Notizia n. 5 (2/2015)

Atti discriminatori basati sull’orientamento sessuale come componenti di un atto disumano e degradante: la pronuncia della Corte EDU nel caso Identoba and Others v. Georgia

1. Premessa

I reati generati dall’odio e le violenze contro persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (indicate con l’acronimo LGBT) costituiscono sfide costanti per la tutela dei diritti umani. A differenza di altri strumenti giuridici vigenti a livello europeo, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (d’ora innanzi “CEDU”) non indica la tutela dell’orientamento sessuale come un diritto umano specifico e autonomo. Tuttavia, un’ormai consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (d’ora innanzi “Corte”) ha permesso di individuare alcuni diritti fondamentali di cui le persone LGBT godono, indirizzando le legislazioni nazionali a una maggiore sensibilità verso tali questioni. In particolare, la Corte ha più volte fatto riferimento alla necessità di tutelare la libertà contenuta nell’Art. 8 della CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) come chiave di lettura nei casi relativi all’orientamento sessuale e all’identità di genere[1]. Nel corso del tempo, i giudici di Strasburgo hanno accolto le ragioni dei ricorrenti sulla base anche di altre libertà sancite dalla CEDU, come il diritto al rispetto della proprietà (Art. 1 del Protocollo n.1), il diritto alla libertà di riunione e di associazione (Art. 11), il diritto a un processo equo (Art. 6) e il diritto a un ricorso effettivo (Art. 13)[2]. Infatti, la manifestazione dell’orientamento sessuale non può essere definita solo come una questione di natura privata, ma presenta implicazioni rilevanti per la dimensione pubblica. Per tale ragione, insieme al diritto al rispetto della vita privata e familiare, quello alla non discriminazione è senza dubbio il diritto più invocato nelle cause relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere. L’ art. 14 ha acquisito una progressiva rilevanza in materia, ponendo il divieto di compiere atti discriminatori nel riconoscimento dei diritti e delle libertà ivi sanciti e che siano fondati sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione. In ragione della natura non esaustiva dei motivi di discriminazione enunciati dalla disposizione, l’orientamento sessuale è stato considerato più volte come tutelato dall’ art. 14. Tuttavia, esso rileva unicamente in combinato con gli altri diritti sanciti nella CEDU o rispetto a diritti che, pur non essendo affermati in modo esplicito in essa, trovano in essa la loro base giuridica[3]. Solo il Protocollo n. 12 prevede un generale divieto di discriminazione per quegli Stati che lo hanno ratificato, il cui numero risulta ancora esiguo.

Occorre comunque rilevare che l’orientamento sessuale è stato più volte tutelato dalla Corte contro le ingerenze delle autorità pubbliche in questioni che si considerano intimamente correlate agli elementi fondamentali della dignità personale.

Da ultimo, il 12 maggio scorso, la Corte ha pronunciato una sentenza (Application n. 73235/12) da molti considerata storica. Per la prima volta infatti, la Corte ha riconosciuto una relazione tra il contenuto dell’art. 3 (divieto di commissione di atti di tortura e altri trattamenti disumani e degradanti) e il divieto di discriminazione sancito dell’ art. 14 della CEDU.

2. Il contesto e i fatti della controversia 

Prima di riportare il contenuto della decisione della Corte, è necessario ricordare che negli ultimi anni la Georgia ha avviato un percorso di riforme importante per quanto riguarda la tutela delle persone LGBT. Nel 2010 l’European Commission against Racism and Intolerance (di seguito ECRI)aveva, infatti, pubblicato un rapporto nel quale esprimeva la sua preoccupazione per il fatto chei membri delle minoranze etniche e sessuali fossero soggetti a discriminazioni e violenze crescenti nel Paese[4].L’ECRI aveva invitato, quindi, le autorità georgiane a intensificare la lotta contro le discriminazioni e ad adeguare il corpus legislativo esistente. Su spinta delle associazioni nazionali, il 27 marzo 2012, con una emendamento all’Art. 53 del Codice Penale della Georgia, è stato così inserito il movente discriminatorio, compreso quello basato sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, come circostanza aggravante nella commissione di un atto illecito[5]. L’introduzione dell’aggravante per omofobia è un fatto significativo, ma la situazione della comunità LGBT in Georgia non è ancora soddisfacente dal momento che spesso di verificano atti di violenza e discriminazioni nei suoi confronti, come testimoniato dal caso in esame.  

