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La Corte di giustizia risponde alla Corte costituzionale sulla questione dell’esclusione dal bonus bebè e maternità dei cittadini di paesi terzi titolari di permesso unico (3/2021)

Sentenza della Corte di giustizia (grande sezione) del 2 settembre 2021, causa C-350/20 INPS (Allocations de naissance et de maternité pour les titulaires de permis unique)

Su rinvio della Corte costituzionale, a sua volta prioritariamente adita dalla Suprema Corte di Cassazione, la Corte di giustizia ha chiarito che il diritto dell’Unione, in particolare l’art. 12, par. 1, della direttiva 2011/98 sul permesso unico, osta a disposizioni nazionali – quali l’art. 1, comma 125, della legge del 23 dicembre 2014, n. 190 (Legge di stabilità 2015) e l’art. 74 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) – che subordinano la concessione di prestazioni previdenziali ai sensi del regolamento (CE) 883/2004 – nella specie, l’assegno di natalità e l’assegno di maternità – alla condizione che i richiedenti cittadini di paesi terzi siano soggiornanti di lungo periodo.

Con la sentenza del 2 settembre 2021 nella causa C-350/20 INPS (Allocations de naissance et de maternité pour les titulaires de permis unique), la Corte di giustizia, riunita nella composizione della grande sezione, ha risposto al quesito pregiudiziale formulato dalla Corte costituzionale[1] circa l’interpretazione dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Sicurezza sociale e assistenza sociale»), dell’art. 3, par. 1, lettere b) e j), del regolamento (CE) n. 883/2004, sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale[2], e dell’articolo 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro[3]. Più precisamente, la Consulta si era rivolta alla Corte di giustizia per stabilire se prestazioni quali l’assegno di natalità e l’assegno di maternità previsti, rispettivamente, dall’art. 1, comma 125, della legge del 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2015)[4] e dall’art. 74 del d.lgs. del 26 marzo 2001, n. 151 (T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità)[5] rientrino nell’ambito applicativo dell’art. 34 della Carta e se l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98 osti a disposizioni nazionali quali quelle ricordate, nella misura in cui subordinano la concessione di tali prestazioni alla condizione che il cittadino di paese terzo sia titolare di un permesso di soggiorno di lungo periodo.

L’art. 12 della direttiva 2011/98, rubricato «Diritto alla parità di trattamento», prevede, al par. 1, lett. e), che «[i] lavoratori dei paesi terzi di cui all’art. 3, par. 1, lettere b e c), [della direttiva] beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne: (...) i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento [n. 883/2004]». A sua volta, l’art. 3, lettere b) e c), della direttiva stabilisce che quest’ultima si applica «ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002 (…); e ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale». Il regolamento 883/2004, ai sensi del suo art. 3, par. 1, lettere b) e j), si applica, tra l’altro, «a tutte le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti: le prestazioni di maternità e di paternità assimilate [e] le prestazioni familiari». Come precisato dall’art. 1, lett. z), l’espressione «prestazione familiare» designa tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I al regolamento stesso.

Giova ricordare che il giudice remittente – la Suprema Corte di Cassazione – aveva dedotto l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della legge 190/2014 e dell’art. 74 del d.lgs. 151/2001 con gli artt. 3, 31, e 117, comma 1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 della Carta. Nell’ordinanza di rinvio, la Corte costituzionale, in linea con il nuovo approccio alla gestione della doppia pregiudizialità in materia di diritti fondamentali – quale emerso dall’obiter dictum della sent. 269/2017, come precisato dalle sentenze 20 e 63 del 2019 e dall’ordinanza (di rinvio alla Corte di giustizia) 117/2019 –, ha ribadito di essere competente a sindacare gli eventuali profili di contrasto delle disposizioni nazionali con i diritti e i principi enunciati dalla Carta, di poter esperire – in quanto giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 267 TFUE – il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme della Carta, e di potere, all’esito di tale valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni contestate, rimuovendole dall’ordinamento giuridico nazionale con effetti erga omnes. Nella specie, la Consulta ha ritenuto necessario chiedere un chiarimento alla Corte di giustizia circa l’esatta interpretazione delle disposizioni di diritto UE rilevanti in virtù dell’esistenza di «una connessione inscindibile tra i princìpi e i diritti costituzionali evocati dalla Corte di cassazione e quelli riconosciuti dalla Carta, arricchiti dal diritto secondario, tra loro complementari e armonici»[6]. Inoltre, la Consulta riteneva di non poter stabilire, in base alla giurisprudenza esistente della Corte di giustizia, se le prestazioni in questione rientrino tra quelle previdenziali di cui al regolamento 883/2004.

In via preliminare, la Corte di giustizia ha ritenuto ricevibile la questione pregiudiziale anche nella parte relativa all’assegno di maternità, nonostante – secondo quanto precisato dal giudice remittente dinanzi alla Corte costituzionale – i fatti del procedimento principale fossero anteriori alla scadenza del termine di recepimento della direttiva 2011/98. Al riguardo, la Corte ha osservato (punto 40):

«una direttiva non può, certamente, essere invocata dai privati per fatti anteriori al suo recepimento al fine di veder disapplicate disposizioni nazionali preesistenti che sarebbero contrarie a tale direttiva. Occorre tuttavia rilevare che il giudice del rinvio non è il giudice chiamato a pronunciarsi direttamente sulle controversie principali, bensì un giudice costituzionale a cui è stata rimessa una questione di puro diritto – indipendente dai fatti addotti dinanzi al giudice di merito – questione alla quale esso deve rispondere alla luce sia delle norme di diritto nazionale che delle norme del diritto dell’Unione al fine di fornire non solo al proprio giudice del rinvio, ma anche all’insieme dei giudici italiani, una pronuncia dotata di effetti erga omnes, vincolante tali giudici in ogni controversia pertinente di cui potranno essere investiti. In tale contesto, l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal giudice del rinvio presenta un rapporto con l’oggetto della controversia di cui è investito, che riguarda esclusivamente la legittimità costituzionale di disposizioni nazionali rispetto al diritto costituzionale nazionale letto alla luce del diritto dell’Unione».

