una maggiore pubblicità dei lavori delle commissioni non tiene però adeguatamente conto della funzione che esse svolgono all’interno del procedimento legislativo. In particolare, osserva l’Autore, una eccessiva pubblicità dei lavori delle commissioni, specialmente dell’attività istruttoria, potrebbe rendere più difficile raggiungere una mediazione fra i diversi interessi politici in gioco. Di qui la conclusione circa la necessità di realizzare un ragionevole bilanciamento tra il principio di trasparenza dei lavori delle commissioni, da una parte, e la salvaguardia del ruolo di mediazione e di ricerca di consenso che le stesse svolgono all’interno del procedimento legislativo, dall’altra parte.

5.- Due saggi affrontano il tema della democrazia partecipativa, da molti considerata una risposta alla crisi della democrazia rappresentativa. La previsione di strumenti partecipativi all’interno dei procedimenti di produzione normativa, infatti, realizza un’apertura dei processi decisionali a soggetti estranei ai circuiti tradizionali e permette l’acquisizione di ulteriori informazioni che, aggiungendosi a quelle dell’apparato istituzionale, favorisce l’adozione di scelte politiche più consapevoli e condivise. In tal modo la democrazia partecipativa svolge una funzione integrativa rispetto al tradizionale circuito della democrazia rappresentativa.
Il saggio di Nicola Pettinari offre una riflessione critica sul ruolo della valutazione e della sperimentazione partecipate nei procedimenti di formazione delle leggi e delle politiche pubbliche. L’Autore presta particolare attenzione agli strumenti di democrazia partecipativa utilizzati a livello locale, dove valutazione e partecipazione hanno trovato una diffusa e concreta sperimentazione. L’Autore rileva tuttavia che, nei regolamenti comunali, mancano adeguati strumenti di valutazione ex post delle decisioni pubbliche, che pure rappresentano un presupposto per rendere effettiva la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche che li riguardano.
Anche il saggio di Alessandra Valastro analizza gli strumenti di democrazia partecipativa utilizzati a livello di governo locale. In effetti, la dimensione comunale appare particolarmente idonea a realizzare forme di democrazia partecipativa, come dimostra la crescente attenzione che i regolamenti comunali dedicano al tema. L’Autrice evidenzia la finalità conoscitivo-collaborativa della partecipazione, e l’idoneità della stessa a migliorare la qualità delle decisioni secondo parametri di giustizia sociale e di inclusione. Il tema della democrazia partecipativa a livello locale viene dunque approfondito attraverso un’interessante analisi della disciplina contenuta nei regolamenti comunali, da cui emergono elementi di forza ma anche elementi di criticità. L’analisi condotta evidenzia un progressivo consolidamento di un modello di governo locale di tipo collaborativo e solidale.

6. I saggi di Monica Rosini e di Francesco Raffaello de Martino si occupano infine delle fonti regionali.
Il primo è dedicato all’analisi dello statuto della Regione Basilicata, l’ultimo statuto ordinario ad essere approvato. L’Autore illustra il contenuto del nuovo statuto, con particolare attenzione alle scelte in tema di forma di governo, di fonti regionali e di istituti partecipativi. Particolare attenzione è dedicata ai problemi di costituzionalità sollevati dal Governo, e di cui la Regione ha tenuto conto mediante la modifica delle disposizioni impugnate.
Il lavori di Francesco Raffaello de Martino analizza invece le funzioni non legislative del consiglio regionale della Campania. L’Autore evidenzia che, attraverso l’esercizio di queste funzioni, il consiglio può riuscire a valorizzare il proprio ruolo di organo rappresentativo della comunità regionale, e svolgere in maniera più efficace le funzioni di indirizzo e di controllo sull’esecutivo.