La Corte e il Nuovo codice della strada: l’incostituzionalità dell’art. 120 del d. lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (2/2018)

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Sentenza n. 22/2018 – giudizio di legittimità costituzionale in via principale

Deposito del 09/02/2018 Pubblicazione in G. U. 14/02/2018

Motivo della segnalazione


La decisione qui segnalata sorge a seguito di tre ordinanze di rimessione, una da parte del TAR Friuli-Venezia Giulia e due da parte del Tribunale di Genova. A essere sottoposto al giudizio della Corte costituzionale è l’art. 120 del d. lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica)

. Sotto la rubrica «Requisiti morali per ottenere il rilascio dei titoli abilitativi di cui all’art. 116», nei suoi commi 1, 2 e 3, così testualmente si dispone:

«1. Non possono conseguire la patente di guida i delinquenti abituali, professionali o per tendenza e coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali […], le persone condannate per i reati [in materia di stupefacenti] di cui agli artt. 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi […]»;

«2. […] se le condizioni soggettive indicate al primo periodo del comma 1 del presente articolo intervengono in data successiva al rilascio, il prefetto provvede alla revoca della patente di guida. La revoca non può essere disposta se sono trascorsi più di tre anni dalla data […] del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati indicati al primo periodo del medesimo comma 1»;

«3. [l]a persona destinataria del provvedimento di revoca di cui al comma 2 non può conseguire una nuova patente di guida prima che siano trascorsi almeno tre anni».

Le tre ordinanze di rimessione vertono tutte sul secondo comma, qui riportato nei sui tratti salienti. Preliminarmente, però, la Consulta dichiara l’inammissibilità della questione sollevata dal TAR friulano: il giudice rimettente difetta infatti di giurisdizione.
Inammissibile è anche una delle due ordinanze di rimessione del Tribunale ligure; a superare il vaglio dell’ammissibilità è unicamente l’ordinanza di cui al r.o. n. 210 del 2016.
Il thema decidendum ha quindi un duplice oggetto. In primo luogo, secondo il giudice rimettente, il combinato disposto dei commi I e II dell’art. 120 del Nuovo codice della strada darebbe vita a una retroattività delle sanzioni penali, in contrasto con quanto previsto «[da]gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, per lesione del principio di irretroattività delle sanzioni sostanzialmente penali sancito dalla evocata norma convenzionale, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.» (punto 5 del ‘considerato in diritto’).
In una prospettiva più ampia, inoltre, il giudice a quo ritiene che l’art. 120 del Nuovo codice della strada «violi gli artt. 3, 16, 25 e 111 Cost., per essere connotato da «profili di irragionevolezza e di conseguente disparità di trattamento», rilevanti «oltre che per l’incidenza sulla libertà personale e sulla libertà di circolazione […] anche dal punto di vista della sottrazione del soggetto al giudice naturale e ad un giusto processo». (punto 5.1 del ‘considerato in diritto’).
Con riferimento al primo dei due profili qui evocati, il giudice ligure prende le mosse dalla considerazione che la revoca della patente, nell’ordinamento italiano, non ha il carattere penale. Però poi – nel chiedersi «se la revoca sia una vera e propria sanzione in senso sostanziale» alla stregua dei cosiddetti «Engel criteria», enucleabili dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dal che l’evocazione del parametro interposto di cui all’art. 7 della CEDU, ai fini della denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., e dell’art. 11 Cost.», si dà una risposta affermativa. (punto 6 del ‘considerato in diritto’).
La Consulta – precisato che l’art. 11 Cost. è qui impropriamente evocato – rileva però che il carattere di sanzione della revoca è erroneamente prospettato dal Tribunale di Genova. La revoca della patente – come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione – non ha carattere sanzionatorio, «ma rappresenta la constatazione dell’insussistenza (sopravvenuta) dei «requisiti morali» prescritti per il conseguimento di quel titolo di abilitazione.» (punto 6.1 del ‘considerato in diritto’). In ciò essa si differenzia dal ritiro della patente, disposto dal giudice penale. Ciò chiarito, sono quindi inconferenti i richiami alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; nella logica (appunto non punitiva ma individuativa delle condizioni soggettive ostative al conseguimento o al mantenimento del permesso di guida) che ispira la novella del 2009 la revoca della patente anche per reati, in materia di stupefacenti, commessi anteriormente alla entrata in vigore della disposizione impugnata, per i quali la condanna sia però comunque intervenuta dopo tale data, attiene al piano degli effetti riconducibili all’applicazione ratione temporis della norma stessa.». La questione è quindi infondata (ibidem).
Fondata è invece la questione prospettata con riferimento all’art. 3 Cost., per violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza. La Consulta rileva infatti che «La disposizione denunciata – sul presupposto di una indifferenziata valutazione di sopravvenienza di una condizione ostativa al mantenimento del titolo di abilitazione alla guida – ricollega, infatti, in via automatica, il medesimo effetto, la revoca di quel titolo, ad una varietà di fattispecie, non sussumibili in termini di omogeneità, atteso che la condanna, cui la norma fa riferimento, può riguardare reati di diversa, se non addirittura di lieve, entità. Reati che, per di più, possono (come nella specie) essere assai risalenti nel tempo, rispetto alla data di definizione del giudizio. Il che dovrebbe escluderne l’attitudine a fondare, nei confronti del condannato, dopo un tale intervallo temporale, un giudizio, di assenza dei requisiti soggettivi per il mantenimento del titolo di abilitazione alla guida, riferito, in via automatica, all’attualità.». Inoltre, la Corte ravvisa un ulteriore profilo di irragionevolezza nella circostanza che la revoca abbia un carattere automatico, mentre nella parallela misura del ritiro vi è un sensibile margine di discrezionalità. Se è pur vero che le due misure rispondono a diverse finalità e non sono sovrapponibili, la contraddizione va individuata nel fatto che «agli effetti dell’adozione delle misure di loro rispettiva competenza (che pur si ricollegano al medesimo fatto-reato e, sul piano pratico, incidono in senso identicamente negativo sulla titolarità della patente) – mentre il giudice penale ha la “facoltà” di disporre, ove lo ritenga opportuno, il ritiro della patente, il prefetto ha invece il “dovere” di disporne la revoca.». La normativa de qua è quindi incostituzionale nella parte in cui dispone che il prefetto “provvede” alla revoca della patente di guida in caso di sopravvenuta condanna del suo titolare per reati di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, invece che “può provvedere” (punto 7 del ‘considerato in diritto’).