Le leggi regionali siciliane (agosto – dicembre 2021) (1/2022)

L’attività legislativa della Regione Siciliana, nel periodo compreso tra agosto e dicembre 2021, è consistita nella approvazione di quattordici leggi.

Quattro di queste sono state oggetto di impugnazione da parte dello Stato ai sensi dell’art. 127 della Costituzione.

 

1. La prima legge regionale impugnata è la n. 23 del 6 agosto 2021 che interviene con “Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 agosto 2016, n. 16. Disposizioni varie in materia di edilizia ed urbanistica”, recependo i cambiamenti introdotti nel Testo Unico Edilizia DPR 380 del 2001 (per l’innanzi TUE) dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76.

Essa presenterebbe profili di illegittimità costituzionale in relazione agli articoli 4, commi 1, 2 e 7; 6 lettera d) punti 1), 4), 5) e 6); 10; 20 comma 1, lettera b); 22; 37 lettere a), c) punto 1, punto 2 e d) e 38.

Il Governo rammenta come, sebbene lo Statuto della Regione Sicilia all’art. 14, comma 1, lettera n) e f), attribuisca alla Regione competenza legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, nonché di urbanistica, essa debba esercitarsi “nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato” e debba inoltre rispettare le c.d. “norme di grande riforma economico-sociale” poste dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze legislative.

Tra queste ultime il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), nonché le altre norme statali in materia di governo del territorio recanti principi di grande riforma.

Allo stesso tempo le materie “ordinamento penale” e “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” – art. 117, secondo comma, lettere l) ed m) – restano integralmente sottratte alla potestà legislativa regionale, in quanto materie di potestà statale esclusiva.

Il Governo richiama inoltre la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa alla disciplina del governo del territorio, secondo la quale «sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (così la sentenza n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato» (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)” (sentenza n. 259 del 2014).

Lo spazio di intervento residuale del legislatore regionale è limitato alla possibilità di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, a condizione, però, che tale esemplificazione sia coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell'edilizia (Corte costituzionale, sentt. nn. 49 del 2016 e n. 68 del 2018).

1.1. L’articolo 4 intitolato “Modifiche all’articolo 3 della legge regionale 10 agosto 2016, n. 16” detta disposizioni per gli interventi di attività edilizia libera o subordinati a comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA), ampliando l’elenco degli interventi assentibili rispetto alla elencazione contenuta nel d.P.R. n. 380 del 2001.

In particolare, tra gli interventi ricompresi nell’attività edilizia libera e tra quelli sottoposti a CILA, sono inseriti alcuni che appaiono contrastare con le esigenze di tutela culturale e paesaggistica.

Il legislatore siciliano avrebbe infatti ampliato a dismisura gli interventi “liberi” o soggetti a semplice CILA, laddove il TUE prevede un regime di liberalizzazione per gli interventi minori, o meno impattanti, sul territorio, via via aumentando il regime di controllo, attraverso la necessità di titoli edilizi più severi, fino a riservare il permesso di costruire per gli interventi più radicali, come le nuove costruzioni.

Pertanto, osserva il Governo, benché, in linea di principio, il regime liberalizzato possa estere esteso «dalle Regioni anche a interventi edilizi “ulteriori” ai sensi dell’art. 6, comma 6, del TUE, tale possibilità non può estendersi fino a includere interventi comportanti una radicale trasformazione del territorio, tanto che il legislatore statale esclude tale possibilità per gli interventi soggetti a permesso di costruire o SCIA alternativa al permesso di costruire (cfr. Corte cost., sent. n. 282 del 2016)».

In tale pronuncia la Corte, richiamando anche la precedente sentenza n. 231 del 2016, ha evidenziato come «le norme che disciplinano le forme di controllo sulle costruzioni, e in genere il regime dei titoli abilitativi edilizi, hanno natura di principio fondamentale della materia del “governo del territorio”, in quanto ispirate “alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali».

Pertanto, tali limiti si applicherebbero anche al legislatore siciliano, ai sensi dell’art. 14 dello Statuto di autonomia.

La disciplina censurata, secondo il ricorrente, sarebbe anche lesiva dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti, in modo uniforme, su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. m) nonché ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, liberalizzando interventi classificati nel TUE nella categoria “nuova costruzione” violando gli articoli 3 e 97 Cost.

La difformità rispetto alla disciplina statale e la sua irragionevolezza emergerebbero con evidenza da quanto previsto dal comma 7 del nuovo art. 3 della legge regionale 10 agosto 2016, n. 16, secondo cui «Le disposizioni di cui al presente articolo prevalgono su quelle contenute negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi vigenti, i quali, ove in contrasto, si conformano al contenuto delle disposizioni del presente articolo».

A fronte di tale indicazione il nuovo art. 3 della legge regionale n. 16 del 2016, al comma 1, fa salve, oltre alle normative di settore, tra le quali le disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, anche le «prescrizioni degli strumenti urbanistici» (così come previsto dal TUE, articoli 6, comma 1, e 6-bis, comma 1).

Per tale ragione «la previsione appare manifestamente contraddittoria e irragionevole, oltre che illegittima sotto plurimi profili».

