Causa C-497/20 La Corte di giustizia si pronuncia sui cd. limiti esterni della giurisdizione della Cassazione (1/2022)

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Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 21 dicembre 2021, Randstad Italia, Causa C‑497/20, ECLI:EU:C:2021:1037

La Corte di Giustizia, pronunciandosi sul rinvio della Corte di Cassazione (Sezioni Unite), ha chiarito che il diritto dell’Unione europea non fa obbligo agli Stati membri di prevedere la possibilità di contestare la conformità al diritto dell’Unione di una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo.  Allo stesso tempo, tuttavia, è stato censurato l’approccio del Consiglio di Stato alla legittimazione dell’offerente escluso nell’ambito di una procedura di appalto, in quanto contrastante con la direttiva sugli appalti pubblici.

 

Con il rinvio pregiudiziale nella causa Randstad Italia, le Sezioni Unite della Cassazione hanno interrogato la Corte di Giustizia, in sostanza, circa la compatibilità con il diritto UE dell’interpretazione giurisprudenziale – validata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 6/2018 – secondo cui i “motivi inerenti alla giurisdizione” per i quali l’art. 111, ottavo comma, Cost. (e, allo stesso modo, gli artt. 360 e 362 del codice di procedura civile e l’art. 110 del codice del processo amministrativo) ammette il ricorso in cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato non includono l’ipotesi in cui quest’ultimo giudice abbia deciso in modo contrastante con la giurisprudenza della Corte di giustizia.

Il rinvio è stato sollevato nell’ambito di un procedimento in materia di appalti pubblici, ricadente nella disciplina dettata dalla direttiva 89/665/CEE[1]. La violazione del diritto dell’Unione che ad avviso delle Sezioni Unite costituirebbe un motivo di giurisdizione consiste nell’orientamento del Consiglio di Stato secondo cui il ricorso incidentale del controinteressato volto a contestare la legittimazione al ricorso principale dell’offerente escluso ha carattere pregiudiziale, cosicché il suo accoglimento comporta l’inammissibilità in punto di rito delle doglianze del ricorrente principale (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria del 25 febbraio 2014 n. 9).

Secondo una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, la definizione dell’assetto dei rimedi giurisdizionali nazionali (e, più in generale l’organizzazione del sistema giudiziario nazionale) rientra nella competenza degli Stati membri (cfr., ad esempio, Corte di giustizia (Grande sezione), sent. del 20 aprile 2021, causa C-896/19 Repubblika, ECLI:EU:C:2021:311, punto 48). Tuttavia, essa deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’Unione allorché la situazione di cui si discute è da quest’ultimo disciplinata. In questo caso, la cd. autonomia procedurale degli Stati membri è limitata dal necessario rispetto dei principi di equivalenza e di effettività[2]. Rileva altresì l’art. 47 della Carta se la persona si sta avvalendo di un diritto che gli deriva dal diritto dell’Unione, quale, ad esempio, il diritto a un ricorso efficace avverso la decisione di esclusione dell’amministrazione aggiudicatrice, che fa da contraltare all’obbligo degli Stati membri – previsto dall’art. 1(1) e (3) della direttiva 89/665/CEE – di prevedere ricorsi efficaci (punto 49). È poi appena il caso di ricordare che il Trattato di Lisbona ha valorizzato il ruolo delle giurisdizioni nazionali nell’ambito del sistema giurisdizionale dell’Unione, in precedenza riconosciuto nella giurisprudenza della Corte di giustizia: l’art. 19(1), secondo comma, TUE, sancisce l’obbligo degli Stati membri di “[stabilire] i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione”.

Se, dunque, utilizzando una prospettiva tutta domestica, il rinvio pregiudiziale Randstad può apparire come il tentativo della Cassazione di scardinare un assetto che la vede antagonista alle altre due Corti apicali del nostro ordinamento, dal punto di vista del diritto dell’Unione europea la questione è tutt’altro che puramente interna al sistema giudiziario italiano, investendo invece l’effettività della tutela dei diritti che il diritto dell’Unione conferisce ai singoli.

