Le leggi regionali siciliane (2/2021)

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Periodo di riferimento : gennaio – marzo 2021

L’attività legislativa della Regione Siciliana, nel periodo compreso tra gennaio e marzo 2021, è consistita nella approvazione di sette leggi, tre delle quali queste sono state oggetto di impugnazione da parte dello Stato ai sensi dell’art. 127 della Costituzione.

 

1. La prima legge regionale impugnata dal Governo è la n. 2 del 3 febbraio 2021 “Intervento correttivo alla legge regionale 13 agosto 2020, n. 19 recante norme sul governo del territorio”.

Dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge si comprende come l’intervento mirasse a un duplice obiettivo: indurre lo Stato a ritirare il ricorso proposto contro la legge regionale oggetto dell’intervento di modifica, e introdurre «alcuni correttivi richiesti da soggetti istituzionali che a vario titolo hanno rappresentato l’opportunità condivisa di adottare misure finalizzate ad una migliore applicazione dei principi del governo del territorio presenti nella presente legge».

Con delibera del 13 aprile 2021 il Governo ha deciso di impugnare la disposizione contenuta nell’articolo 12 che sostituisce l’articolo 37 della legge regionale n. 19 del 2020, in quanto eccederebbe dalle competenze statutarie della Regione Siciliana.

La premessa è analoga a quella che aveva determinato l’impugnazione, nell’ottobre 2020, del testo originario della legge: «Nonostante alla Regione Siciliana sia stato riconosciuto un particolare grado di autonomia in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, non vi è dubbio alcuno che la legislazione regionale trovi un preciso limite nelle previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, qualificabili come “norme di grande riforma economico-sociale”, che si impongono anche alle Autonomie speciali (Corte cost., sentenza n. 238 del 2013)». 

L’art. 12 della legge regionale in esame, oltre a sostituire l’originario art. 37 con un nuovo articolo composto dai primi tre commi, ha introdotto anche tre ulteriori commi in materia di boschi e foreste (commi 4, 5, e 6). 

Secondo il ricorrente «Queste ultime disposizioni determinano un generale abbassamento del livello di tutela dei boschi e delle foreste, addirittura revocando in radice la previgente normativa di tutela. E ciò in assenza di una pianificazione paesaggistica estesa all’intero territorio, e quindi diretta anche alla disciplina delle aree boschive, e nonostante l’obbligo per la Regione di provvedere a tale pianificazione, ai sensi degli articoli 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, costituenti norme di grande riforma economico-sociale valevoli anche nei confronti delle Regioni ad autonomia speciale». 

1.1. In particolare, i nuovi commi 5 e 6 dell’art. 37 della legge regionale n. 19 del 2020, come sostituito dall’art. 12 della legge regionale impugnata, eliminano il vincolo paesaggistico imposto sulle fasce boschive, abrogando l’intera disciplina regionale di tutela dei boschi e delle foreste e delle predette fasce limitrofe (art. 10 della legge regionale n. 16 del 1996) e modificando la lett. e), dell’art. 15 della legge regionale n. 78 del 1976.  

La previsione dell’art. 10, comma 11, della legge regionale n. 16 del 1996, secondo la quale “le zone di rispetto di cui ai commi da 1 a 3” del medesimo art. 10 “sono in ogni caso sottoposte di diritto a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497” aveva «inteso precisare la portata del predetto vincolo, stabilendo che esso includa anche le zone di rispetto appositamente previste in base all’estensione del bosco. Ciò all’evidente scopo di assicurare una migliore tutela dei boschi, in una lettura evoluta, che considera parte del bosco, meritevole di tutela paesaggistica, anche il contorno del bosco stesso, che ne assicura sia l’armonico inserimento nel paesaggio, che la possibile espansione, con benefici sia paesaggistici che ecologici e di tutela idrogeologica». 

Il Governo reputa «Tale sopravvenuta e improvvisa abolizione del vincolo paesaggistico (...) oltre che irragionevole e ingiustificata, anche contraria ai canoni fondamentali dell’ordinamento costituzionale, che assegnano al paesaggio valore primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007)». 