I fatti di Identoba and Others v. Georgia risalgono al 2012 quando l’organizzazione Identoba decise di organizzare una marcia pacifica nel centro di Tiblisi per il 17 maggio al fine di celebrare la giornata internazionale contro l’omofobia. Per la realizzazione di tale evento, l’associazione aveva informato preventivamente le autorità locali secondo le procedure previste, richiedendo peraltro che venisse garantita ai manifestanti una sufficiente protezione. 

Tuttavia, il giorno della marcia i manifestanti furono attaccati da alcuni membri di due organizzazioni religiose, l’Unione dei Genitori Ortodossi e la Fratellanza di Saint King Vakhtang Gorgasali. All’accerchiamento seguirono pesanti insulti e aggressioni che hanno procurato gravi lesioni fisiche a diversi dimostranti. Secondo i ricorrenti, i corpi di polizia presenti nelle immediate vicinanze erano rimasti immobili di fronte agli scontri e alle richieste di aiuto. Inoltre, tre membri di Identoba furono condotti forzatamente nelle auto della polizia.

Il giorno seguente, i ricorrenti presentarono numerosi reclami al Ministero degli Affari Interni e al Procuratore Generale, perché aprissero un fascicolo di indagine sugli attacchi fisici e verbali perpetrati contro di loro dai conto-dimostranti nonché sulle azioni ed omissioni degli ufficiali di polizia che non si erano rivelati in grado di proteggerli, senza ottenere tuttavia un riscontro positivo alle loro istanze da parte delle autorità georgiane.

Viste tali premesse, i ricorrenti decisero di far ricorso alla Corte Europea, sostenendo la violazione dell’art. 3 della CEDU in combinato con l’art. 14 per le gravi lesioni fisiche e psicologiche subite, lamentando il fatto che le autorità nazionali non avevano risposto in modo tempestivo ai gravi attacchi perpetrati nei loro confronti durante la manifestazione pacifica. Inoltre, le autorità avrebbero violato l’obbligo di condurre indagini effettive e significative per individuare i responsabili di tali crimini. È poi stata proposta la violazione dell’art. 5 in relazione ai quattro ricorrenti arrestati e detenuti dalla polizia senza alcuna motivazione giuridicamente valida. In particolare, lo Stato è stata contestata la violazione del diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti sancito all’art. 8 della Convenzione con riferimento alla mancata tutela dell’integrità personale e sessuale. In relazione all’art. 10, lo Stato è stato accusato di non aver salvaguardato il diritto dei ricorrenti di esprimere liberamente le loro opinioni e convinzioni. Infine, i ricorrenti hanno fatto riferimento alla violazione dell’art. 11 (libertà di associazione) perché lo Stato non era intervenuto per rimuovere gli ostacoli ai manifestanti, dell’art. 13 per non aver garantito loro l’accesso a un rimedio effettivo e dell’art. 14 per il movente della discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale.

