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Regolamento comunale e limiti all’esercizio di attività commerciali nel centro storico (1/2018)

TAR TOSCANA, Firenze, 20 dicembre 2017, n. 1592

La principale questione affrontata dal Tar Toscana attiene alla possibilità per gli atti impugnati di prevedere una disciplina limitativa dell'insediamento di nuove attività commerciali nel centro storico di Firenze (gravato dal cd. vincolo UNESCO ed oggi interessato da massicci fenomeni di insediamento di nuove attività commerciali quantificati, nella loro rilevanza statistica, dall'intesa conclusa tra la Regione Toscana ed il Comune di Firenze).
La decisione muove da una chiarificazione del quadro costituzionale in materia, finalizzata alla risoluzione della problematica preliminare relativa alla compatibilità costituzionale di una disciplina di fonte regionale/comunale contenente limitazioni all'insediamento di nuove attività commerciali in aree (come il cd. centro storico) caratterizzate anche dalla presenza e dalla particolare pregnanza dei valori storico-artistici ed architettonici presenti sul territorio.


La problematica è stata affrontata da una sentenza abbastanza recente della Corte costituzionale (Corte cost. 11 novembre 2016, n. 239, relativa alla legge regionale pugliese in materia) che ha concluso per la legittimità in linea di principio di una legislazione regionale prevedente limiti all'insediamento di nuove attività in aree caratterizzate da una particolare “pregnanza” storico-artistica o ambientale sulla base di un richiamo della previsione dell'art. 31, 2° comma ult. parte del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. in l. 22 dicembre 2011, n. 214 che così recita: “le Regioni e gli enti locali ...(possono) prevedere ..., senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”.
Particolarmente chiare sono le argomentazioni della Corte costituzionale al proposito: “in questo campo la legislazione statale è intervenuta con l'art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, che è bene richiamare nel suo tenore testuale: «costituisce principio generale dell'ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012, potendo prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali».
In riferimento al citato comma 2 dell'art. 31, la Corte costituzionale (sentenza n. 104 del 2014) ha ritenuto che si tratta di un legittimo intervento del legislatore statale nell'esercizio della competenza esclusiva in materia di concorrenza. Tuttavia, la disposizione non preclude ogni ulteriore intervento normativo regionale sul punto. Occorre, infatti, osservare che, a differenza di quanto avvenuto con riferimento agli orari degli esercizi commerciali, pure espressione della competenza statale a tutela della concorrenza, la legge dello Stato non pone divieti assoluti di regolazione, né obblighi assoluti di liberalizzazione, ma, al contrario, consente alle Regioni e agli enti locali la possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali», purché ciò avvenga «senza discriminazioni tra gli operatori» e a tutela di specifici interessi di adeguato rilievo costituzionale, quali la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali.
Tale specifica apertura al legislatore regionale per la regolazione delle zone adibite alle attività commerciali attraverso gli strumenti urbanistici corrisponde, del resto, a un orientamento della giurisprudenza di questa Corte - espresso a partire dalla sentenza n. 200 del 2012 - che adotta una nozione di liberalizzazione intesa come «razionalizzazione della regolazione», compatibile con il mantenimento degli oneri «necessari alla tutela di superiori beni costituzionali».
Similmente, la sentenza n. 8 del 2013 ha ribadito che «in vista di una progressiva e ordinata liberalizzazione delle attività economiche» siano fatte salve «le regolamentazioni giustificate da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario», che siano «adeguate e proporzionate alle finalità pubbliche perseguite», così da «garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale e con gli altri principi costituzionali».
In questa prospettiva, prosegue la Corte con la medesima decisione n. 8 del 2013, «i principi di liberalizzazione presuppongono che le Regioni seguitino ad esercitare le proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche», sia pure «in base ai principi indicati dal legislatore statale».
Tale orientamento ha consentito il formarsi di una giurisprudenza costituzionale che non esclude ogni intervento legislativo regionale regolativo delle attività economiche, ma vigila sulla legittimità e proporzionalità degli stessi rispetto al perseguimento di un interesse di rilievo costituzionale: tale è stato ritenuto ad esempio, un precetto regionale, in materia di distribuzione del carburante, contenente un «obbligo conformativo» alla norma statale, di carattere relativo e non assoluto, a tutela di "specifici interessi pubblici" (sentenza n. 105 del 2016)” (Corte cost. 11 novembre 2016, n. 239 punto 6.1 e ss. e le sentenze ivi citate).