Tale abrogazione avrebbe altresì come effetto la possibilità del rilascio del condono edilizio (ai sensi delle normative eccezionali del 1985, del 1994 e del 2004) anche per edificazioni che non sarebbero state condonabili, determinando così una invasione della potestà normativa statale nelle materie dell’ordinamento penale e dei livelli essenziali delle prestazioni socio-economiche che devono essere garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale, oltre che con la normativa statale di grande riforma economico-sociale repressiva degli abusi paesaggistici. 

1.1.1. Le doglianze del Governo si fondano su due argomenti fondamentali. 

Il primo: «La natura meramente accertativa del vincolo paesaggistico, in conseguenza del cui riconoscimento trova applicazione il regime di tutela, fa sì che una volta riconosciuto l’interesse paesaggistico del bene lo stesso non possa essere revocato, neppure mediante contrarius actus». 

Tale principio deriverebbe dall’art. 9 della Costituzione, e troverebbe conferma anche nel Codice dei beni culturale e del paesaggio che costituisce un limite anche per la potestà legislativa delle Regioni speciali.

La disciplina di tutela paesaggistica, secondo il Governo, si fonderebbe dunque su «una logica, per così dire “incrementale”, secondo la quale i vincoli possono essere estesi e integrati nei contenuti precettivi, e non perdono efficacia né devono essere sottoposti a forme di revisione o conferma, ma non possono venire meno una volta imposti, salvi i casi eccezionali nei quali sia definitivamente perduto l’elemento materiale nel quale si esprime il valore paesaggistico meritevole di tutela». 

1.1.2. In ogni caso, e passiamo così al secondo argomento, «Anche a voler ammettere che un vincolo paesaggistico già imposto possa venir meno, dovrebbe quanto meno ritenersi che l’eliminazione del vincolo debba essere giustificata da una ponderazione di interessi che faccia emergere un altro valore costituzionale primario meritevole di prevalere su quello paesaggistico. Nulla di simile si rinviene nella legge regionale in esame, la quale pone nel nulla vincoli paesaggistici imposti da circa venticinque anni, senza che emerga alcuna finalità di tutela di altri interessi meritevoli di tutela prevalente e, peraltro, senza che l’eliminazione dei vincoli sulle fasce boschive sia frutto di una ponderazione riferita a singole fattispecie concrete».

1.2. L’art. 12 della legge regionale è inoltre impugnato nella parte in cui   introduce, nel nuovo art. 37 della legge regionale n. 19 del 2020, un ulteriore comma 6, il quale interviene sulla lettera e) del primo comma dell’art. 15 della legge regionale 12 giugno 1976, n. 78, sopprimendo le parole “dal limite dei boschi, delle fasce forestali”, e così abrogando la disciplina di tutela sostanziale che la Regione Siciliana aveva dettato sia con riferimento ai boschi e alle foreste vincolati ai sensi della c.d. legge Galasso, che alle fasce contermini ai boschi, per una certa estensione sottoposte anche a vincolo paesaggistico dalla stessa Regione. 

L’effetto della novella è di sopprimere – tra le prescrizioni previste dall’art. 15, che devono essere osservate ai fini della formazione degli strumenti urbanistici generali comunali in tutte le zone omogenee ad eccezione delle zone A e B – la fascia di rispetto dei 200 metri dai boschi e dalle fasce forestali. 

Dunque, tanto con le disposizioni dell’art. 10 della legge regionale n. 16 del 1996 (di cui si è detto sopra) quanto con quella dell’art. 15, primo comma lett. e), della legge regionale n. 78 del 1976 la Regione aveva anticipato, mediante norme di tutela, l’esercizio della pianificazione paesaggistica.

Proprio in ragione di tale specifica funzione di tutela, secondo il Governo «Tali norme non possono, quindi, essere abrogate, o quanto meno non possono esserlo né in assenza del piano, né in presenza di piani che si limitano a rinviare alla predetta disciplina e/o la assumono quale presupposto giuridico e operativo indefettibile delle rispettive previsioni». 

