Le leggi regionali siciliane (gennaio – maggio 2022) (2/2022)

Stampa

L’attività legislativa della Regione Siciliana, nel periodo compreso tra gennaio e maggio 2022, è consistita nella approvazione di cinque leggi.

Un numero esiguo di atti normativi di rango primario, almeno se raffrontato all’andamento dei cinque anni precedenti.

Tre di queste sono state oggetto di impugnazione da parte dello Stato ai sensi dell’art. 127 della Costituzione.

 

1. La prima legge della Regione siciliana impugnata, con delibera del 28 marzo 2022, è la n. 1 del 21 gennaio 2022, recante “Autorizzazione all’esercizio provvisorio del bilancio della Regione per l’esercizio 2022”.

Le disposizioni oggetto delle censure di incostituzionalità sono contenute negli articoli 9 e 10.

1.1. L’art. 9, comma 1, lett. a), violerebbe l’obbligo di copertura finanziaria delle leggi di spesa di cui all'articolo 81, terzo comma, della Costituzione.

Tale disposizione ha novellato l’art. 1, comma 1, della legge regionale 19 novembre 2021, n. 28 “Norme in materia di funzionamento del Corpo forestale della Regione siciliana”.

A esito di tale novella il testo aggiornato dell’art. 1, della L.R. 28/21 adesso prevede, al comma 1 che «Per le finalità legate all’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione del personale del Corpo forestale della regione siciliana è autorizzata, per l’esercizio finanziario 2021, la spesa di euro 3.000.000,00 (Missione 9, Programma 5, capitolo 15021- Spese per l’espletamento di concorsi per l’assunzione del personale del Corpo forestale della Regione (CAP. 14210).

Al comma 2 si precisa che «agli oneri di cui al comma 1 pari a complessivi euro 3.000.000,00 si fa fronte, per l’esercizio finanziario 2021, mediante riduzione delle disponibilità della Missione 9, Programma 5, capitolo 150001).

L’intento perseguito dal legislatore regionale mediante la modifica introdotta dalla norma in esame sarebbe quello di superare i rilievi di illegittimità costituzionale sui quali si fondava l’impugnativa dell’art. 1, commi 1 e 2, della L.R. n. 28/2021, deliberata dal Consiglio dei Ministri il 21 gennaio 2022, e per la quale è ancora pendente il giudizio davanti alla Corte Costituzionale.

La norma in esame costituisce un ulteriore intervento legislativo per individuare la copertura finanziaria per procedere all’assunzione di personale autorizzata dalla L.R. n. 16 del 20 luglio 2020, recante “Norme per il funzionamento del Corpo forestale della Regione siciliana. Disposizioni varie” e rifinanziata con L.R. n. 29 del 3 dicembre 2020 recante “Norme per il funzionamento del Corpo forestale della regione siciliana”.

Ambedue le leggi regionali (n. 16 e 29 del 2020) sono state impugnate davanti alla Corte costituzionale per violazione, sotto il profilo qui considerato, dell’art. 81, terzo comma, della Costituzione, in quanto prive di copertura finanziaria.

Il Governo rammenta che «La Corte ha riunito i ricorsi e con sentenza n. 226 del 2021 ha accolto tutti i rilievi dichiarando l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate e, in particolare, per quanto attiene in questa sede, delle norme relative alla spesa per le nuove assunzioni di cui all’ art. 1, comma 1, della L.R. 29/2020. Sotto questo profilo la Corte ha riconosciuto la fondatezza delle censure relative al vincolo di destinazione delle risorse allocate nel capitolo di bilancio destinato alle retribuzioni, trattandosi di spese obbligatorie del personale che, per loro natura, si sottraggono a ipotesi di facile comprimibilità. La Corte ha anche evidenziato il fatto che l’assenza di una analitica dimostrazione, da parte regionale, da compendiarsi principalmente nella Relazione tecnica, di una eventuale e permanente eccedenza di risorse tra quelle già stanziate nel predetto capitolo, non consente di distogliere risorse per finalità diverse da quelle di destinazione».