3. La soluzione della Corte e il rapporto tra Art. 3 e Art. 14 CEDU

Dopo l’analisi della posizione di Identoba[6], la Corte ha proceduto a valutare l’eventuale violazione dell’art. 3 in combinato con l’art. 14 della CEDU. La libertà dalla tortura e altre forme di maltrattamento è riconosciuta come un diritto di importanza fondamentale nell’ambito del diritto internazionale e la Corte ha offerto un contributo rilevante nell’indicazione di alcuni parametri normativi di questo diritto. In particolare, perché l’art. 3 entri in gioco, occorre un livello minimo di gravità della condotta. La prima questione nel caso Identoba ha riguardato proprio il raggiungimento o meno della cosiddetta “soglia minima di severità”. Sin dalle prime sentenze in materia, la Corte ha affermato che possono essere contraddistinte come condotte illecite ai sensi di suddetta norma solo quelle che si caratterizzano per il disprezzo della dignità umana della vittima[7].[8]. Il concetto di gravità è relativo, in quanto opera in base a circostanze e fattori specifici del caso concreto, secondo un elenco non tassativo e quindi mutabile caso per caso. Inoltre, inizialmente la Corte si è trovata a dover creare una gerarchia tra gli atti indicati nell’art. 3, distinguendo tra atti di tortura con seuil superieur, trattamenti disumani con seuil intermediaire e trattamenti degradanti con seuil minimun declenchement de l’Article 3[9]. La valutazione circa il superamento della soglia minima di gravità ha seguito due criteri, uno legato alle circostanze oggettive del fatto, quali la durata del trattamento e la gravità dello stesso, e l’altro richiamante le qualità soggettive della vittima, come ad esempio l’età, il sesso o le condizioni psicologiche. Infatti, la portata dell’art. 3 non può essere limitata alla sola sofferenza fisica, ma deve essere estesa anche a quella psicologica soprattutto quando è volta a minacciare la dignità dell’individuo, suscitando sentimenti di paura, angoscia e inferiorità [10]. Ai fini della valutazione sul raggiungimento della soglia minima di gravità, i giudici di Strasburgo hanno poi preso in considerazione anche condizioni di natura soggettiva, quali l’appartenenza della vittima a un gruppo “svantaggiato e vulnerabile” o la sua qualità di richiedente asilo[11].

 

Per quanto riguarda il caso in esame, la Corte ha inteso consolidare il puro elemento psicologico come parte integrante di un illecito ai sensi dell’art. 3. Infatti, essa ha accolto il ricorso dei tredici ricorrenti ritenendo che fossero stati proprio gli insulti, le parole d’odio e di minaccia lanciati dai contro-dimostranti, più che i maltrattamenti fisici, a determinare una sofferenza tale da raggiungere la soglia minima di gravità richiesta ai fini dell’applicazione dell’art. 3. Come sostenuto dai giudici, i sentimenti di paura, insicurezza e pena generati dai suddetti comportamenti non possono essere considerati compatibili con il rispetto della dignità dell’uomo. In particolare, è stato sottolineato che la natura omofoba e discriminatoria di tali offese rappresentano una circostanza aggravante nella commissione di un atto illecito, facendo dunque chiaro riferimento al contenuto dell’art. 14. Difatti, nonostante tale disposizione non menzioni specificamente l’orientamento sessuale come motivo di discriminazione, la Corte già nel caso Salgueiro da Silva Mouta c. Portogallo del 1999 aveva contribuito a chiarire che l’orientamento sessuale si costituisce come motivo di discriminazione a sé stante[12]. Alla luce di tali valutazioni, per la prima volta la Corte di Strasburgo ha dunque applicato il principio di non discriminazione al contenuto dell’art. 3, considerando azioni e soprattutto parole di carattere marcatamente discriminatorio e omofobo come componenti di un trattamento disumano e degradante.