L’effetto di tali abrogazioni sarebbe, innanzitutto «un abbassamento del livello della tutela manifestamente arbitrario e irragionevole, perché non supportato da esigenze di cura di altri interessi di rilievo costituzionale prevalente, e addirittura del tutto immotivato, con conseguente violazione degli artt. 3 e 9 Cost.»; in secondo luogo «la violazione, da parte della Regione, del proprio obbligo di disciplina del paesaggio, vincolato e non, atteso che l’abolizione del regime di tutela del paesaggio boschivo avviene in assenza di una compiuta pianificazione paesaggistica di tale paesaggio e addirittura con abrogazione della pianificazione adottata e/o approvata, quindi, determinando il venir meno di ogni disciplina al riguardo, con violazione degli artt. 135 e 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, costituenti norme di grande riforma economico sociale dettate dal legislatore statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., e destinate a imporsi sulla potestà esclusiva di cui all’art. 14, comma 1, lett. n) ed f) dello Statuto di autonomia della Regione Siciliana, attuato con il d.P.R. 30 agosto 1975, n. 637.

Infine, l’eliminazione della suddetta disciplina anche nella sua funzione di salvaguardia, nonostante il mancato completamento della pianificazione paesaggistica, determinerebbe una «violazione anche della norma di grande riforma economico-sociale di cui all’art. 1-ter del decreto legge n. 312 del 1985». 

2. Con delibera del 15 aprile 2021 il Governo ha deciso di impugnare la legge regionale 17 febbraio 2021, n. 5 contenente “Norme in materia di enti locali”.

Anche in questo caso il Governo muove dalla premessa per cui lo Statuto riconosce alla Regione una competenza in materia di “regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative” (art. 14, lett. o); “circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali” (art. 15); “ordinamento degli uffici e degli enti regionali” (art. 14, lett. p.).

Tuttavia, nel caso in specie, tali competenze sarebbero state esercitate «in contrasto con le disposizioni del decreto legislativo n. 165/2001, che costituiscono per le Regioni a statuto speciale norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica e, in quanto tali, esse si impongono al rispetto del legislatore della Regione autonoma (cfr. sentenze Corte Cost. n. 93/2019; n. 201 e n. 178 del 2018; n. 16/2020), in violazione dell’articolo 117, secondo comma, della costituzione che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordinamento civile». 

In particolare, l’articolo 9 reca la riformulazione del testo dell’art. 14 della legge regionale 26 agosto 1992, n. 7 che riguarda il conferimento di incarichi a esperti che possono essere disposti dai Sindaci, modificando il numero massimo degli incarichi in rapporto alle fasce di popolazione comunale ed i titoli richiesti per la nomina. Viene altresì disciplinata la determinazione del compenso da corrispondere agli esperti nominati, prevedendosi anche il conferimento di incarichi a titolo gratuito previa accettazione dell’interessato, stabilendosi un tetto massimo di incarichi individuali (pari a due) nonché l’incompatibilità con altri incarichi di collaborazione esterna e/o consulenza. 

Rispetto alla precedente formulazione dell’art. 14, che consentiva al sindaco di conferire “incarichi a tempo determinato che non costituiscono rapporto di pubblico impiego” esclusivamente per l’espletamento di attività connesse con materie di competenza del primo cittadino medesimo, l’art. 9 in esame estende tale possibilità anche alle “attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità, per le quali l’ente abbia documentabili carenze delle specifiche professionalità”. 

2.1. Secondo il ricorrente la nuova disciplina introdotta si porrebbe in contrasto con la normativa statale che regola il conferimento di incarichi a soggetti esterni alla pubblica amministrazione. Al riguardo si rammenta che l’art. 7, commi da 5-bis a 6-quater , del decreto legislativo 30 marzo del 2001, n. 165 (Testo Unico del Pubblico Impiego), consente di attribuire esclusivamente incarichi individuali di lavoro autonomo al ricorrere delle seguenti condizioni: “a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente; b) l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno; c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico; d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione”. 