Prima della pubblicazione della citata sentenza è entrata in vigore la L.R. n. 28/2021, “Norme in materia di funzionamento del Corpo Forestale della Regione siciliana”, composta di due sole norme entrambe di contenuto finanziario: in particolare, l’art. 1, per le finalità assunzionali disciplinate dalla L.R. n. 16/ 2020, autorizza, per l’esercizio finanziario 2021, la spesa di 3 milioni di euro (Missione 9, Programma 5, Capitolo 150521- Spese per l’espletamento di concorsi per l’assunzione del personale del Corpo forestale della Regione Cap. 14210) prevedendo che l’intera spesa sia coperta mediante riduzione delle disponibilità della Missione 9, Programma 5, capitolo 150001, che, come già rilevato, è quello destinato alle retribuzioni del personale in servizio. Il successivo art. 2 della L.R. n. 28/21 modifica la quantificazione delle risorse finanziarie destinate anch’esse alle sopradette assunzioni e autorizzate dagli art. 1, comma 8, della L.R. n. 16/20 e art. 1 della L.R. n. 29/20, sopracitate. Entrambi gli articoli della legge 28/21 sono stati nuovamente impugnati per violazione dell’art. 81, terzo comma, della Costituzione e, come detto, al momento ancora non sono state decise dalla Corte.

Con l’art. 9, comma 1, della L.R. n. 1 del 2022, il legislatore regionale interviene sulle norme della L.R. n. 28/21 nel tentativo di superare i rilievi di incostituzionalità e di far così cessare la materia del contendere.

L’intervento, però, secondo il Governo, non avrebbe eliminato tali profili di incostituzionalità. In particolare, l’art. 9, comma 1, lett. a), pur sostituendo alle “finalità assunzionali” del comma 1 dell’art. 1, della L.R. n. 28/21 le “finalità legate all’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale del Corpo forestale” non interviene sul comma 2 della medesima norma che individua la fonte della copertura finanziaria che continua a dipendere dalla riduzione di pari somma delle disponibilità della Missione 9, programma 5, capitolo 15001, finalizzato alle retribuzioni del personale in servizio del Corpo forestale, che reca risorse destinate a spese obbligatorie del bilancio della Regione siciliana, per l’esercizio finanziario 2021- peraltro chiuso – di non facile comprimibilità, come già evidenziato dalla Corte Costituzionale (sentenza 226/21).

Peraltro, «anche in questa occasione la Regione ha omesso di fornire adeguati elementi conoscitivi (da compendiarsi principalmente nella Relazione tecnica) da cui si dimostri l’esistenza di eventuali permanenti eccedenze, tali da sopportare l’ulteriore peso di oneri per fini diversi da quelli cui sono vincolate Ciò anche nel rispetto delle modalità di copertura finanziaria delle spese e della documentazione contabile richiesta ai sensi dell’art. 17 della legge di contabilità n. 196/2009».

Il Governo richiama inoltre la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo la quale il limite di cui al terzo comma dell’art. 81 Cost. «opera direttamente, a prescindere dall'esistenza di norme interposte» (ex plurimis, sentenza n. 26 del 2013), applicandosi immediatamente anche agli enti territoriali ad autonomia speciale.

Ciò vale anche per la Regione Siciliana il cui Statuto attribuisce alla competenza legislativa esclusiva regionale lo stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione (art. 14, lettera q), «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato».

La novella normativa non ha dunque eliminato il vizio esistente nella disciplina oggetto di modifica e pertanto, secondo la ricostruzione del Governo «l’art. 9, comma 1 lett. a) risulta affetto dalle medesime illegittimità già riscontrate sulla norma modificata, contrastando con i principi di obbligo di copertura finanziaria delle norme che comportino nuovi o maggiori oneri, e quindi in violazione dell’art. 81, terzo comma, della Costituzione, della normativa statale in materia contabile nonché delle norme dello Statuto speciale della Regione e della legislazione regionale in materia di bilancio e contabilità per quanto riguarda la copertura finanziaria delle leggi regionali di spesa (art. 14 del Testo coordinato delle norme in materia di bilancio e contabilità applicabili alla Regione)».

1.2. La seconda disposizione impugnata e quella di cui all’art. 10 (Disposizioni riguardanti l’Istituto Zootecnico Sperimentale per la Sicilia) a norma della quale: “Al fine di scongiurare l'interruzione dei servizi in favore degli allevatori, le disposizioni di cui all'articolo 17 della legge regionale 9 maggio 2017, n. 8 e successive modificazioni, continuano ad applicarsi per gli esercizi finanziari 2022 e 2023”, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. l) della Costituzione , che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordinamento civile, attraverso la violazione dell’art. 36 del D. lgs. n. 165/2001, quale norma interposta.