 

Una volta appurato che atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti possono essere costituiti anche da comportamenti chiaramente discriminatori nei confronti di persone di diverso orientamento sessuale, la Corte ha esaminato come questo possa rappresentare una violazione degli obblighi dello Stato. Infatti, in ragione dell’art. 3 della CEDU, grava sugli Stati membri un obbligo negativo di astensione, che sancisce il divieto di infliggere agli individui un trattamento disumano o degradante oppure un atto di tortura. Allo stesso tempo esistono degli obblighi positivi, i cosiddetti obblighi di fare, o meglio di garantire una protezione efficace anche dall’azione di agenti privati, prevenire tali atti e condurre indagini ufficiali ed adeguate nei confronti dei presunti responsabili di tali illeciti[13]. In effetti, una connessione tra i due articoli in esame era stata individuata una volta soltanto, quando il divieto sancito nell’art. 3 era stato applicato alle persone omosessuali in situazioni di detenzione[14]. Nel caso in esame, la Corte è andata oltre questa impostazione, ritenendo che lo Stato avesse violato i propri obblighi positivi. Infatti, le autorità avrebbero dovuto tenere conto dei “various reports on the rights of lesbian, gay, bisexual and transgender people in Georgia” e riconoscere che nel Paese la comunità di LGBT si trova in una posizione precaria[15]. Le autorità invece non solo non hanno adeguatamente protetto le vittime, ma non hanno neanche condotto indagini sufficientemente efficaci per individuare e perseguire coloro che hanno commesso atti di violenza derivanti da pregiudizi basati sull’orientamento sessuale. In particolare, la Corte ha affermato che “prejudice-motivated crimes would unavoidably be treated on an equal footing with ordinary cases without such overtones, and the resultant indifference would be tantamount to official acquiescence to or even connivance with hate crimes”[16]. Da tale affermazione emerge poi qualcosa in più, ovvero che il mancato perseguimento di questa tipologia di crimini potrebbe perfino integrare una forma di connivenza con gli autori dell’atto illecito, generando dunque una responsabilità diretta per lo Stato.

 

In conclusione, la pronuncia nel caso Identoba and Others c. Georgia è significativa perché la Corte ha ampliato la portata dell’art. 3 affermando che le espressioni di odio basate sull’orientamento sessuale possano costituire atti disumani e degradanti, anche qualora non integrino violenze di carattere fisico e ha valorizzato l’esistenza di obblighi positivi in questa materia.

 


[1] Corte EDU, Kozak c. Poland, 2 marzo 2010, n. 13102/02: “Undoubtedly, sexual orientation, one of the most intimate parts of an individual’s private life, is protected by Article 8 of the Convention”.

[2] Per un’analisi approfondita della giurisprudenza della Corte Europea in materia, si veda, F. EDEL, Case law of the European Court of Human Rights relating to discrimination on grounds of sexual orientation or gender identity, Council of Europe, marzo 2015. Inoltre, M. C. VITUCCI, La tutela internazionale dell’orientamento sessuale, Jovene Editore, Napoli 2012, pp. 79 ss.

[3] In tal senso si è espressa anche la stessa Corte in numerose occasioni, affermando che: “Article 14 of the Convention complements the other substantive provisions of the Convention and the Protocols. It may be applied in an autonomous manner as a breach of Article 14 does not presuppose a breach of those other provisions although, since it has no independent existence, it can only come into play where the alleged discrimination falls within the scope of the rights and freedoms safeguarded by the other substantive provisions”, Corte EDU, Kosteski c. Ex-Repubblica Iugoslava di Macedonia, caso n. 55170/00, sentenza del 13 aprile 2006, par. 44.

[4] CoE, ECRI Report in Georgia, 15 giugno 2010, in www.coe.int/t/dghl/monitoring/ecri/Country-by-country/Georgia/GEO-CbC-IV-2010-017-ENG.pdf

[5] Art. 53 par. 3(1) del Codice Penale georgiano: “The commission of any offence listed in the present Code on the grounds of any type of discrimination, such as, for instance and not exclusively, that linked to race, skin colour, language, sex, sexual orientation and gender identity, age, religion, political and other views, disabilities, citizenship, national, ethnic or social background, origin, economic status or societal position or place of residence shall be an aggravating circumstance”.

