La salvezza della riforma (non organica?) del sistema delle banche popolari, tra policies urgentemente etero-indotte e delegificazioni “tecniche” occulte (ed occultate?) (2/2018)

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Sentenza n. 99/2018 – giudizio di legittimità costituzionale in via principale

Deposito del 15 maggio 2018 – Pubblicazione in G.U. del 23/05/2018, 1^ Serie Speciale n. 4

Motivo della segnalazione

La pronuncia interviene sulla riforma delle banche popolari di inizio 2015: sebbene la Corte, in ratio decidendi, ne neghi la natura di “riforma di sistema” e la conseguente insuscettibilità di costituire oggetto del decreto-legge che la veicola (il n. 3 del 2015), non sfugge alla medesima il rilievo non soltanto giuridico della decisione, cui è dedicato il comunicato ufficiale anticipatorio del deposito riservato alle pronunce di maggiore momento (v. https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20180515152601.pdf), probabilmente per profili di censura su cui la Corte si concentra soprattutto allorquando esamina il rapporto delle parti della normativa impugnata che riflettono il principio di bail-in in caso di crisi bancarie con le fonti europee che lo hanno posto nel quadro della risposta alla crisi economico-finanziaria e con la giurisprudenza delle “due Corti”.

 

Il Consiglio di Stato, rimettente in sede di cautelare, revocava in dubbio la legittimità costituzionale delle disposizioni del citato decreto-legge che demandavano a provvedimenti della Banca d’Italia la fissazione di criteri, modalità e limiti, in caso di recesso, al rimborso di azioni ed altri strumenti di capitale delle banche in forma cooperativa, a tutela della computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria.

La sentenza, di infondatezza, risulta di rilievo per due ordini di ragioni.

In primo luogo, sul piano della lamentata carenza dei requisiti di necessità ed urgenza, rispetto alla quale l’ampiamente ripresa sent. n. 287 del 2016 funge da precedente del tutto analogo (tranne per la tipologia di giudizio): la Corte nega che l’intervento si concreti in una riforma organica, ma non che essa sia volta ad evitare una serie di rischi tipici del nostro tradizionale sistema bancario popolare (segnalati da Fondo monetario internazionale, OSCE, Commissione europea e Banca d’Italia, ma) soltanto potenziali, né che sia affidata anche a norme non auto-applicative (come quella sub iudice, appunto all’origine dei ricordati provvedimenti); tuttavia, richiamati i consolidati criteri anche “quantitativi” che occorre soddisfare per avere violazione dell’art. 77 (la manifesta violazione e l’omogeneità del contenuto, secondo gli insegnamenti inaugurati rispettivamente dalle sentenze nn. 171 del 2007 e 22 del 2012), li applica alla policy sottesa al decreto, riconoscendo come decisivamente sufficiente la “straordinaria necessità e urgenza di avviare il processo di adeguamento del sistema bancario agli indirizzi europei” e sottolineando “le forti sollecitazioni” dei due organismi internazionali citati.

In secondo luogo, rileva quanto affermato sul lamentato «potere regolamentare atipico con effetto delegificante» rinvenuto dal rimettente nella definizione di contenuti ed effetti dei provvedimenti («anche in deroga a norme di legge» ma “senza previa fissazione delle norme generali regolatrici della materia e senza individuazione delle disposizioni legislative di cui sarebbe consentita l’abrogazione da parte della fonte secondaria”) demandati dal decreto alla Banca d’Italia in materia di limiti al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di trasformazione della società. La Corte accede, infatti, ad una nozione piuttosto ristretta di delegificazione, facendo leva taluni elementi, oggetto di interpretazioni piuttosto singolari: il rinvenimento già nel medesimo decreto-legge (in coerenza con la già affermata insussistenza di norme non auto-applicative) della regola delle limitazioni al rimborso del capitale, che opererebbe “direttamente e del tutto indipendentemente dall’entrata in vigore del provvedimento della Banca d’Italia” (cui residua “soltanto il compito di definire le condizioni tecniche che consentono alla banca di rispettare i coefficienti patrimoniali minimi stabiliti dalla normativa prudenziale europea”); la mera derogabilità della disciplina ordinaria, rivelatrice del dato che essa “rimane in vigore”; infine, la mancata assegnazione di valutazioni politico-discrezionali alla Banca d’Italia quale dato con cui rintuzzare la lamentata carenza di input di legalità sostanziale (indirizzi e limiti al potere regolamentare delegificante attribuito).