Il richiamato art. 17, al suo primo comma introduce all’art. 6 della L.R. n. 12/1989 il comma 8 bis e un nuovo testo del comma 9.

Il comma 8-bis prevede che «L'Istituto sperimentale zootecnico, nelle more della stipula delle convenzioni di cui al comma 8, è autorizzato, in deroga alle vigenti disposizioni in materia di divieti assunzionali, alla stipula di contratti di lavoro a tempo determinato con i lavoratori licenziati dagli enti di cui al comma 1, che si trovino nelle condizioni eccezionali di non potere svolgere il servizio. Per le finalità di cui al presente comma, i medesimi lavoratori accedono ad un albo appositamente costituito presso l'Istituto sperimentale zootecnico, che è autorizzato ad attingere dall'albo per le assunzioni necessarie a scongiurare l'interruzione dei servizi di selezione del bestiame per i libri genealogici, dei controlli funzionali e dei servizi di assistenza tecnica agronomica/veterinaria di cui al comma 7».

Il nuovo comma 9 aggiunge che: «Alla spesa per le azioni di cui ai commi precedenti da parte degli organismi interessati si fa fronte con le disponibilità del bilancio regionale previste nei capitoli 144111 e 143707, oltre che con il finanziamento del MIPAAF destinato alle predette iniziative.».

Dunque la disposizione di cui all’art. 10 in esame estende al biennio 2022-2023 la facoltà per l’Istituto sperimentale zootecnico, di continuare «ad assumere con contratti a tempo determinato e in deroga ai limiti assunzionali vigenti, attingendo da un apposito albo appositamente costituito, i lavoratori licenziati dalle associazioni regionali degli allevatori della Sicilia (gli enti di cui al comma 1 dell’art. 6 della L.R. n. 12/1989). Ciò nelle more della stipula di apposite convenzioni con le predette associazioni, atte a consentire all’Istituto di svolgere le funzioni affidate dall’Assessore per l’agricoltura e con il precipuo fine di scongiurare l'interruzione dei servizi».

Secondo il Governo tale percorso di assunzioni a tempo determinato, originariamente previsto dal legislatore regionale con la L.R. n. 8 del 2017 «poteva ritenersi astrattamente coerente con i presupposti di temporaneità ed eccezionalità, che devono sussistere per il ricorso a tale tipologia di contratti», in considerazioni della sussistenza di alcune condizioni allora esistenti: l’affidamento all’epoca di nuove funzioni all’Istituto; il riferimento all’iter di conclusione delle convenzioni con le associazioni degli allevatori e l’impossibilità di svolgere il servizio da parte dei medesimi enti associativi.

Tali circostanze non sussisterebbero più oggi e l’ulteriore proroga «fa di per sé venir meno i suindicati presupposti di temporaneità ed eccezionalità che ne legittimano l’utilizzo».

Inoltre, come detto, in forza dell’art. 17, comma 1, della L.R. n.8 del 2017, le assunzioni a tempo determinato avvengono attingendo da un apposito albo costituito presso l’Istituto zootecnico in cui sono stati inseriti i lavoratori licenziati dalle associazioni degli allevatori.

Ciò costituirebbe un’elusione del principio di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001 «secondo cui le assunzioni nelle amministrazioni pubbliche – e a tale categoria appartiene l’Istituto in parola – avvengono tramite procedure selettive. Il perdurare dunque di tale meccanismo consente al legislatore regionale di continuare a realizzare percorsi extra ordinem di utilizzo dei contratti a termine non conformi alle disposizioni nazionali di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. l) della Cost., che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordinamento civile e, quindi, i rapporti di diritto privato regolati dal codice civile e dai contratti collettivi».

A sostegno delle proprie doglianze il Governo richiama la giurisprudenza della Corte Costituzionale che, nella sentenza n. 43/2020, in una vicenda analoga relativa alla Sardegna osserva: «I profili concernenti l’assunzione e l'inquadramento del personale pubblico privatizzato, riconducibili alla materia dell'ordinamento civile, comportano l’applicabilità, anche per la Regione autonoma della Sardegna, dell’art. 36, comma 2, del T.U. del pubblico impiego, nella parte in cui introduce il limite delle «esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale» che devono sussistere per giustificare la stipula di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato: la disposizione regionale travalica detto limite, mancando di adeguati elementi che comprovino la sussistenza di un'effettiva situazione temporanea ed eccezionale».

