Editoriale n. 3/2020

foto prof. Nicola Lupo

Dopo la riduzione dei parlamentari e nel mezzo della pandemia, una “finestra d’opportunità” per il rinnovamento del parlamentarismo in Italia?

1. L’esito del referendum costituzionale del 20-21 settembre 2020 sulla riduzione di deputati e senatori non ha sorpreso i più. Ci si aspettava una vittoria dei favorevoli alla revisione, e tale è stata, in effetti: con un distacco record, in termini percentuali, se paragonato a quelli registratisi negli altri tre referendum costituzionali fin qui svoltisi (due dei quali, com’è noto, con vittoria dei contrari, nel 2006 e nel 2016; e uno con prevalenza dei favorevoli, nel 2001).

Lo slittamento del voto referendario da marzo a settembre e il suo abbinamento, inedito, alle elezioni in sette Regioni e in numerosi comuni non sembrano aver alterato il quadro. Lo slittamento ha anzi consentito un po’ di dibattito in più circa le possibili conseguenze originate dalla riduzione di deputati e senatori. La prevalenza dei voti favorevoli si è registrata pressoché ovunque e l’accresciuta partecipazione al voto derivante dall’abbinamento tra referendum ed elezioni non ha prodotto effetti di rilievo.
Com’è noto, quella sottoposta agli elettori – qui sì, un po’ a sorpresa, visto l’amplissimo consenso con cui la riforma era stata approvata, specie nell’ultima votazione alla Camera – era una micro-revisione costituzionale, ma, come giustamente si è notato (E. Cheli, Al di là del “sì” e del “no”, in www.rivistailmulino.it, 3 settembre 2020), certo “non ‘piccola’ per la carica di potenzialità che presenta sia sulle brevi sia sulle lunghe distanze”.
Del resto, il contenuto puntuale della riforma ne ha sicuramente agevolato il cammino, sia in Parlamento – dove in pochi hanno osato contrapporvisi – sia, soprattutto, nel referendum: si è così impedito, infatti, che contro di essa si coalizzassero le opinioni critiche di tutti coloro che non erano soddisfatti di uno o dell’altro dei suoi contenuti (oltre, ovviamente, gli interessi che ne venivano ad essere intaccati).

2. L’esito positivo del referendum costituzionale sembrerebbe segnare la riattivazione del cantiere delle riforme costituzionali, che dopo l’esito opposto del referendum del 4 dicembre 2016 era parso doversi interrompere per almeno un decennio.
Ovviamente, riattivatosi il cantiere, si discute ora se e in che direzione indirizzare i “lavori in corso”, di qui alla fine della XVIII legislatura: se cioè puntare nuovamente a riforme costituzionali più ambiziose, a partire da quelle rivolte a mettere mano al bicameralismo; o se limitarsi piuttosto ad ulteriori interventi di carattere puntuale, in qualche modo diretti a completare il lavoro intrapreso con la riduzione dei parlamentari.
Al di là di ogni valutazione di merito, il giudizio su queste riforme, dal punto di vista sistemico, varia a seconda di come si interpreti l’esito referendario: se lo si considera autonomamente, come segno di una rinnovata spinta all’innovazione istituzionale, anche le opzioni più impegnative parrebbero legittimamente percorribili; se invece lo si inquadra nell’ambito di un percorso ultratrentennale, nel quale sono regolarmente fallite, per una ragione o per l’altra, tutte le riforme del bicameralismo volte a differenziare composizione e funzioni delle due Camere, allora la prima via non dovrebbe considerarsi praticabile e sarebbe meglio percorrere solo la seconda. Semmai, concentrando l’attenzione e la tensione riformatrice su interventi sub-costituzionali volti a far funzionare meglio il bicameralismo paritario.
Questa seconda opzione appare a maggior ragione quella preferibile se si guarda al quadro politico attuale, il quale non sembra lasciare intravedere grande spazio per progetti di riforma costituzionale di ampio respiro. Emblematiche in tal senso paiono le difficoltà da ultimo incontrate persino nell’approvazione di una micro-revisione costituzionale assolutamente sacrosanta, e a parole ampiamente condivisa, e perfettamente coerente con la riduzione dei parlamentari, tant’è che ben avrebbe potuto trovare posto all’interno della legge costituzionale n. 1 del 2020, quale è l’abbassamento a 18 anni dell’elettorato attivo del Senato.