2.1.1. La Regione avrebbe violato la disciplina statale, innanzitutto, consentendo il rinnovo degli incarichi di cui si discorre. La temporaneità dell’incarico sarebbe, infatti, «un elemento che connota in senso peculiare le prestazioni di lavoro autonomo presso le pubbliche amministrazioni. È il carattere temporaneo della prestazione medesima che, afferendo a “obiettivi e progetti specifici e determinati”, di per sé non può avere carattere di durata, ciò che ne esclude espressamente il rinnovo e ne ammette la proroga esclusivamente per il completamento del progetto (cfr. art. 7, comma 6, lett. a e c) del TUPI). Diversamente, la prosecuzione dell’incarico, svincolata dal fine suddetto, finirebbe con il configurare un’elusione delle forme ordinarie di accesso all’impiego pubblico». 

2.1.2. La disciplina regionale consente inoltre di conferire gli incarichi in parola “anche per attività di supporto agli uffici in materie di particolare complessità”, in contrasto con i requisiti di ammissibilità richiesti art. 7 del TUPI, che vincola l’oggetto della prestazione ad un progetto specifico e determinato, e pone il divieto di ricorrere a contratti di lavoro autonomo per l’espletamento di funzioni ordinarie.

2.1.3. L’articolo in esame rileva un contrasto anche con la lettera d) dell’art. 7 del TUPI, che richiede, sempre ai fini del legittimo affidamento dell’incarico, la preventiva determinazione del compenso, dell’oggetto e della durata, elementi che la norma regionale non esplicita chiaramente, facendo riferimento soltanto all’oggetto e alla finalità da definire all’atto del conferimento. 

2.2. La disciplina introdotta dal legislatore regionale è altresì contestata quanto ai requisiti soggettivi.

Segnatamente, nella parte in cui prevede  la possibilità di affidare, in via generalizzata e non meglio circostanziata, incarichi “anche a soggetti non provvisti di laurea”, essa si porrebbe in contrasto con quanto stabilito dal comma 6 dell’art. 7 sopra citato che «individua un numerus clausus di casistiche, ovvero quelle elencate nell’ultima parte del medesimo comma 6, connesse allo svolgimento di determinate attività e servizi, al ricorrere delle quali è possibile prescindere dal possesso del titolo universitario e sempre che sia accertata l’esperienza maturata dal settore e sussista, laddove richiesto, il titolo di abilitazione professionale».

2.2.1. Un’ulteriore violazione della normativa statale concerne la mancata previsione, da parte del legislatore regionale, di procedure selettive dirette ad appurare la competenza degli incaricati secondo quanto previsto dal comma 6-bis dell’art. 7, cit. ai sensi del quale “Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione”.

E ancora, la legge regionale presenterebbe alcune lacune, non vietando espressamente di attribuire incarichi di studio e consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza (cfr. art. 5, comma 9, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla legge di conversione 7 agosto 2012, n. 135, nonché le disposizioni di cui all’art. 53 del già citato decreto legislativo n. 165/2001 in materia di conferimento di incarichi a soggetti dipendenti pubblici).

2.3. Un ultimo profilo di illegittimità deriverebbe, secondo il Governo, dalla facoltà di utilizzare le forme di collaborazione previste dal nuovo articolo 14 della legge regionale n. 7/1992 per l’espletamento di compiti gestionali, come tali sottratti alla competenza funzionale del sindaco e degli altri organi politici.

Tale possibilità si porrebbe in contrasto con la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa che costituisce «un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’articolo 97 della Costituzione (cfr. ex multis Corte Costituzionale, sentenza n. 81/2013) al quale le Regioni, pur nel rispetto della loro autonomia, non possono sottrarsi», così come più volte precisato dalla giurisprudenza costituzionale: «il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione» (Corte Costituzionale, sent. n. 81/2013). 

3. L’ultima legge approvata nel periodo in esame, e oggetto di impugnazione governativa, è la legge 4 marzo 2021, n. 6 contenente “Disposizioni per la crescita del sistema produttivo regionale. Disposizioni varie”.

