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Sui rapporti tra interpretazione autentica (con effetto retroattivo) e Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: i limiti alla discrezionalità del legislatore nazionale (1/2010)

Sentenza n. 311/2009 (giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale)

La Corte di cassazione (cfr. ord. 400 reg. ord. 2008) e la Corte d’appello di Ancona (cfr. ordd. 15, 16, 17, 18 e 19 reg. ord. 2009) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006) con riferimento agli articoli 117, c. 1, Cost. e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

La norma censurata interpreta l’art. 8, comma 2, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), che, nel disciplinare il trasferimento di dipendenti di enti locali n ei ruoli statali del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) del settore scuola, ne prevedeva l’inquadramento nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti, consentendo l’opzione per l’ente di appartenenza, qualora le qualifiche e i profili non avessero trovato corrispondenza, prevedendo, in particolare, che venga riconosciuta «ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza».

Un successivo accordo tra l’ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e le organizzazioni sindacali, recepito dal decreto del Ministro della pubblica istruzione, di concerto con i Ministri dell’interno, del bilancio e della funzione pubblica del 5 aprile 2001 (di attuazione della legge 124/1999), aveva considerato ai fini del primo inquadramento il principio del maturato economico in luogo di quello della complessiva anzianità conseguita. Sul tema si era aperto un diffuso contenzioso risolto dalla stessa Corte di cassazione negando che il diritto al riconoscimento dell’anzianità «ai fini giuridici ed economici» attribuito dalla legge n. 124/1999 potesse essere ridotto a quello del maturato economico da una disciplina di rango inferiore.

La norma censurata interviene quale interpretazione del legislatore finalizzata a ribadire con legge ordinaria quanto già prefigurato dal decreto ministeriale sulla base della posizione espressa dalle organizzazioni sindacali. Si stabiliva pertanto che: «il comma 2 dell’articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».

I rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della disposizione di legge interpretativa, per violazione dell’art. 117, c. 1, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU in quanto, sancendo il principio del diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, il legislatore nazionale non dovrebbe interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per lo Stato parte del procedimento, salvo il caso di «ragioni imperative d’interesse generale».

Ad avviso dei rimettenti, il legislatore nazionale avrebbe emanato una norma interpretativa in presenza di un notevole contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione sfavorevole allo Stato, in tal modo violando il principio di «parità delle armi», non essendo l’invocata esigenza di «governare una operazione di riassetto organizzativo» del settore interessato dell’amministrazione pubblica sufficiente ad integrare quelle «ragioni imperative d’interesse generale» che permetterebbero di escludere la violazione del divieto d’ingerenza.

La Corte costituzionale ritiene, in via preliminare, di ricordare quale sia il rango e l’efficacia delle norme della CEDU ed il ruolo, rispettivamente, dei giudici nazionali e della Corte di Strasburgo, nell’interpretazione ed applicazione della Convenzione europea, come già definito con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007.

In particolare, si ricorda che il giudice nazionale, essendo insignito del ruolo di giudice comune della Convenzione, ha il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti. Nell’ipotesi in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale deve procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica.

Allorquando il giudice non ritenga lo strumento dell’interpretazione sufficiente ad eliminare il contrasto, si dovrà ricorrere al controllo di costituzionalità. Nel caso in cui venga accertato il contrasto rilevato dal giudice a quo, la Corte costituzionale dovrà dichiarare l’illegittimità della disposizione interna per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della CEDU, senza per questo sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve.

Al contrario, alla Corte costituzionale spetta la verifica della compatibilità tra la previsione contenuta nella CEDU e la Costituzione, nel qual caso dovrà escludere l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.

Ricordando altresì la posizione già espressa sulla norma con la sentenza n. 234/2007, con la quale era stato escluso che la disposizione interpretativa censurata desse luogo ad una disparità di trattamento fra coloro che, all’entrata in vigore della norma, avessero già ottenuto un giudicato favorevole rispetto alla disciplina applicabile e coloro che fossero soltanto in attesa della formazione del giudicato sulla loro pretesa, la Corte costituzionale non rileva ancora una volta la sussistenza del contrasto denunciato dai rimettenti, in quanto non esiste un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la Convenzione europea (in tal senso, si rileva Cass. 16 gennaio 2008 n. 677).

In particolare, la norma oggetto del sindacato di costituzionalità viene giudicata coerente con l’esigenza di armonizzare situazioni lavorative tra loro differenziate all’origine, conformemente al principio di parità di trattamento di situazioni analoghe nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblico, rendendo omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti del ruolo statale, al di là delle rispettive provenienze, impedendo in tal modo che una diversa interpretazione potesse determinare, non solo una smentita dell’originario principio di “invarianza della spesa”, ma anche e soprattutto un assetto che rischiava di creare un potenziale vulnus al principio di parità di trattamento, che le amministrazioni pubbliche devono garantire.

La Corte riscontra, inoltre, la presenza degli elementi che, secondo la giurisprudenza della Corte europea, sono necessari al fine di ritenere ammissibili le disposizioni interpretative, atteso che i principi in materia richiamati dalla giurisprudenza di quest’ultima costituiscono espressione dei principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parità delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamento e della certezza delle situazioni giuridiche, come già rilevato (Cfr. C. cost., sent. n. 234/2007).

A ciò si aggiunga che la decisione circa la sussistenza dei «motivi imperativi d’interesse generale» che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi implica una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la Convenzione europea lascia alla competenza degli Stati contraenti, come è stato riconosciuto, ad esempio, con la formula del “margine di apprezzamento”, nel caso di elaborazione di politiche in materia fiscale, salva la ragionevolezza delle soluzioni normative adottate (come già rilevato nelle sentenze National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito, del 23 ottobre 1997).

Viene pertanto escluso il contrasto tra la norma impugnata e l’art. 6 della CEDU, quindi la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost..

Osservatorio sulle fonti

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