Editoriale 2/2012

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caretti paolo mod

 1. In questo ultimo scorcio di legislatura si è improvvisamente riacceso il dibattito sulle riforme costituzionali: si è assistito ad una vera e propria eruzione di proposte, qualcuna (ma solo apparentemente) condivisa da una larga maggioranza parlamentare. Quale la ragione di questo singolare fenomeno? A me pare che siano almeno due: da un lato, la costante pressione operata dal Presidente della Repubblica, dall’altro, il tentativo (per ora fallito) delle forze politiche che compongono questa “strana” maggioranza parlamentare di riannodare il filo di un possibile dialogo proprio sul terreno delle riforme.

E in effetti, per quanto impensabile fosse fino a qualche mese fa, a partire dalla nascita del Governo Monti si erano verificate alcune condizioni che avrebbero potuto consentire di affrontare il tema delle riforme (a partire da quella della legge elettorale, ma anche di puntuali riforme costituzionali), essendo state sostanzialmente delegate al Governo le grandi scelte di politica contingente.Si è venuta così a creare una situazione per certi versi non dissimile da quella in cui operò la Costituente, che, proprio grazie all’accettazione di una distinzione tra scelte politiche e scelte costituenti, riuscì, pur in presenza di divisioni non certo minori di quelle che oggi esistono tra le diverse forze politiche, a realizzare il miracolo di approvare la nuova Costituzione repubblicana in circa un anno e mezzo.

 In fondo, alcuni temi si presentavano ormai maturi: il rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio (potere di proporre non solo la nomina, ma anche la revoca dei Ministri), abbassamento dell’età per l’elettorato attivo e passivo, ma soprattutto revisione della nostra formula bicamerale (completando il disegno del nuovo Titolo V, attraverso la creazione di una seconda Camera, rappresentativa del sistema delle autonomie territoriali, con funzioni nettamente distinte da quelle della prima Camera). Ma, fin da subito, le cose hanno preso una piega molto diversa. Si è ancora una volta concentrata l’attenzione sull’intera forma di governo, tentando un trapianto (a mio parere maldestro) del modello tedesco, a premierato forte, (fiducia preventiva al solo Presidente del Consiglio con potere di chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere; potere solo apparentemente bilanciato, se si tiene conto dell’assetto del nostro sistema politico-partitico, dall’introduzione dell’istituto della sfiducia costruttiva). Su questa proposta se ne è poi innestata una di segno opposto, volta al trapianto di un altro modello, quello del semipresidenzialismo alla francese (anche qui con una certe dose di improvvisazione e con un uso disinvolto dei modelli stranieri). Quest’ultima iniziativa ha completamente mutato lo scenario e ci si sta avviando all’ennesimo naufragio di questo ulteriore conato riformatore della nostra classe politica. Da ultimo, una terza proposta di revisione costituzionale è stata avanzata, diretta all’introduzione dell’istituto del referendum propositivo, che dovrebbe avere come prima applicazione (nella prossima legislatura) la scelta tra forma di governo parlamentare e forma di governo presidenziale o semipresidenziale.

Peraltro, il dibattito sulle riforme costituzionali non ha prodotto solo proposte, ma anche una rilevante modifica delle regole che disciplinano le scelte di bilancio (legge cost. n. 1/2012), in particolare con l’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio imposto a tutte le pubbliche amministrazioni. Una modifica (che ha riguardato l’art. 81 e le altre norme costituzionali connesse: artt. 97, 117 e 119) complessa e i cui effetti sono ancora tutti da decifrare, ma che è singolarmente passata a larghissima maggioranza, apparsa da subito più come il frutto di spinte esterne (Unione europea), che non di una meditata scelta della nostra classe politica.

2. All’analisi e alla valutazione di queste proposte è dedicata la prima parte dei saggi pubblicati in questo numero, che reca i contributi di Umberto Allegretti, Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Mario Dogliani e Gianni Ferrara, mentre alla riforma costituzionale dell’art. 81 è dedicato un saggio di Antonio Brancasi. Ci è parso, infatti, essenziale che una rivista tematica che si occupa di fonti del diritto desse il dovuto spazio alla discussione sulle vicende che stanno interessando la Costituzione.

Per parte mia, non volendo riprendere quanto da altri scritto in modo più disteso, mi limito solo a qualche considerazione critica circa il metodo che è stato seguito nella formulazione delle varie proposte in campo. In primo luogo, a me pare che riforme rilevanti del nostro tessuto costituzionale non possano nascere al chiuso di incontri di vertice tra segretari di partito e avviate ad un dibattito parlamentare anch’esso in gran parte criptico, ma debbano essere oggetto di un ampio dibattito pubblico ( ricordo, al riguardo, che alla riforma del Titolo V si è arrivati dopo una fase preparatoria che ha visto l’intervento di tutti i soggetti istituzionali coinvolti, a partire dalle Regioni, le quali predisposero allora una proposta che, soprattutto per quello che riguarda la nuova forma di governo regionale, si ritrova puntualmente nelle disposizioni della riforma dedicate a questo profilo ). Questo modo di procedere denuncia chiaramente l’implicita ammissione di debolezza delle proposte in campo, che appaiono all’esterno solo il tentativo di arrivare, prima della scadenza – ormai prossima – della legislatura, ad un qualche risultato da spendere in campagna elettorale. Ciò sembra del resto trovare conferma nella estemporaneità con cui sulla proposta originaria si è innestata quella semipresidenzialista, cavallo di battaglia da sempre del centro-destra.