Analogamente, nel caso della Sicilia, la circostanza che lo stato giuridico ed economico degli impiegati e dei funzionari dello Stato rientri nella competenza regionale esclusiva della Regione Siciliana non esclude che la stessa debba essere esercitata nel rispetto del D. lgs.vo n. 165 del 2001, che contiene norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica.

2. La Legge regionale 18 marzo 2022, n. 2, contenente Disposizioni in materia edilizia, è impugnata con delibera del Consiglio dei Ministri del 17 maggio 2022 limitatamente seguenti disposizioni: articolo 1, comma 1, lettere d) e) g) e h), e comma 2, lettere c) ed e); articolo 2, comma 1, lettere a), b) e c), e articolo 8, comma 1, lettere a) e b) e d).

La legge regionale in argomento modifica numerose disposizioni della l.r. n. 16 del 2016 e della l.r. n. 6 del 2010 già oggetto di modifiche apportate dalla legge regionale n. 23 del 2021, nei cui confronti il Governo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con decisione del Consiglio dei Ministri del 7 ottobre 2021.

In via preliminare, il Governo rammenta i limiti della potestà legislativa regionale in materia.

Lo Statuto della Regione Sicilia all'art. 14, comma 1, lettera n) e f), attribuisce alla Regione competenza legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, nonché di urbanistica, prevedendo però che esse devono esercitarsi “nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato” e che devono rispettare le c.d. “norme di grande riforma economico-sociale” poste dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze legislative (cfr. ad es., le sentt. Corte Costituzionale 385 del 1991 e 153 del 1995). Tra queste ultime, rilevano in particolare: il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), nonché le norme statali in materia di governo del territorio recanti principi di grande riforma. Le materie dell’ordinamento penale (art. 117, secondo comma, lettera l), e dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lettera m), restano, inoltre, integralmente sottratte alla potestà legislativa regionale, la quale deve comunque essere esercitata nel rispetto dei principi posti dagli articoli 3 e 9 della Costituzione.

Il Governo, poi richiama la giurisprudenza della Corte Costituzionale relativa alla disciplina del governo del territorio, nella quale si afferma «che sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (così la sentenza n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)” (sentenza n. 259 del 2014). Pertanto, lo spazio di intervento residuale del legislatore regionale è quello di “esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali”, a condizione, però, che tale esemplificazione sia “coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell'edilizia” (Corte Costituzionale sentenza n. 49 del 2016, sentenza n. 68 del 2018). Si aggiunga, altresì, che la funzione della salvaguardia ambientale/paesaggistica costituisce elemento fondamentale e prevalente della gestione del territorio, così come chiaramente rappresentato anche dalla giurisprudenza costituzionale (vds sentenze Corte Cost. n. 189/2016, Corte Cost., n. 182/2006 e n. 183/2006; Corte Cost. n. 478/2002; Corte Cost. n. 345/1997 e Corte Cost. n. 46/1995 e ordinanze Corte Cost. nn. 71/1999, 316/1998, 158/1998, 133/1993.) e da quella amministrativa, (vds. Cons. Stato, Sez. Il, 14 novembre 2019, n. 7839; Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2222)».

2.1. Alla luce di tali premesse il ricorso governativo investe, come anticipato, diverse disposizioni della legge regionale n. 2 del 2022.

Una particolare attenzione merita quella contenuta nella lett. b) del comma 1 dell’articolo 8 relativa alla disciplina regionale del c.d. Piano casa.

Esso contrasterebbe innanzitutto con l’articolo 14, comma 1, lett. f), dello Statuto, in considerazione della violazione delle norme fondamentali di grande riforma economico-sociale costituite dall’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, nonché dall’articolo 11, comma 5, del decreto legge n. 112 del 2008 e dall’Intesa sul piano casa del 2009;

Violerebbe inoltre l’articolo 14, comma 1, lett. n), dello Statuto nonché l’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio;

Infine confliggerebbe con gli articoli 3, 9 e 97 della Costituzione.

La disposizione impugnata sostituisce il comma 2 dell’art. 6 della legge regionale 23 marzo 2010, n. 6, recante “Norme per il sostegno dell'attività edilizia e la riqualificazione del patrimonio edilizio”, prevedendo che: «Fermo restando il termine per la realizzazione degli interventi di cui agli articoli 2 e 3, come previsto dall’articolo 5 della legge regionale 30 dicembre 2020, n. 36, fissato al 31 dicembre 2023, le istanze relative agli interventi sono presentate entro il 30 giugno 2023 e sono corredate, a pena di inammissibilità, dal titolo abilitativo edilizio ove previsto relativo all’immobile oggetto di intervento, rilasciato o concretizzatosi antecedentemente alla data di presentazione dell’istanza».

