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Editoriale n. 3/2021

Di CosimoSullo stato attuale delle istituzioni

1. Come era prevedibile, il Rapporto sulla legislazione 2021, presentato lo scorso 29 ottobre, conferma che l’egemonia del Governo sulla produzione normativa perdura anche nella XVIII legislatura. Per delineare i tratti essenziali della situazione basterà richiamare due dati: da un lato, quasi metà delle norme di livello primario proviene dall’Esecutivo (il Rapporto evidenzia in particolare le dimensioni, sempre crescenti, e la multisettorialità dei decreti-legge); dall’altro, l’80% delle leggi esprimono variamente la volontà normativa del Governo, essendo leggi di conversione di decreti-legge, leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, leggi di bilancio.


E la situazione non muta se si presta attenzione all’aspetto sostanziale, poiché le scelte politiche di maggior rilievo sono state prese con lo strumento della decretazione d’urgenza.
Sappiamo che in una certa misura tutto ciò è inevitabile, prova ne sia che si tratta di tendenze comuni ad altre democrazie europee, come pure ricorda il Rapporto. Proprio per questo, per evitare eccessivi disequilibri nella forma di governo, il Parlamento dovrebbe almeno reggere sul terreno del controllo dell’attività dell’Esecutivo. Eppure, anche qui si registrano rilevanti criticità dovute ad alcuni risaputi fattori distorsivi: l’esasperato ricorso alla questione di fiducia, spesso in abbinata con i maxiemendamenti governativi, in primo luogo; e poi la tardiva presentazione del disegno di legge del bilancio, come è accaduto anche quest’anno, che impedisce un effettivo esame da parte del secondo ramo parlamentare, col risultato che in questi casi si sperimenta un monocameralismo di fatto, solo per citare i principali. E la presa sui processi normativi aumenta quando il Governo adopera contemporaneamente più strumenti di condizionamento delle decisioni parlamentari: esemplare il caso della questione di fiducia nel procedimento di conversione dei decreti-legge, alla quale, documenta il Rapporto, il Governo ha fatto ricorso dall’inizio della legislatura nella quasi metà dei casi in un ramo del Parlamento, e quasi in un terzo di essi in entrambe le camere.

2. Al dominio governativo nella produzione normativa, si sommano alcuni segni di debolezza del Parlamento. Il principale è la decrescente capacità di elaborazione ed approfondimento che connota l’attività parlamentare. Il Parlamento dovrebbe essere una «fucina ove idee e sensibilità si trasformano in linee politiche» (la definizione è del Presidente Matterella, intervento davanti alle Cortes del 17 novembre), ma ormai ciò accade sempre più raramente. Questo aspetto rimanda alla retrostante condizione dei partiti, che non sembrano più in grado di fare articolate proposte politiche, riflettere e presentare soluzioni meditate ai problemi in agenda.
Un altro segno è la riluttanza a disciplinare quel poco che sfugge alla sfera di influenza dell’Esecutivo, corrispondente principalmente alle questioni eticamente sensibili e ai diritti civili. Da ultimo, è accaduto il 27 ottobre con la decisione del Senato di non passare all’esame delle norme sul contrasto della discriminazione e della violenza per sesso, genere, orientamento sessuale e disabilità, norme già approvate in prima lettura dalla Camera nel novembre dello scorso anno. Ferme restando le ragioni politico-ideologiche che spiegano la scelta, dal punto di vista istituzionale assume il significato di un’autolimitazione dell’Assemblea, oltre a costituire il frutto di una discutibile interpretazione del regolamento, essendosi fatto ricorso al voto segreto per decidere una questione procedurale.
I segni di debolezza chiamano in campo la questione davvero centrale della qualità della classe politica. A tal riguardo è significativo che nelle elezioni amministrative dell’ottobre scorso una parte delle forze politiche abbiano fatto ricorso alla società civile, dato in sé positivo, se non fosse che in alcuni casi hanno scovato personaggi improbabili. L’episodio rimanda alla ormai cronica difficoltà di selezionare personale politico all’altezza del compito, che si riscontra anche a livello nazionale, tanto che nemmeno i tentativi di esplorare strade nuove, come l’utilizzo di forme di democrazia diretta in salsa digitale per scegliere i candidati alle elezioni politiche, sembrano aver risolto, anzi. Occorrerebbe tornare ad investire seriamente sulla formazione, abbandonando strumenti (come i listini nella legge elettorale, per esempio) funzionali alla fedeltà ai capipartito piuttosto che all’indipendenza di giudizio. Inutile dire che tutto ciò implica un profondo (e perciò poco realistico) ripensamento dell’assetto del sistema partitico, che attualmente si è ridotto a fungere, in larga parte, da corte adorante dei vari capipartito.

3. Nel quadro si inserisce il dato della ridotta partecipazione alle elezioni amministrative. Non è questa la sede per soffermarsi sulle cause del crescente astensionismo, solitamente meno accentuato alle elezioni politiche, ma va rilevato che una di esse riconduce alla citata questione della qualità del personale politico.
Su questo fronte si scorge peraltro anche qualche luce, poiché le ricerche sul campo documentano un persistente desiderio di partecipazione democratica che, evidentemente, non trova soddisfazione nell’attuale offerta politica. Basta pensare che, se è vero che solo una minoranza dei cittadini partecipa direttamente alla vita politica, una larga maggioranza, il 75%, vi partecipa in modo indiretto (fonte: Report Istat, La partecipazione politica in Italia. 2019, 24 giugno 2020). Del resto, da ultimo questo desiderio si è manifestato quando, in conseguenza di una semplice modifica legislativa, sono ripartite con forza le campagne referendarie in corso. Il fenomeno è stato per lo più letto con preoccupazione, ma alla scadenza del 31 ottobre per il deposito in Cassazione delle richieste referendarie, la raccolta delle firme digitali è risultata decisiva solo per due richieste su cinque, e vi sono state iniziative (i quesiti sul green pass) che non ce l’hanno fatta malgrado l’innovazione procedurale. Ciò suggerisce di non demonizzare la cosiddetta Spid democracy e di interpretarla piuttosto come un segno di vitalità democratica, che potrebbe perfino aiutare la democrazia parlamentare, spronandola ad affrontare le complesse questioni sul tavolo.