3. Nella discussione attualmente in corso il profilo relativo alle fonti del diritto viene ovviamente in rilievo, posto che la riduzione dei parlamentari richiede di essere completata, più che da ulteriori interventi di revisione costituzionale, da una riforma della legge elettorale e da un complessivo ripensamento dei regolamenti di Camera e Senato.
L’intreccio tra revisioni costituzionali puntuali, nuova legge elettorale e regolamenti parlamentari riformati non è facilissimo da dipanare e richiede una complessa e serrata regia sul piano temporale, su quello procedurale e su quello contenutistico.
È presumibile che la nuova legge elettorale sarà (forse) definita – secondo un pessimo costume italico, che ovviamente determina effetti assai deleteri sui più elementari meccanismi della responsabilità politica – solo a fine legislatura, a ridosso dello scioglimento delle Camere, e magari in connessione con l’accordo che dovrebbe portare all’elezione del Presidente della Repubblica.
Se è così, ci si può domandare se abbia senso intanto procedere comunque, pur con questa pesante incognita, e senza neppure conoscere l’esito di ulteriori micro (o macro) interventi di revisione costituzionale, alla revisione dei regolamenti parlamentari. Già in altra sede si è avuto modo di rispondere affermativamente a questo interrogativo (N. Lupo, Tutto ciò che si può (e si deve) fare con i regolamenti parlamentari, all’indomani del referendum costituzionale, in www.federalismi.it, 21 ottobre 2020), e non solo perché poi non è scontato che riforme costituzionali ed elettorali saranno effettivamente approvate, ma perché a venire in questione, specie dopo la riduzione dei parlamentari, è oggi la matrice originaria dei regolamenti parlamentari: quella in virtù della quale essi sono tenuti ad assicurare la funzionalità dell’assemblea e del variegato assieme degli organi collegiali che la circondano. A partire dalla prossima legislatura, il Parlamento apparirà inevitabilmente assai diverso rispetto a quello attuale, ed avrà bisogno di regole diverse per essere posto in grado di funzionare.
Le commissioni permanenti e i gruppi parlamentari per come oggi li conosciamo rispondono al modello disegnato nella Camera dei deputati prefascista nel 1920, esattamente un secolo or sono, e poi recuperato all’indomani del fascismo sia per la Consulta nazionale, sia per la stessa Assemblea Costituente, sia infine per le due Camere del Parlamento repubblicano. Ebbene, i caratteri di quel modello, a suo tempo preferito dai partiti politici di massa, si trovano ad essere posti in discussione, nella situazione attuale, in conseguenza per un verso della crisi dei partiti (esemplificata dalla ingente e persistente mobilità parlamentare che ha caratterizzato le ultime 8 legislature) e per altro verso della drastica riduzione di deputati e senatori.
Nel ridisegnare le commissioni e i gruppi i regolamenti parlamentari hanno campo sostanzialmente libero, senza cioè incontrare vincoli costituzionali significativi. Potrebbero persino, per dire, senza con ciò porsi in contrasto con la Costituzione, spingersi ad abolire le commissioni permanenti e a dare origine a commissioni speciali composte in modo non proporzionale rispetto ai gruppi (ad esempio, con composizione paritaria tra maggioranza e opposizione), purché questi organi non esercitino poteri di inchiesta, né si sostituiscano all’assemblea nel procedimento legislativo. Va poi ricordato che la stessa possibilità di approvare le leggi direttamente in commissione non è configurata come obbligatoria dalla Costituzione e dunque, almeno in teoria, essa potrebbe essere azzerata dai regolamenti di Camera e Senato, con riferimento ad entrambi o persino ad uno solo dei due rami del Parlamento. La stessa esistenza del gruppo misto non sembra costituzionalmente obbligata, potendo i regolamenti financo mutuare, ad esempio, la soluzione dei parlamentari “senza gruppo” fatta propria, ad esempio, dal Parlamento europeo (e ora consentita ai soli senatori a vita, a partire da questa legislatura).
Dunque, non manca lo “spazio costituzionale” per una revisione, anche profonda, dei regolamenti di Camera e Senato, e in essa ben si potrebbero immaginare organi e procedure nuovi, grazie a cui rileggere in chiave appunto più funzionale un bicameralismo paritario che risulta assai difficile da scalfire, ma che al tempo stesso dà origine ad una serie di criticità nei procedimenti legislativi, ma non solo. Un bicameralismo paritario che, proprio per questo – e come richiesto a più riprese dalla Corte costituzionale (nelle sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017; da ultimo nell’ordinanza n. 60 del 2020) - varrebbe perciò la pena di provare a far funzionare al meglio.