Viene, quindi, fissato al 30 giugno 2023 il termine per la presentazione delle domande di interventi rientranti nel c.d. piano casa, le quali possono avere ad oggetto immobili realizzati o per i quali il titolo abilitativo è stato rilasciato o si è formato prima della presentazione della domanda.

L’art. 6, comma 2 della legge n. 6 del 2010, già modificato dall’articolo 11, comma 130, della legge n. 26 del 2012.
è stato nuovamente modificato dall’art. 37, lett. c), punto 1 della legge 6 agosto 2021, n. 23, che ha soppresso il termine di 48 mesi al quale erano subordinate le istanze di interventi edilizi di ampliamento degli edifici esistenti nonché di interventi per favorire il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente.

Con tale modifica, secondo il Governo, si era prodotto «l’effetto di convertire le istanze “tardive”, eventualmente già presentate, in istanze “tempestive”, e sono stati riaperti sine die i termini del piano casa siciliano, consentendo la presentazione di nuove domande senza alcun limite temporale».

Per tale ragione, il Governo, nell’ottobre 2021 aveva impugnato, tra le altre, anche l’articolo 37, lett. c), punto 1 della legge regionale n. 23 del 2021 «per violazione dell’art. 14 dello Statuto speciale, nonché degli articoli 3, 9 e 97, 117, primo comma – alla luce della legge n. 14 del 2006, di recepimento della Convenzione europea sul paesaggio – 117, secondo comma lett. s), della Costituzione, di cui costituisce norma interposta l’articolo 135 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e per violazione delle norme di grande riforma economico sociale costituite dai principi di cui all’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, all’articolo 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, all’articolo 11, comma 5, del decreto legge n. 112 del 2008, all’Intesa sul piano casa del 2009».

La Regione interviene ora, al fine di superare i rilievi di incostituzionalità, fissando quale termine per le istanze il 30 giugno 2023.

A parere del Governo, tuttavia, pur eliminandosi la disposizione che ne consentiva la presentazione sine die, «si mantiene comunque la scelta di prolungare la durata del piano casa in modo arbitrario e irragionevole rispetto alla durata originaria. Peraltro con tale formulazione si ricomprendono anche immobili non ancora realizzati, ma soltanto assentiti con il rilascio del titolo edilizio; immobili per i quali non appaiono sussistere esigenze di riqualificazione edilizia o di efficientamento energetico».

Tale intervento normativo regionale avrebbe alterato le finalità originaria della normativa sul c.d. “piano casa”, e cioè «quella di consentire interventi “straordinari”, per un periodo temporalmente limitato, su edifici abitativi».

Il Governo richiama il contenuto dell’Intesa del 2009 sul c.d. piano casa che prevedeva una serie di limiti tra cui, quello per cui le leggi regionali che fossero intervenute avrebbero avuto una validità comunque non superiore a 18 mesi dalla loro entrata in vigore, salvo diverse determinazioni delle singole Regioni.

Pur riconoscendosi il carattere non tassativo di tali limiti, essi, secondo il ricorrente, «assumono comunque valore di regole di riferimento, rispetto alle quali lo ius variandi della Regione è contenuto e deve attenersi alla ratio delle previsioni concordate. Da ciò consegue che necessariamente – poiché una diversa interpretazione porterebbe a vanificare completamente l’efficacia della predetta Intesa – le determinazioni regionali, in senso ampliativo rispetto ai limiti previsti nell’Intesa, sono ammissibili solo se rispondono a canoni di proporzionalità e ragionevolezza».

L’articolo 8, comma 1, lett. b), della legge regionale n. 2 del 2022 si porrebbe in contrasto con i limiti richiamati, «in quanto consente la realizzazione di interventi di ingente impatto sul territorio, sulla base di istanze che possono essere presentate fino al giugno 2023, in deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica».

