Giurisprudenza costituzionale

Stungun e Taser ricondotti dalla Corte costituzionale alla categoria “armi comuni ad impulsi elettrici” la cui disciplina è affidata alla competenza esclusiva dello Stato (2/2022)

Sent. n. 126/2022 – giudizio di costituzionalità in via principale

Deposito del 24/05/2022 –  Pubblicazione in G. U. 25/05/2022  n. 21

 

Motivo della segnalazione

La sentenza in epigrafe è resa nell’ambito di un ricorso in via principale proposto dal Governo nei confronti della legge della Regione Lombardia n. 8 del 2021 (Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021). Le doglianze del Governo si articolano in cinque questioni riguardanti la legislazione in materia di armi (art. 5 della legge ), e, sotto vari profili anche concernenti i rapporti con il diritto eurounitario, la tutela e regolazione faunistica e della caccia (artt. 13, 17 e 25 della legge). Più nel dettaglio, sono, dunque, oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, l’art. 5 della legge, che modifica la disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana; l’art. 13, che interviene sulla disciplina relativa alla protezione della fauna selvatica, alla tutela dell’equilibrio ambientale, all’attività venatoria (l. n. 26/1993); l’art. 17 comma 1 lettera a) e lettera b); ed infine l’art. 25 il quale modifica il testo della legge regionale n. 26 del 1993.

 

In ordine alla prima questione, la Corte è chiamata a pronunciarsi sul dibattuto tema della dotazione di armi/strumenti operativi alla polizia locale, in un quadro in cui la competenza in materia di armi rientra in quella esclusiva dello Stato a mente dell’art.117, secondo comma, Cost.

Nonostante l’ampia previsione di strumentazioni che la norma regionale prevede vengano messe a disposizione della polizia locale (novellando l’art.23, comma 4, l. reg. Lombardia n. 6/2015), l’attenzione specifica del ricorrente, e dunque il Thema decidendum, si concentra sulla (contestata) possibilità di dotare le forze di polizia locale di “ dissuasori di stordimento a contatto”, in carenza di una (opportuna) disciplina statale che, tra l’altro, provveda a far precedere tale possibilità da una adeguata e uniforme sperimentazione e formazione.

La difesa della Regione poggia essenzialmente su due aspetti. 1) In primo luogo la differenza tra la strumentazione introdotta, i dissuasori di stordimento a contatto (stungun) divergerebbe dai dispositivi interessati dalla normativa nazionale (taser), il meccanismo di funzionamento dei quale consiste non nel semplice rilascio di scariche elettriche al contatto, ma nel lancio di piccoli dardi capaci di generare impulsi elettrici; in estrema sintesi, a giudizio del legislatore regionale, il taser (in pratica una pistola elettrica poi ridefinita arma comune ad impulsi elettrici dall’art.19, comma 5, dl 113/2018) avrebbe funzione offensiva (e, dunque, rientrerebbe nel concetto di arma), mentre lo stungun avrebbe una funzione difensiva e, dunque, porlo a disposizione della polizia locale non violerebbe la competenza esclusiva dello stato in materia di armi. 2) In secondo luogo, la difesa regionale richiama gli art. 5 e 6 della l. n. 65/1986 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), attraverso la quale il legislatore nazionale avrebbe esercitato la propria competenza distinguendo tra armamenti veri e propri e altri strumenti operativi che possono essere messi (liberamente) a disposizione della polizia locale.

Nel dichiarare fondata la questione la Corte rigetta entrambe le argomentazioni della Regione Lombardia partendo innanzitutto da una osservazione preliminare, ossia che lo stungun ha una evidente capacità offensiva. Ma anche in senso formale, la Corte ricostruisce la normativa che si è susseguita in senso conforme a quanto appena detto, dal momento che la differenza tra stungun e taser risulta superata nella disciplina nazionale precedentemente richiamata che utilizza, adesso, la locuzione armi comuni ad impulsi elettrici, espressione che riconduce le varie tipologie di strumenti elettrici alla nozione di arma, facendo scattare la competenza esclusiva dello Stato in materia che, per questo, appare violata dalla disposizione indubbiata.

Con tutte le altre questioni, il ricorrente solleva dubbi su varie modifiche alle norme regionali concernenti la tutela della fauna selvatica, l’equilibrio ambientale, la disciplina dell’attività venatoria.

In particolare, la Corte considera non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 13 l. reg. 8/2021, che impone di annotare sul tesserino venatorio gli estremi dei capi di selvaggina dopo l’abbattimento o l’avvenuto recupero. Tale disposizione, secondo il ricorrente, violerebbe l’art.17, comma secondo, lett. s) Cost., in quanto subordinare l’annotazione all’effettivo recupero dell’animale abbasserebbe la soglia di protezione della fauna prevista nella disciplina statale, che prevede un’annotazione immediata sul luogo di caccia.