4. Tutte le questioni fin qui accennate si intrecciano inesorabilmente con la pandemia attualmente in corso, che ha determinato non pochi effetti problematici sul sistema delle fonti del diritto – come gli studi pubblicati in questa Rivista ampiamente documentano – e, al tempo stesso, reso decisamente più difficile riunire deputati e senatori in assemblea, nel medesimo luogo e per un tempo piuttosto lungo.
Il Covid-19 ha così posto un vero e proprio dilemma per le istituzioni parlamentari, chiamate ad immaginare, in Italia come altrove, forme di partecipazione anche a distanza ai lavori e, in molti casi, alle votazioni parlamentari. Un dilemma che andrebbe affrontato con spirito pragmatico e rifuggendo da ogni pregiudizio ideologico, ma altresì con dosi sufficienti di inventiva e di progettualità per re-ingegnerizzare i procedimenti parlamentari attualmente in essere, e che da tempo abbisognano, nella stragrande maggioranza dei casi, di una profonda opera di riforma.
Da un lato, infatti, è evidente che la partecipazione a distanza ai lavori parlamentari va a incidere sulle caratteristiche più tradizionali, intime e simboliche del parlamentarismo e della rappresentanza politica. Il senso stesso del Parlamento consiste appunto nel far convenire, tutti assieme, nel medesimo luogo, i rappresentanti della nazione, assicurando che nell’assemblea i rappresentati eletti nelle varie parti del Paese e nelle fila delle diverse forze politiche possano confrontarsi con continuità tra di loro e prendere parte a un processo deliberativo che, nella sua dimensione formale come nella sua dimensione informale, si fonda proprio sulla compresenza e sul dialogo interpersonale: sull’“unità aristotelica di spazio, di tempo, di azione” (come ci ha di recente ricordato A. Manzella, Elogio dell’assemblea, tuttavia, Mucchi, Modena, 2020, spec. p. 36).
Dal lato diametralmente opposto, è altrettanto chiaro che escludere ogni forma di partecipazione a distanza rischia, in questa fase emergenziale, di finire per rendere non esercitabili una quota rilevante delle prerogative spettanti alle due Camere. E di accentuare così ulteriormente il processo di rafforzamento degli Esecutivi che, già in atto da tempo, si è inevitabilmente incrementato durante la pandemia, in Italia ma non solo. Oltre che – per riprendere lo spunto da cui si erano prese le mosse – per rendere difficilissimo raggiungere quorum quali i 2/3 dei componenti dell’assemblea o anche la stessa maggioranza assoluta dei componenti, richiesta per la revisione costituzionale, per le riforme dei regolamenti di Camera e Senato, oltre che per deliberare gli scostamenti dall’equilibrio di bilancio.

5. Insomma, siamo davanti a una straordinaria e probabilmente irripetibile “finestra d’opportunità” per rinnovare il nostro parlamentarismo. La riduzione dei parlamentari e il Covid-19 convergono nello spingere con decisione in questa direzione. Le difficoltà, come si è appena visto, non sono poche, e sarebbe auspicabile, proprio per questo, registrare un consenso ampio, almeno circa la necessità di intervenire tempestivamente, in modo coordinato tra i due rami del Parlamento e con riforme di respiro adeguato.
Vedremo se la classe politica, chiamata ad affrontare una fase peculiare e imprevista, riuscirà, nella seconda parte della XVIII legislatura, a fare uno scatto in avanti e – anche sulla scorta di una nuova stagione nelle politiche economiche perseguite dall’Unione europea, che richiedono la predisposizione di un’adeguata e innovativa strumentazione giuridico-istituzionale in ciascuno Stato membro (come emerge dal seminario i cui atti sono ospitati in questo numero della Rivista) – saprà essere all’altezza di una sfida che, pure sul piano prettamente istituzionale, si prospetta in termini piuttosto radicali, per non dire esistenziali. In assenza di un rinnovamento profondo degli istituti della democrazia rappresentativa, è facile prevedere che le forme di governo parlamentari rischino di perdere ancora quote significative di fiducia da parte dei cittadini, lasciando così spazi ulteriori alle logiche della dis-intermediazione e del populismo, con effetti negativi sulla tenuta dello stesso sistema democratico.


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