Pertanto «La possibilità di presentare istanze di c.d. piano casa, sulla base di una disciplina introdotta in via straordinaria nel 2009, fino al 30 giugno 2023 e, per di più, anche con riferimento a immobili a quella data non ancora realizzati, ma soltanto assentiti mediante il rilascio del titolo edilizio, contrasta anche con il principio fondamentale, costituente norma di grande riforma economico-sociale, di temporaneità del regime del piano casa, secondo quanto previsto dall’Intesa del 2009. Tale principio costituisce in effetti un portato della regola generale, sopra richiamata, secondo la quale l’intero territorio deve essere pianificato e la deroga alla pianificazione presenta necessariamente carattere eccezionale e deve ritenersi consentita in ipotesi tassative».

La disposizione censurata, secondo il Governo, sarebbe  «costituzionalmente illegittima per violazione dell’articolo 14, comma 1, lett. f), dello Statuto, in considerazione della violazione delle norme fondamentali di grande riforma economico-sociale costituite dall’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, nonché dall’articolo 11, comma 5, del decreto legge n. 112 del 2008 e dall’Intesa sul piano casa del 2009».

Tra le norme di grande riforma economico andrebbero ricomprese anche le previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. dato che, rileva il Governo, «anche nella Regione Siciliana il piano paesaggistico assume carattere necessariamente sovraordinato agli altri strumenti di pianificazione territoriale, in applicazione degli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, aventi carattere di norme di grande riforma economico-sociale.
In particolare, l’art. 145 del Codice stabilisce il principio della necessaria prevalenza del suddetto piano rispetto a ogni altro strumento di pianificazione e la sua inderogabilità da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico.
Non solo, quindi, le previsioni del piano paesaggistico sono cogenti e prevalgono immediatamente sulle disposizioni degli strumenti urbanistici, ma questi ultimi hanno l’obbligo di adeguarsi e conformarsi alle previsioni della pianificazione paesaggistica, declinando concretamente le previsioni di indirizzo e di direttiva contenute nello strumento sovraordinato».

Orbene, secondo il Governo «la previsione censurata, consentendo il protrarsi dell’applicazione del c.d. piano casa e l’estensione di tale regime derogatorio fino al 30 giugno 2023, perpetua la violazione del principio di primazia del piano paesaggistico e di prevalenza dello stesso sulla pianificazione urbanistica».

Si tratterebbe, per di più, di una disciplina irragionevole «considerando che gli interventi del c.d. piano casa possono essere assentiti in relazione a istanza da presentare fino al 30 giugno 2023, con riguardo a edifici neppure realizzati alla predetta data, ma soltanto assentiti mediante il rilascio del titolo edilizio. Con ogni evidenza, la deroga alla pianificazione urbanistica, che determina di per sé un vulnus all’ordinato assetto del territorio e alla tutela del paesaggio, non è giustificata da alcuna esigenza meritevole di tutela. Per immobili non ancora costruiti non può porsi, infatti, alcuna esigenza di riqualificazione edilizia o di efficientamento energetico. D’altro canto, la Regione non ha fornito alcun riscontro alle osservazioni svolte sul punto e non ha quindi rappresentato alcuna ragione tale da giustificare la previsione normativa censurata. La predetta previsione è quindi da ritenere illegittima anche per violazione degli articoli 3, 9 e 97 della Costituzione».


3. Con delibera del Consiglio dei Ministri del 17 maggio il Governo ha impugnato la legge della Regione Siciliana n. 3 del 18 marzo 2022, recante “Istituzione e disciplina del registro telematico dei Comuni e dei relativi prodotti a denominazione comunale De.Co. Modifiche alla legge regionale 28 marzo 1995, n.22”.

 Le disposizioni impugnate sono quelle contenute negli articoli 1 (commi 1 e 3), 2 , 3 e 4 che, in contrasto con la disciplina recata dagli articoli 3, 5, 7, 11, 19, 22 del Regolamento (UE) n. 1151/2012 e delle analoghe disposizioni dei Regolamenti (UE) n. 1308/2013 e n. 2019/787 in materia di denominazioni protette di prodotti agroalimentari, violerebbero indirettamente l’articolo 117 comma 1 della Costituzione.

La legge in questione introduce norme dirette alla promozione di strumenti per la salvaguardia, la tutela e la diffusione di produzioni territoriali che, in quanto espressione del patrimonio costituito dalle tradizioni storiche e culturali con specifico riguardo a taluni Comuni, vengono considerate dal legislatore regionale quale risorsa da valorizzare, mediante apposito strumento, come previsto dall’articolo 1 comma 2 della legge in esame che specifica che la denominazione comunale (De.Co.) non è un marchio di qualità o di certificazione e che tale normativa viene dettata nel rispetto della disciplina europea e nazionale in materia di protezione delle II.GG. dei prodotti agricoli e alimentari.

