Fonti dell'Unione europea

Sono inammissibili le questioni di costituzionalità che prospettano un contrasto con disposizioni del diritto UE diverse dalla Carta dei diritti fondamentali e dotate di effetto diretto (Corte cost. n. 67 del 2022) (2/2022)

Con la sentenza n. 67 dell’11 marzo 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, c. 6-bis, del d.l. 13.3.1988, n. 69 (convertito nella l. 13.5.1988, n. 153, istitutiva dell’assegno al nucleo familiare), secondo cui, a differenza di quanto stabilito per i cittadini italiani, il coniuge e i figli del cittadino straniero non residenti in Italia non integrano il nucleo familiare quale definito all’art. 2, c. 6, dello stesso decreto (a meno che lo Stato di cittadinanza dello straniero riservi un trattamento di reciprocità ai cittadini italiani ovvero sia stata stipulata una convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia). Al contrario del giudice remittente (la Sezione lavoro della Corte di Cassazione), la Consulta ha ritenuto dotate di effetto diretto le disposizioni di diritto UE evocate come parametri interposti e, non sussistendo un’ipotesi di doppia pregiudizialità relativa alla Carta dei diritti fondamentali, ha affermato che il giudice remittente – che aveva prioritariamente adito la Corte di giustizia - avrebbe dovuto disapplicare senza porre la questione di costituzionalità.

La sentenza trae origine dai casi di un cittadino pakistano soggiornante di lungo periodo e di un cittadino cingalese titolare di un permesso unico di lavoro, che ricorrevano avverso il rifiuto dell’INPS di versare l’assegno per il nucleo familiare in relazione ai periodi in cui le rispettive mogli e figli avevano soggiornato nei paesi di origine. Il Tribunale e la Corte d’appello di Brescia, nell’un caso, e la Corte di appello di Torino, nell’altro, disapplicavano l’art. 2, c. 6-bis, del decreto-legge n. 69/1988, ritenendolo in contrasto con gli artt. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109 e 12, par. 1, lett. e), della Direttiva 2011/98[2]. Tali disposizioni sanciscono infatti il diritto dello straniero soggiornante di lungo periodo ovvero titolare di un permesso unico di lavoro alla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro con riguardo, rispettivamente, alle «prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale», e ai «settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento [n. 883/2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale]». Avverso tali pronunce l’INPS proponeva ricorso per cassazione, contestando l’esistenza del contrasto e rilevando la necessità di sollevare un rinvio pregiudiziale ovvero una questione di legittimità costituzionale.

Con due distinti ma contestuali rinvii pregiudiziali, la Cassazione, Sezione lavoro, chiedeva alla Corte di giustizia di chiarire se il diritto dell’Unione osti a una normativa nazionale quale quella di cui all’art. 2, c. 6-bis, della l. n. 153/1988. I dubbi riguardavano la portata del diritto alla parità di trattamento sancito dall’art. 11 della Direttiva 2003/109 e dall’art. 12 della Direttiva 2011/98, con riguardo sia alla cerchia dei beneficiari sia alla possibilità di introdurre deroghe alla parità di trattamento. La Corte di Giustizia rispondeva con due sentenze coeve[3], statuendo che il diritto derivato in questione osta a una normativa nazionale quale l’art. 2, comma 6-bis, del decreto-legge n. 69/1988.

Alla riapertura dei giudizi principali, la Cassazione riteneva che l’esecuzione delle sentenze della Corte di giustizia non potesse essere assicurata respingendo i ricorsi – confermando la disapplicazione operata dalle corti di merito –, ma era invece necessaria la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 2, comma 6-bis. Si rivolgeva, pertanto, alla Corte costituzionale con due ordinanze distinte (n. 9378/2021 e n. 9379/2021), ma contestuali e di contenuto mutatis mutandis identico.

La Cassazione affermava, in particolare, l’inidoneità della disapplicazione a garantire la «piena esecuzione» delle sentenze pregiudiziali, sostenendo che «ai fini dell’eliminazione dell’effetto discriminatorio da rimuovere, non è tanto significativa la condotta (meramente esecutiva della volontà di legge) osservata dall’INPS (…) quanto la formulazione della disposizione italiana che disciplina la fattispecie concreta»[4]. Si spingeva altresì fino a ritenere impraticabile la disapplicazione, negando l’effetto diretto degli obblighi di parità di trattamento sanciti dalle due direttive. Muovendo dalla considerazione che «il diritto dell’Unione non regola direttamente la materia dei trattamenti di famiglia»[5], la Cassazione sosteneva infatti che l’affermazione giudiziale del criterio della parità di trattamento avrebbe costituito «un intervento di tipo manipolativo inibito [al giudice comune che], nell’esercizio di un doveroso self restraint, [non deve] oltrepassare i limiti della interpretazione e applicazione delle leggi»[6].

Attraverso una digressione preliminare sul primato del diritto dell’Unione europea, la Consulta ha risposto alla Cassazione sul punto della ritenuta inidoneità della disapplicazione a garantire la «piena esecuzione» delle sentenze pregiudiziali in questione, stigmatizzando, in sostanza, la scelta del giudice remittente di promuovere le questioni di costituzionalità. Dopo aver evidenziato che «in virtù del principio di effettività delle tutele [le pronunce rese in via pregiudiziale] sono vincolanti, innanzi tutto nei confronti del giudice che ha disposto il rinvio», la Corte costituzionale ha infatti osservato che la procedura pregiudiziale non è soltanto funzionale a risolvere dubbi interpretativi ma «concorre ad assicurare e rafforzare il principio del primato»[7]. Citando la sentenza Simmenthal e alcune pronunce più recenti della Corte di giustizia, ha poi sottolineato che il rinvio pregiudiziale e l’obbligo di disapplicazione delle disposizioni nazionali contrarie a norme dotate di effetto diretto concorrono ad assicurare la «piena efficacia» del diritto dell’Unione europea[8]. Quindi, prendendo spunto da una recentissima sentenza della Corte di Lussemburgo in tema di disapplicazione e indipendenza dei giudici nazionali[9], la Consulta ha osservato che il principio del primato e i principi di uguaglianza tra gli Stati membri e di leale cooperazione tra l’Unione e gli Stati membri, di cui all’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE «costituiscono dunque l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi. (…) In tale sistema il sindacato accentrato di costituzionalità (…) non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo (…), ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate»[10].