Venendo al merito, dopo aver osservato che l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98 «dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 34, paragrafi 1 e 2, della Carta» (punto 46), e che «l’ambito di applicazione dell’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva in questione è determinato dal regolamento n. 883/2004» (punto 47), la Corte di giustizia ha riformulato la questione pregiudiziale nel senso che il giudice del rinvio chiede «se l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98 debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che esclude i cittadini di paesi terzi di cui all’art. 3, par. 1, lettere b) e c), di tale direttiva dal beneficio di un assegno di natalità e di un assegno di maternità previsti da detta normativa» (punto 50).

La Corte si è quindi concentrata sull’ambito di applicazione del regolamento 883/2004, per stabilire se l’assegno di natalità e l’assegno di maternità in questione costituiscono prestazioni rientranti nei settori della sicurezza sociale di cui all’art. 3, par. 1, di tale regolamento. Da una giurisprudenza costante emerge che «la distinzione tra le prestazioni che rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e quelle che ne sono escluse è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua concessione, e non sul fatto che una prestazione sia qualificata o meno come previdenziale da una normativa nazionale» (punto 52). In particolare, «una prestazione può essere considerata prestazione previdenziale se, da un lato, è attribuita ai beneficiari, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege e se, dall’altro, si riferisce ad uno dei rischi espressamente elencati all’art. 3, par. 1, del regolamento n. 883/2004» (punto 53). Quanto alla prima condizione, sono da considerarsi prestazioni previdenziali quelle «attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi riguardanti in particolare le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare gli oneri familiari» (punto 54). Tale condizione non è invece soddisfatta laddove «la discrezionalità della valutazione, da parte dell’autorità competente, delle esigenze personali del beneficiario di una prestazione si riferisc[e] anzitutto al sorgere del diritto alla prestazione stessa» (punto 56).

Con riguardo, in particolare, alle «prestazioni familiari» di cui all’art. 3, par. 1, lett. j), del regolamento 883/2004, esse ricomprendono «tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I a tale regolamento», laddove l’espressione «compensare i carichi familiari» fa riferimento «a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli» (punto 57). Secondo quanto esposto dal giudice del rinvio, l’assegno di natalità in questione «è concess[o] automaticamente ai nuclei familiari che rispondono a determinati criteri oggettivi definiti ex lege, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente» (punto 58) e consiste in «una prestazione in denaro destinata in particolare, mediante un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento di un figlio appena nato o adottato» (punto 59). Inoltre, l’assegno di natalità in questione non è stato inserito nell’allegato I al regolamento (ibid.). Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto che tale assegno rientra tra le prestazioni familiari coperte dal regolamento, e che «[p]oco importa, al riguardo, che tale assegno abbia una duplice funzione, ossia, come affermato dal giudice del rinvio, sia la funzione di contributo alle spese derivanti dalla nascita o dall’adozione di un figlio che quella di natura premiale diretta ad incentivare la natalità, posto che una di tali funzioni si riferisce al settore previdenziale» (punto 60).

La Corte ha raggiunto la stessa conclusione anche per l’assegno di maternità, giacché esso «si riferisce al settore della sicurezza sociale di cui all’art. 3, par. 1, lett. b), del regolamento n. 883/2004» ed «è concesso automaticamente alle madri che rispondono a determinati criteri obiettivi definiti ex lege, [in particolare] tenendo conto, oltre che dell’assenza di un’indennità di maternità connessa a un rapporto di lavoro o allo svolgimento di una libera professione, delle risorse del nucleo di appartenenza della madre sulla base di un criterio obiettivo e definito ex lege, vale a dire l’indicatore della condizione economica, senza che l’autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali» (punto 62). Peraltro, l’Italia non si è avvalsa della facoltà offerta agli Stati membri di limitare la parità di trattamento, previsto all’art. 12, par. 2, lett. b), della direttiva 2011/98.

La Corte di giustizia ha quindi concluso che l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98 osta a disposizioni nazionali, quali quelle in questione, che subordinano la concessione di prestazioni previdenziali ai sensi del regolamento (CE) 883/2004 alla condizione che i richiedenti cittadini di paesi terzi siano soggiornanti di lungo periodo.

 

[1] Con l’ordinanza n. 182 del 2020.

[2] In GU 2004, L 166, p. 1, e rettifica in GU 2004, L 200, p. 1.

[3] In GU 2011, L 343, p. 1.

[4] Supplemento ordinario alla GURI n. 300, del 29 dicembre 2014.

[5] Supplemento ordinario alla GURI n. 96, del 26 aprile 2001.

[6] Ordinanza 182/2020, Considerato in diritto, punto 3.2. Per un commento, si v. in questa Rivista C. Masciotta, “La doppia pregiudizialità nella più recente giurisprudenza costituzionale”; sia altresì permesso rinviare a N. Lazzerini, “Dual Preliminarity within the Scope of the EU Charter of Fundamental Rights in the Light of Order 182/2020 of the Italian Constitutional Court”, European Papers, Vol. 5, 2020, No 3, European Forum, Insight of 25 November 2020, pp. 1463-1476.

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