[6] In qualità di organizzazione, Identoba non poteva pretendere di essere vittima di violazioni degli Articoli 3 e 8 della Convenzione seppur letti in congiunzione con gli Articoli 13 e 14. Tuttavia, la Corte ha comunque inteso la nozione di vittima estendendola anche a persone giuridiche per quanto riguarda gli Articoli 10, 11 e 14, come peraltro sancito in casi precedenti. Si veda, Corte EDU, Hyde Park and Others c. Moldova, par. 32, 14 Settembre 2010; Plattform “Ärzte für das Leben” v. Austria, 21 Giugno 1988, Series A n. 139.

[7] Nel leading case Irlanda c. Regno Unito, i giudici avevano infatti affermato che “ill-treatment must attain a minimum level of severity if it is to fall within the scope of Article 3. The assessment of this minimum is, in the nature of things, relative; it depends on all the circumstances of the case, such as the duration of the treatment, its physical or mental effects and, in some cases, the sex, age and state of health of the victim, etc” (Corte EDU, Irlanda c. Regno Unito, par. 162). Sul punto si veda anche, Corte EDU, Tomasi c. Francia, par. 114; Corte EDU, Klaas c. Germania, n. 15473/89, par. 23 e ss., Corte EDU, Hurtado c. Svizzera, n. 17549/90, par.12.

[8] Corte EDU, Irlanda c. Regno Unito, par.162.

[9] F. SUDRE, “Article 3”, in L. E. PETTITI, E. DECAUX, P. H. IMBERT (a cura di), La Convention Europeenne des Droits de l’Homme – Commentaire article par article, Paris, Economica, 1999, p. 159 ; YUTAKA ARAI-YOKOI, “Grading Scale fo Degradation: Idendtifying the threshold of degrading treatment or punishment under article 3 ECHR”, in NQHR, Vol. 21, n. 3, pp. 385-421, 2003.

[10] Corte EDU, Identoba and Others c. Georgia, par. 65.

[11] Sul punto, si veda Corte EDU, Oršuš e a. c. Croazia.

[12] Sul punto si veda, EUROPEAN COMMISSION, Combating Sexual Orientation Discrimination in the European Union, Dicembre 2014, p. 12 e ss.

[13] In effetti, per quanto riguarda l’emergere della responsabilità dello Stato per violazione dell’Articolo 3, la Corte ha più volte affermato che non è necessario l’intento di commettere tali atti, ma è sufficiente che siano stati violati obblighi di due diligence anche in situazioni orizzontali, non avendo adottato misure adeguate o essendo stato negligente nel proteggere un individuo dagli attacchi di un altro privato.

[14] Corte EDU, X c. Turchia, 9 ottobre 2012, par. 55-56.

[15] Corte EDU, Identoba and Others c. Georgia, par. 68. Ai fini della sua valutazione in merito, la Corte ha preso in esame sia la posizione del Consiglio d’Europa (Recommendation CM/Rec(2010)5) che il Rapporto Annuale (2013) dell’International Lesbian and Gay Association (ILGA), che chiaramente lamentavano la mancata tutela nei confronti di tali minoranze.

[16] Corte EDU, Identoba and Others c. Georgia, par. 77. 

Osservatorio sulle fonti

Rivista telematica registrata presso il Tribunale di Firenze (decreto n. 5626 del 24 dicembre 2007). ISSN 2038-5633.

L’Osservatorio sulle fonti è stato riconosciuto dall’ANVUR come rivista scientifica e collocato in Classe A.

Contatti

Per qualunque domanda o informazione, puoi utilizzare il nostro form di contatto, oppure scrivici a uno di questi indirizzi email:

Direzione scientifica: direzione@osservatoriosullefonti.it
Redazione: redazione@osservatoriosullefonti.it

Il nostro staff ti risponderà quanto prima.

© 2017 Osservatoriosullefonti.it. Registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5626 del 24 dicembre 2007 - ISSN 2038-5633