4. Secondo una diffusa opinione, soluzioni a tutti questi problemi andrebbero cercate sul terreno delle riforme istituzionali. A tal riguardo si deve registrare il paradosso per cui riforme necessarie per migliorare il funzionamento istituzionale, come la modifica del bicameralismo perfetto, non riescono ad arrivare in porto, mentre hanno successo riforme, come la riduzione del numero dei parlamentari, il cui impatto è quantomeno dubbio. Fra l’altro, non sono ancora state realizzate le riforme regolamentari che gli stessi promotori e sostenitori del taglio del numero dei parlamentari indicavano come necessarie per correggerne gli effetti disfunzionali. Vedremo se nell’ultima parte della legislatura le forze politiche riusciranno ad accelerare tenuto conto che, nelle prossime settimane, si profila una sovrapposizione con alcune impegnative scadenze quali la procedura di bilancio e l’elezione del Presidente della Repubblica. Va in questa direzione l’iniziativa del Presidente della Camera che il 27 ottobre ha nominato due relatori nella Giunta per il regolamento per elaborare una proposta di modifica del regolamento alla luce della riforma.
Ancora aperto è invece il cantiere delle regole elettorali, per quanto, al momento, paia improbabile che si realizzino le condizioni politiche per l’ennesima modifica. Ad ogni modo, qualora invece ciò accada, l’esperienza suggerisce di non alimentare eccessive aspettative, dato che nei vari tentativi fin qui sperimentati le forze politiche non hanno saputo trovare soluzioni capaci di conciliare convenientemente stabilità e rappresentanza.
In una prospettiva più ampia, va osservato che, da un lato, alcuni problemi non sono aggredibili per mezzo delle riforme istituzionali, si pensi particolarmente alla questione della qualità della classe politica, e dall’altro, che i cambiamenti istituzionali più profondi si impongono per via di prassi, come accaduto con la conquista dell’egemonia da parte dell’Esecutivo. Più recentemente, questa dinamica si è riproposta con il funzionamento di fatto monocamerale dell’Assemblea che, oltre ai ritardi del Governo, dipende anche dalla tendenza, nell’ambito della procedura di conversione dei decreti-legge, della prima camera di dilungarsi nell’esame ben oltre la metà dei sessanta giorni disponibili, col risultato che la seconda ha appena il tempo di avallare le decisioni della prima (il Rapporto sulla legislazione 2021 definisce questo fenomeno con l’espressione “monocameralismo alternato”). E viene perfino auspicata agli inizi di novembre dal ministro per lo sviluppo economico, secondo il quale il Presidente del consiglio dovrebbe ascendere al Quirinale e da lì continuare a «guidare il convoglio», realizzando così un semipresidenzialismo de facto. Ipotesi che, sia detto per inciso, cozza frontalmente con il dettato costituzionale che non contempla l’elezione diretta del Presidente, e attribuisce al Presidente del consiglio la direzione politica dell’Esecutivo, senza dire che nega la fondamentale differenza fra ruoli di garanzia e ruoli di governo.
Del resto, l’idea che sia necessario cambiare la forma di governo riemerge periodicamente. In questi giorni è tornata ad affacciarsi sulla scena la proposta di adottare il presidenzialismo, prospettata senza apparente considerazione dei rischi a cui questa formula espone in determinati frangenti politici e sociali, come mostra il ruolo svolto del Presidente Trump nella vicenda del drammatico assalto a Capitol Hill il 6 gennaio scorso. Oltretutto, si è proposto di procedere al mutamento della forma di governo addirittura attraverso un’assemblea costituente, malgrado manchino del tutto le condizioni che giustificano un simile passaggio epocale, che comporterebbe la fine della Costituzione repubblicana.

5. Il quadro attuale dello stato delle istituzioni include, infine, il senso di frustrazione della politica nazionale indotto dal progressivo restringimento dello spazio decisionale, visto che l’agenda politica è dettata dall’Unione europea, che indica i dossier da affrontare e gli obiettivi da raggiungere (compito che in questa fase impegna soprattutto il Governo). Attualmente questo aspetto è enfatizzato dalla necessità di attuare l’ambizioso piano di ripresa che va sotto il nome di Next Generation EU e di ottenere le ingenti risorse economiche messe a disposizione dall’Unione per superare i danni provocati dalla pandemia a carico del sistema sociale ed economico.
Volgendo per un attimo lo sguardo in avanti, sembra verosimile che alcune riforme legate al PNRR avranno un impatto istituzionale, basta pensare a quella della giustizia. Difficilmente, però, consentiranno di correggere i citati squilibri fra i poteri e le segnalate criticità del sistema istituzionale. È molto probabile che finiranno piuttosto per potenziare ancor più il ruolo del Governo (e al suo interno, dato l’assetto che il sistema politico-istituzionale ha assunto in questa delicata fase della pandemia, la figura del Presidente del consiglio). Nondimeno si può sperare che siano al contempo l’occasione per rinnovare la classe politica, dando spazio alle migliori energie che vanno cercate anche, se non soprattutto, fuori dal circuito partitico.


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