In secondo luogo, va sottolineato il perdurante atteggiamento delle forze politiche a considerare come sostanzialmente fungibili ipotesi di riforma che non lo sono affatto: le critiche al semipresidenzialismo non hanno in realtà investito l’ipotesi in sé, ma piuttosto i modi (per via di emendamento) e i tempi (troppo stretti) con cui è stata formalizzata. Un atteggiamento non nuovo ma che aveva già caratterizzato le discussioni svoltesi in seno alla Commissione D’Alema.

Infine, qualcosa va detto circa l’idea, riproposta dal Senatore Pera di risolvere il problema del metodo da seguire per arrivare ad una riforma della Costituzione attraverso l’elezione di una Assemblea costituente. Un’idea che lo stesso Presidente della Repubblica pare avere sorprendentemente non scartato a priori. Dico sorprendentemente perché ad un uomo della sua statura, con una storia politica ed istituzionale che pochi possono vantare, non possono sfuggire i gravi rischi che una simile idea reca con sé. Ove realizzata, essa ci porrebbe subito al di fuori della vigente legalità costituzionale, la quale prevede solo revisioni parziali del testo costituzionale e non (come peraltro hanno previsto altri ordinamenti) una sua completa rifondazione. Si può immaginare che un’Assemblea costituente (al di là del valore evocativo del termine) possa davvero subire l’imposizione di limiti al suo operato? Io non lo credo affatto; credo, invece, che finirebbe per dare fiato a quelle tendenze, sin qui minoritarie ma non per questo meno preoccupanti, di porre mano anche ai principi contenuti nella prima parte della Costituzione. E che non si tratti di una preoccupazione infondata lo dimostrano questi due esempi tra i molti che potrei richiamare: si pensi alla più volte espressa idea di eliminare dall’art. 1 il riferimento al lavoro come elemento fondante della nostra Repubblica, ma si pensi anche all’idea (questa anche formalizzata) di modificare l’art. 41, in modo da eludere del tutto ogni possibile limitazione della libertà di iniziativa economica privata in nome della utilità sociale, della sicurezza e della dignità umana. Dunque, se in quei principi ancora ci si riconosce effettivamente (e non solo a parole), essi devono essere difesi con forza e non abbandonati alla discrezionalità di un’Assemblea ancorché “costituente”.

3. Un secondo gruppo di saggi, che qui si pubblicano, è dedicato ad un tema molto specifico (qualcuno potrebbe erroneamente definirlo secondario), quello della natura e del valore del precedente parlamentare. In realtà il tema, che è stato oggetto di un recente incontro tra studiosi e consiglieri parlamentari (Roma, Università Luiss Guido Carli, 5 marzo 2012) ha rivelato (e questi scritti ne sono una chiara testimonianza) tutto il suo spessore di cartina di tornasole dell’ancora irrisolto (sul paino scientifico) problema più generale della natura dei regolamenti parlamentari e della loro sindacabilità. Un problema che vede ancora fronteggiarsi due tesi diverse: l’una incline alla difesa della ineliminabile politicità del “diritto parlamentare”, in quanto strettamente legato all’autonomia politica dell’organo; l’altra favorevole, invece, a sostenerne la natura giuridica di “fonte”, subordinata alla Costituzione, ma anche, in una certa misura, integrativa del disposto costituzionale e dunque, almeno entro certi limiti, sindacabile. Naturalmente non mancano tesi intermedie, ma il dibattito resta apertissimo e la lettura di questi saggi contribuisce ad approfondirne i termini e a riportarlo all’attenzione dei costituzionalisti (e non solo dei cultori del diritto parlamentare) che troppo spesso ne sottovalutano l’importanza.

Il nuovo numero si conclude, come di consueto, con la sezione “Note e commenti”, la quale ospita quattro contributi: un resoconto puntuale e critico dell’incredibile vicenda dell’approvazione e della revoca dello statuto regionale del Molise, nel corso della quale un cambio di maggioranza consiliare ha dato il via ad una serie di comportamenti da parte degli organi di governo della Regione che non si sa se definire come frutto di una assoluta ignoranza delle regole relative alla procedura di approvazione dei nuovi statuti o di una preoccupante assoluta disinvoltura nel darvi un’applicazione distorta; una riflessione sul rapporto tra decreti-legge ed ordinanze del Governo, condotta alla luce della prassi dei provvedimenti extra ordinem di protezione civile e nella prospettiva del significato da attribuire alla disciplina costituzionale dell’emergenza; un’analisi dell’ultimo rapporto sulla legislazione della Regione Toscana, che presta particolare attenzione al contesto in cui si è sviluppata la produzione normativa regionale, al procedimento legislativo e al potere regolamentare; una descrizione critica dei principali contenuti del recente rapporto dell’Ocse sulla qualità della legislazione in Italia.