La sentenza della Corte di giustizia, pronunciata dalla Grande sezione lo scorso 21 dicembre, si muove con abilità su questo crinale periglioso (non da ultimo, per la scomoda situazione di doversi confrontare con la posizione della Corte costituzionale al di fuori di un dialogo diretto con la stessa).

In premessa al proprio ragionamento, la Corte di giustizia ha ricordato che “gli effetti [del principio del primato] si impongono a tutti gli organi di uno Stato membro, senza che, in particolare, le disposizioni interne relative alla ripartizione delle competenze giurisdizionali, ivi comprese quelle di rango costituzionale, possano opporvisi” (punto 53). Da ciò deriva, tra l’altro, che “qualora l’incompatibilità di una disposizione di diritto interno con il diritto dell’Unione tragga origine (…) nell’interpretazione di tale disposizione accolta da un giudice dello Stato membro interessato, occorre discostarsi da tale giurisprudenza” (punto 54).

La Corte di giustizia ha infatti ritenuto che l’interpretazione dell’art. 111(8) Cost. fornita nella sentenza 6/2018 non viola né il principio di equivalenza né il principio di effettività. Da un lato, il limite contestato investe “con le medesime modalità, la competenza della Corte suprema di cassazione a trattare ricorsi avverso sentenze del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati su disposizioni di diritto nazionale o su disposizioni di diritto dell’Unione” (punto 60). Dall’altro lato, poiché nel settore degli appalti pubblici esiste un rimedio giurisdizionale che consente di far valere i diritti derivanti dal diritto dell’Unione (nell’ambito della giustizia amministrativa), rimane nella discrezionalità dello Stato membro decidere di impedire (o consentire) che la controversia possa essere ulteriormente esaminata nel merito nell’ambito di un ricorso per cassazione (punti 62 e 64). Con una motivazione simile, la Corte ha altresì escluso una violazione dall’art. 1(1) e (3) della direttiva 89/665, letto alla luce dell’art. 47 della Carta (punto 69)[3].

Ciò detto, la Corte di giustizia ha però chiaramente evidenziato l’incompatibilità dell’orientamento del Consiglio di Stato in punto di legittimazione dell’offerente escluso, all’origine della controversia, con l’art. 1(1) e (3) della direttiva 89/665, letto alla luce dell’art. 47 della Carta (punti da 70 a 77). I giudici amministrativi, compreso lo stesso Consiglio di Stato, sono dunque tenuti a disapplicare l’orientamento di quest’ultimo non conforme al diritto dell’Unione; in caso di inosservanza di questo obbligo, la Commissione potrà avviare una procedura di infrazione, mentre le persone che abbiano subito un pregiudizio in conseguenza di una decisione del Consiglio di Stato in linea con il suddetto orientamento potranno avvalersi – sussistendone i requisiti – del rimedio dell’azione risarcitoria nei confronti dello Stato membro per violazione del diritto dell’Unione (cd. responsabilità Francovich; punti 79 e 80).[4]

                                                                                                                                             

 

[1] Direttiva 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU, L 395, p. 33 ss.), come modificata dalla direttiva 2014/23/UE (GU 2014, L 94, p. 1 ss.).

[2] In base a tali principi, le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali predisposti dal diritto nazionale nelle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione non devono essere meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e non devono rendere l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione praticamente impossibile o eccessivamente difficile (principio di effettività).

[3] Al punto citato si legge: “Dal momento che i singoli hanno accesso, nel settore interessato, a un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, ai sensi dell’art. 47(2) della Carta, (…) una norma di diritto nazionale che impedisce che le valutazioni di merito effettuate dal supremo organo della giustizia amministrativa possano ancora essere esaminate dall’organo giurisdizionale supremo non può essere considerata una limitazione, ai sensi dell’art. 52(1) della Carta, del diritto di ricorrere a un giudice imparziale sancito all’art. 47 della stessa”.

[4] Con riguardo alla responsabilità Francovich, interessanti sono le considerazioni svolte dall’Avvocato generale Hogan nelle conclusioni alla causa Randstad (punti da 76 a 84) che evidenzia le difficoltà insite nell'accertamento del requisito della “violazione grave e manifesta” nel caso dell’errore giudiziario e sostiene l’opportunità di una modifica dell’approccio corrente della Corte, proprio alla luce dell'art. 47 della Carta.