In buona sostanza, l'unica ipotesi in cui la Corte costituzionale ha pertanto dichiarato l'illegittimità costituzionale di una previsione di legge regionale (della Valle d'Aosta) contenente limitazioni territoriali all'insediamento di nuove imprese si riferisce ad una fattispecie in cui il divieto generale di insediamento in tutti i centri storici del territorio regionale delle grandi strutture di vendita veniva a precludere “del tutto e a priori detta possibilità. Tale divieto, proprio per la sua assolutezza, costituisce una limitazione alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali e viene ad incidere «direttamente sull'accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, si risolve in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che svolgono o intendano svolgere attività di vendita» (sentenza n. 38 del 2013)” (Corte cost., 18 aprile 2014, n. 104, richiamata anche da Corte cost. 11 novembre 2016, n. 239).
In buona sostanza, siamo in presenza di un quadro ricostruttivo non diverso da quello ricostruito dalla sent. T.A.R. Toscana, sez. II, 18 maggio 2017, n. 715), che, con riferimento ad un diverso quadro normativo (quello relativo ai divieti di insediamento di attività di gioco e scommessa in vicinanza di "luoghi sensibili"), ha affermato l'impossibilità che l'esercizio di detta potestà limitativa possa risolversi nella sostanziale interdizione dal territorio comunale di un'intera categoria di attività economica.
Per quello che riguarda il sindacato concreto delle decisioni amministrative relative alla zonizzazione commerciale ed all'eventuale interdizione di determinate attività in aree caratterizzate dalla particolare pregnanza degli interessi storico-artistici, paesaggistici o ambientali presenti sul territorio sotto il profilo dell'eventuale lesione della concorrenza, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha poi operato un sostanziale rinvio ai tradizionali strumenti di sindacato della discrezionalità amministrativa ad opera del Giudice amministrativo: “la possibilità, pertanto, che la citata zonizzazione sia utilizzata per proteggere dalla concorrenza gli esercizi esistenti, confinando l'apertura dei nuovi in aree distanti o non competitive, concerne non la previsione legislativa regionale, quanto l'eventuale illegittimo esercizio in concreto del potere amministrativo in campo urbanistico da parte dal singolo Comune, censurabile nelle opportune sedi di giustizia amministrativa, senza che esso possa dirsi in alcun modo legittimato dalle disposizioni regionali in esame e dovendosi al contrario ritenere in contrasto con esse, come correttamente interpretate” (Corte cost. 11 novembre 2016, n. 239, punto 6.4).
La ricostruzione sistematica consente al Tar di procedere agevolmente al rigetto delle censure proposte. In particolare, è respinto il motivo di ricorso relativo all’impossibilità, per le Amministrazioni regionali e comunali, di impedire l’insediamento di nuove attività commerciali sul territorio comunale in violazione di un principio di libertà dell’attività economica che atterrebbe all’esclusiva competenza statale e non sarebbe “modulabile” o limitabile a livello amministrativo; si tratta, infatti, di un’impostazione che trova espressa smentita nella sistematica di Corte cost. n. 239/2016.
In secondo luogo, la disciplina censurata non si risolve nella sostanziale impossibilità di esercizio di una certa attività economica sul territorio comunale, ma solo in una zona molto limitata (circa il 5%) del territorio, caratterizzata da fortissimo interesse storico-artistico e dal cd. vincolo UNESCO. Siamo pertanto molto lontani da quelle ipotesi di sostanziale impossibilità di esercizio di certe attività economiche espunte dall’ordinamento da Corte cost. n. 104/2014, o che potrebbero costituire oggetto di sindacato ed annullate in quanto lesive della concorrenza secondo la sistematica di cui al punto 6.4. della più volte citata Corte cost. n. 239/2016; del resto, gran parte delle tesi articolate da parte ricorrente si basa su una lettura parziale della previsione dell’art. 31, 2° comma ult. parte del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 (conv. in l. 22 dicembre 2011, n. 214) che valorizza il riferimento alla natura di “principio generale dell'ordinamento nazionale …(della) libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura”, senza considerare il prosieguo della disposizione che prevede l’esplicita salvezza dei vincoli “connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali” e continua prevedendo il potere delle Regioni e degli enti locali di “prevedere …, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”.

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