In realtà la Corte, sottolinea come la questione, inquadrabile nel rapporto tra le competenze regionali in materia e i vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea che consente alle Regioni esclusivamente di prevedere standard di tutela più elevati di quelli prescritti nel diritto europeo, sia stata oggetto di un precedente giudizio risolto dalla Corte con sentenza n. 291/2019 con cui veniva, appunto, annullata una norma emanata dalla medesima Regione che subordinava l’annotazione all’avvenuto recupero dell’animale. La norma oggi indubbiata non può, dunque, essere considerata incostituzionale in quanto si conforma esattamente alle prescrizioni dettate in quella sede dalla stessa Corte Costituzionale, imponendo che l’annotazione vada eseguita al momento dell’abbattimento, ovvero, al momento del recupero quando la contezza dell’abbattimento si abbia solo in tale circostanza.

Parimenti dichiarata infondata dalla Corte, la questione di costituzionalità dell’art.17, comma 1, della legge regionale impugnata, considerata dallo Stato come lesiva della propria competenza in materia in quanto introdurrebbe la possibilità di apporre ai c.d. richiami un anello non amovibile numerato anche in materiale plastico (e non solo utilizzando il prescritto materiale metallico). A giudizio della Corte, la normativa di riferimento, costituita dall’art. 5, comma 7, l. n. 157/1992, non vieta l’utilizzo di materiale plastico purché l’anello in questione rispetti gli standard minimi richiesti, ossia sia inamovibile, numerato e consenta il riconoscimento del richiamo senza possibilità di abusi.

La Corte, dunque, propende per una soluzione di compromesso, constatando che il materiale plastico risulta di per se compatibile con i fini della norma, riservandosi tuttavia di intervenire nuovamente sul punto laddove l’utilizzo di tale materiale dovesse rivelarsi strumentale ad abusi quali quelli paventati dal ricorrente (mancata garanzia sulla inamovibilità e, conseguentemente, impossibilità di verificare la liceità della nascita dell’animale in ambiente controllato, possibile modificabilità o usura della stampigliatura con i dati recanti l’anno di nascita ed il numero progressivo). Da sottolineare che la Corte, pur richiamandola, trascura di dare valore decisivo alla normativa internazionale di settore che consiglia l’utilizzazione di materiale metallico per la realizzazione dei suddetti anelli inamovibili.

Considerata, invece, fondata la questione di costituzionalità dell’art. 17, comma 1, lettera b) della legge regionale impugnata che, nella sostanza, sopprime la Banca dati regionale dei richiami vivi, istituita in ottemperanza ai regolamenti europei in materia. La presenza della banca dati, in sintesi, risulta –a giudizio della Corte- strumentale alle esigenze prescritte dal diritto europeo in funzione della tutela faunistica e del controllo sull’attività di caccia (e sul prelievo venatorio). Ciò si ricollega direttamente alla normativa prima esaminata, concernente l’accertamento e la disciplina dei richiami vivi, e si pone l’obbiettivo di evitare il fenomeno della cattura indiscriminata di esemplari da utilizzare come richiami vivi così come di accertare la consistenza di quelli allevati. Risulta pertanto evidente alla Corte che la disposizione in parola risulti in contrasto con l’art. 117, primo comma Cost. sub specie di mancata conformazione agli obblighi comunitari.

Infine, l’ultima questione esaminata riguarda la legittimità costituzionale del l’art. 25, comma 1, lett. a) della legge regionale impugnata, che introduce alcune limitazioni poste dalla norma alle facoltà di accertamento della corretta presenza di anellini rimovibili da parte degli organi accertatori.

La norma indubbiata, infatti, disponeva che il controllo potesse essere effettuato verificando unicamente la presenza dell’anellino sull’esemplare e dovesse essere effettuato nel massimo rispetto del benessere dell’animale, e senza pratiche invasive o manipolazioni che possano arrecare danni alla salute dei volatili.

La formulazione della norma, in effetti, nonostante le giustificazioni addotte nella difesa della Regione, appariva restringere notevolmente le possibilità di accertamento finalizzate alla vigilanza venatoria. Così come formulata la norma è, dunque, apparsa alla Corte incapace di assicurare la verifica dell’inamovibilità dell’anellino e la corretta stampigliatura del numero progressivo, nonostante potessero essere considerate come condivisibili le precisazioni riguardanti il rispetto dell’animale.

La Corte ha, pertanto, provveduto ad una parziale abrogazione della norma nella parte in cui prevedeva che l’attività di controllo “è svolta verificando unicamente la presenza dell’anellino sull’esemplare e”, conseguendo così il duplice obbiettivo di non limitare eccessivamente la funzione di controllo imponendo, contestualmente, la necessità di limitare al minimo necessario la manipolazione dell’animale.

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