La previsione censurata è quella dell’articolo 3 che eccederebbe dalle competenze attribuite alla Regione Siciliana dallo Statuto Speciale di autonomia, R.D.Lgs. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, andando a violare gli articoli 3 e 117, secondo comma lettera l) della Costituzione. 

L’articolo 3 della legge regionale, rubricato Disposizioni in materia di albo del personale delle società partecipate in liquidazione, prevede che «Coloro che hanno maturato il requisito ai sensi dell'articolo 64 della legge regionale 12 agosto 2014, n. 21 e successive modificazioni nonché ai sensi del comma 1 dell’articolo 4 della legge regionale 8 maggio 2018, n. 8 e successive modificazioni e che, per oggettivi impedimenti, non sono stati inseriti nell’albo, possono essere immessi su espressa richiesta, da presentarsi entro e non oltre 30 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge» 

Secondo il Governo, «La disposizione, nel consentire l’inserimento nell’albo del personale delle società partecipate in liquidazione — cui possono attingere per sopperire ai propri fabbisogni di personale le altre società e gli organismi strumentali della Regione — anche ai dipendenti che, pur avendo maturato i requisiti in base alla legislazione regionale vigente, non vi siano stati inclusi in ragione di impedimenti oggettivi, interviene con una riapertura di termini in una disciplina di carattere transitorio, oramai chiusa». 

Così facendo, essa violerebbe l’articolo 25 del decreto legislativo n. 175 del 2016 “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” come modificato dal d.l. n. 162 del 2019, convertito dalla legge n. 8 del 2020, che «ha individuato, per gli anni 2020, 2021 e 2022, un nuovo meccanismo per la ricollocazione del personale delle società a controllo pubblico, anche da porre in liquidazione, affidando alle Regioni la tenuta e la gestione dell’elenco del relativo personale eccedente ai fini dei procedimenti di mobilità per la ricollocazione presso altre società. Alla fine del periodo transitorio la gestione dei lavoratori dichiarati eccedenti e non ricollocati è affidata all’ANPAL (Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro). Le modalità attuative del citato articolo 25 del d.lgs. n. 175/2016 sono state individuate con decreto 9 novembre 2017 del Ministro del lavoro, di concerto con i1 Ministro per la Pubblica Amministrazione e il Ministero dell’Economia e delle Finanze». 

La disposizione regionale in esame, quindi, recando una disciplina diversa e in parte contrastante con quella nazionale, risulta eccedere dalle competenze riconosciute dall’articolo 14, primo comma, lettere p) e q) dello Statuto Speciale. Esso assegna alla Regione una competenza primaria relativamente all’ordinamento degli uffici e degli enti regionali, nonché quelle concernenti lo stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione, trovando tuttavia il proprio limite, ai sensi del medesimo articolo 14, nelle disposizioni costituzionali. 

Il ricorso del Governo fa leva sulla giurisprudenza costituzionale in materia ordinamento civile, assegnata alla competenza statale esclusiva dall’art. 117, c.2., lett. l) : «Questa Corte, nel delineare i confini tra ciò che è ascrivibile alla materia “ordinamento civile” e ciò che invece è riconducibile alla competenza regionale, ha stabilito che sono da ricondurre alla prima «gli interventi legislativi che (…) dettano misure relative a rapporti lavorativi già in essere (...) e rientrano, invece nella seconda, i profili pubblicistico-organizzativi dell’impiego pubblico regionale (sentenze n. 25 del 2020. n. 241 del 2018 e n. 149 del 
2012; nello stesso senso, sentenze n. 191 del 2017 e n. 63 del 2012).

Un altro profilo di censura si fonda sulla presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, dato che «la prevista riapertura dei termini per l’iscrizione all’albo dedicato esclusivamente ai dipendenti delle società in liquidazione indicati nell’articolo 3 della legge regionale in argomento, non riguardando l’intera platea di lavoratori eccedenti dipendenti da società di controllo pubblico ai sensi del citato articolo 25 del D.Lgs. n. 175/2016, produce una ingiustificata disparità di trattamento».