Il Governo, pur riconoscendo che II.GG. e De.Co sono istituti diversi tra loro, ritiene che «la creazione di De.Co. ed il loro uso nella comunicazione commerciale possono interferire negativamente con gli scopi e con l’ambito di applicazione del sistema comunitario di tutela delle DOP e IGP. Come noto, in presenza dell’iscrizione di una denominazione nel Registro comunitario delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette, una denominazione comunale può rientrare nel campo di applicazione dei sopracitati artt. 13 o 103, che assicurano una tutela molto ampia alle denominazioni di origine. Infatti le denominazioni registrate sono tutelate contro “qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l'origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali «genere», «tipo», «metodo», «alla maniera», «imitazione» o simili; qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all'origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti usata sulla confezione o sull'imballaggio, nella pubblicità o sui documenti relativi ai prodotti considerati nonché l'impiego, per il condizionamento, di recipienti che possono indurre in errore sull'origine; qualsiasi altra prassi che possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine dei prodotti”.

Con il combinato disposto dell’articolo 1, commi 1 e 3 e dell’articolo 4, la legge regionale in oggetto intende istituire, promuovere la conoscenza e valorizzare i prodotti a denominazione comunale (De.Co.) della Regione siciliana.

Per quanto concerne i prodotti agroalimentari di detta Regione, il Governo ritiene che tali disposizioni, insieme all’articolo 2 e all’articolo 3 della medesima legge si pongano in aperto contrasto con l’articolo 117, comma 1 della Costituzione - a tenore del quale “la potestà legislativa è esercitata dalle Regioni nel rispetto (anche) dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario (…)”.

L’articolo 2 definisce la De.Co. come una «attestazione di identità territoriale […] che individua l’origine ed il legame storico culturale di un determinato prodotto con il territorio comunale ” (comma 1) e che per De.Co. si intendono, tra l’altro, “prodotti tipici […] in cui si realizza la concomitanza di fattori riconducibili alla localizzazione geografica dell’area di produzione o alle relative tecniche di preparazione […] ottenuto o realizzato sul territorio comunale, secondo modalità consolidate nei costumi e nelle consuetudini locali, anche mediante tecniche innovative che ne costituiscono il naturale sviluppo e aggiornamento” (comma 2, lett. a)), nonché “prodotti tradizionali locali […] caratterizzati da metodi di lavorazione e trasformazione praticati su un territorio e consolidati nel tempo, per un periodo non inferiore ai venti anni ” (comma 2, lett. b))».

Tali definizioni, secondo la ricostruzione del Governo, si sovrapporrebbero «a quelle di cui agli articoli 3 e 5 del regolamento Ue 1151/2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari nonché alle definizioni omologhe di cui ai regolamenti (UE) n. 1308/2013 recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio e n. 2019/787 relativo alla definizione, alla designazione, alla presentazione e all'etichettatura delle bevande spiritose, all'uso delle denominazioni di bevande spiritose nella presentazione e nell'etichettatura di altri prodotti alimentari, nonché alla protezione delle indicazioni geografiche delle bevande spiritose e all'uso dell'alcole etilico e di distillati di origine agricola nelle bevande alcoliche, e che abroga il regolamento (CE) n. 110/2008».

Gli articoli 1 (comma 3), 3 e 4, relativi ai registri, nonché quelle relative ai “disciplinari di produzione da adottare per ottenere il riconoscimento di prodotto a denominazione comunale” di cui all’articolo 3, comma 2, lett. b, presenterebbero il medesimo problema, quello cioè di una sovrapposizione ad analoghe definizioni contenute nella disciplina di fonte eurounitaria.

Orbene, osserva il Governo, dal momento che i Regolamenti dell’Unione Europea n. 1151/2012, n. 1308/2013 e n. 2019/787, contengono proprio «quelle denominazioni che permettono di identificare il legame tra prodotto e origine geografica e che per queste ultime viene previsto un regime esclusivo di registrazione a livello di Unione, soggetto a specifiche e stringenti condizioni non si ravvisa spazio alcuno per denominazioni di origine alternative a quelle previste dalla normativa UE che, peraltro, potrebbero ingenerare anche grave confusione nel consumatore».