Dopo questa premessa, la Corte costituzionale ha confutato l’argomento della Cassazione secondo cui l’assenza di una disciplina compiuta di diritto dell’Unione della previdenza in questione ostava alla disapplicazione. In particolare, ha chiarito che le due direttive si limitano a stabilire un obbligo di parità di trattamento in favore di alcune categorie di cittadini stranieri con riguardo a prestazioni la cui disciplina compete agli Stati membri, e che, «[n]ella prospettiva del primato del diritto dell’Unione», tale obbligo è dotato di effetto diretto[11]. A questo proposito, la Corte costituzionale ha osservato che «[la] tutela riconosciuta al diritto in questione e la sua azionabilità richiamano le condizioni che la costante giurisprudenza della Corte di giustizia individua per affermare l’efficacia diretta delle disposizioni su cui tali diritti si fondano»[12]. Così facendo, ha in sostanza evidenziato che, pur in assenza di una pronuncia della Corte di giustizia sul punto – sul quale non era stata espressamente sollecitata –, la Cassazione avrebbe dovuto svolgere il test dell’effetto diretto.

La Consulta ha poi replicato agli argomenti circa la discrezionalità del legislatore nazionale, ricordando che è compito del giudice nazionale rimuovere gli effetti discriminatori già verificatisi, e che l’unico modo per ristabilire la parità di trattamento prima dell’intervento del legislatore consiste nell’estendere alla categoria svantaggiata lo stesso regime previsto per quella favorita[13]. Parimenti, la Corte costituzionale ha evidenziato che il legislatore nazionale non si è espressamente avvalso della possibilità di limitare la parità di trattamento prevista dalla direttiva 2003/109/CE, mentre la direttiva 2011/98 non consente di introdurre una deroga come quella che di fatto deriva dalla normativa nazionale in questione[14]. A quest’ultimo proposito, la Consulta ha richiamato la propria sentenza (n. 54 del 2022), sul cd. bonus bebè e l’assegno di maternità, di pochi giorni precedente, nella parte in cui viene valorizzato l’onere di dichiarazione espressa di eventuali deroghe da parte legislatore nazionale nel corso dell’attività di trasposizione, che deve essere «fruttuosa e trasparente» e improntata «a una costante interlocuzione con la Commissione»[15]. Ha altresì ricordato che, già prima dei rinvii della Cassazione, la Corte di giustizia aveva avuto occasione di precisare che le deroghe alla parità di trattamento non possono derivare da una normativa nazionale anteriore alla trasposizione della direttiva.

La sentenza in commento conferma quindi un orientamento ben consolidato (Granital), a fronte della deviazione dallo stesso operata dalla Cassazione. Al contempo, concorre a consolidare il più recente nuovo approccio alla doppia pregiudizialità. La conclusione raggiunta dalla Corte costituzionale deve infatti essere letta alla luce di una precisazione che la stessa ha svolto in apertura del Considerato in diritto, ovvero che «[né] l’una né l’altra ordinanza evocano la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in particolare l’art. 34», in tema di «Sicurezza sociale e assistenza sociale». Così facendo, la Corte costituzionale ha distinto i due incidenti di costituzionalità della Cassazione sull’assegno familiare da quelli sollevati dal medesimo giudice sul cd. bonus bebè e sull’assegno di maternità. Questi ultimi prospettavano, infatti, un’ipotesi di doppia pregiudizialità in relazione agli artt. 3 Cost. e (tra l’altro) 34 della Carta e, con l’ordinanza n. 182/2020, sono stati ritenuti ammissibili in linea con l’orientamento emerso dalla sentenza n. 269/2017 e dai temperamenti successivamente introdotti dalla Consulta.

 

[1] La nota che segue è tratta da N. Lazzerini, Lunga vita alla disapplicazione immediata (se non si tratta di doppia pregiudizialità): riflessioni a margine della sentenza n. 67/2022 della Corte costituzionale, in corso di pubblicazione in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale.

[2] Rispettivamente, direttiva 2003/109 relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, in Gazz. Ue, 2004, L 16, 44 ss., e direttiva 2011/98 relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, in GUUE 2011, L 343, 1 ss.

[3] C. Giust., 25.11.2020, C-302/19, INPS c. WS (Prestations familiales pour les titulaires d’un permis unique), e C-303/19 INPS c. VR (Prestations familiales pour les résidents de longue durée). Per un commento v. Grossio 2021, 582 ss.

[4] Cassazione, ord. n. 9378/2021 e 9379/2021, punto 15.

[5] Ibid., punto 16.

[6] Ibid., punto 22.

[7] C. cost., n. 67/2022, punto 10.2 del Considerato in diritto.

[8] Ibid.

[9] Segnatamente, C. Giust., 22.2.2022, C‑430/21, RS, punto 88.

[10] Ibid., punto 11.

[11] Ibid., punto 12.

[12] Ibid.

[13] Ibid., punto 13.1.

[14] Ibid., punto 13.2 e 13.3

[15] Ibid., punto 14.

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