La norma regionale, contrasterebbe poi con gli articoli 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), e sesto comma, e 118 Cost., anche perché si imporrebbe ai Comuni, comprimendone l’autonomia  riconosciuta e garantita dalla Costituzione, e soppiantandone la funzione pianificatoria in materia urbanistica.

La Corte costituzionale, a tal proposito, ha rilevato come la verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali debba essere vagliata attraverso un giudizio di proporzionalità, che «deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (Corte cost., sent n. 119 del 2020).

Secondo il Governo, inoltre, «anche nella Regione Siciliana – dotata di potestà legislativa esclusiva in materia di “tutela del paesaggio”, ai sensi dell’art. 14, lett. n), dello Statuto di autonomia – il piano paesaggistico assume carattere necessariamente sovraordinato agli altri strumenti di pianificazione territoriale, in applicazione degli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, aventi carattere di norme di grande riforma economico-sociale.

In particolare, l’art. 145 del Codice stabilisce il principio della necessaria prevalenza del suddetto piano rispetto a ogni altro strumento di pianificazione e la sua inderogabilità da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico. La prevalenza della normativa regionale sugli strumenti urbanistici, adeguati al piano paesaggistico, può tradursi in una deroga a quest’ultimo, con elusione del principio di cui all’art. 145 sopra richiamato.

Le previsioni regionali, infine, violerebbero la competenza statale esclusiva in materia di ordinamento penale, di cui alla lettera l) dell’art. 117, secondo comma, Cost, «in quanto, liberalizzando interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, o subordinandone alcuni alla semplice CILA, sottrae la realizzazione di tali interventi alle conseguenze sanzionatorie e penali legate alla realizzazione di tali interventi in assenza o in difformità del titolo edilizio, “depenalizzando” sostanzialmente le relative fattispecie di reato (che restano tali nel resto d’Italia)».

Con riguardo all’impugnazione dell’art. 4, il Governo, al fine di replicare a una possibile eccezione relativa all’intervenuta acquiscenza osserva «che nonostante la previsione de qua sia, come detto, in parte ripetitiva di analoga previsione regionale già presente nel testo previgente dell’art. 3, il consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene ammissibile l’impugnativa di una norma regionale che ripeta il contenuto di una norma regionale previgente anche se non impugnata, trattandosi di una autonoma disposizione che rinnova la lesione al riparto costituzionale di competenze, come delineato dalla Costituzione e dallo Statuto di autonomia della regione siciliana, ed essendo inapplicabile all’impugnativa di leggi regionali da parte dello Stato l’istituto dell’acquiescenza (Corte cost., sentt. nn. 56 del 2020, 41 del 2017, 231 e 39 del 2016)».

1.2. L’art. 6 sostituisce l’art. 5 della legge regionale n. 16 del 2016.

Il comma 1, lettera d) contiene un elenco di interventi subordinati a permesso di costruire (“opere di recupero volumetrico ai fini abitativi e per il contenimento del consumo di nuovo territorio, come di seguito definite”), in apparente attuazione dell’art. 10, comma 3, del TUE.

L’elencazione regionale, secondo il Governo, sarebbe in molti casi illegittima, «in quanto non si limita a individuare ulteriori interventi edilizi, rientranti nella categoria delle opere indicate nella lettera d), la cui realizzazione, “in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico” richiede il permesso di costruire – misura che, in questi termini, rientrerebbe senz’altro nelle attribuzioni della Regione – ma sostanzialmente introduce a regime la legittimazione al recupero a fini abitativi ex post di sottotetti, pertinenze, verande, locali interrati etc».

La Regione, contemporaneamente, abroga la precedente normativa che consentiva il recupero a fini abitativi dei sottotetti legittimamente realizzati fino alla data di entrata in vigore della normativa stessa nell’aprile del 2003 (cfr. art. 18 legge regionale n. 4 del 2003, abrogato dall’art. 23, comma 1, lettera b), della legge n. 23 del 2021).

A seguito di tali modificazioni, «viene quindi permesso il recupero generalizzato, senza alcun limite temporale e in deroga alla pianificazione urbanistica in qualunque tempo emanata, di qualsivoglia sottotetto, locale interrato etc, anche se realizzato, a rigore, addirittura dopo l’entrata in vigore della norma de qua, attribuendo premialità volumetriche ulteriori e distinte rispetto a quelle consentite dalla disciplina urbanistico-edilizia, e ciò anche nei centri storici».

Sono inoltre compresi gli immobili regolarizzati attraverso sanatorie edilizie e SCIA in sanatoria, contrariamente alla normativa sul c.d. piano casa che, per come esplicitata nell’Intesa Stato-Regioni del 2009, esclude dal campo di applicazione delle “premialità” gli immobili nati come illegittimi, se pur successivamente sanati.

Anche in questo caso, a sostegno delle proprie doglianze il Governo richiama la giurisprudenza della Corte cost. (sent. n. 208 del 2019, che richiama le precedenti sentenze n. 282 e n. 11 del 2016), secondo la quale il legislatore nazionale ha circoscritto le premialità volumetriche a fini abitativi e di contenimento dell’uso del suolo in occasione del c.d. piano casa, frutto di normative eccezionali.

Per ciò «tali interventi non possono riferirsi ad edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta. Inoltre, il legislatore statale ha mantenuto fermo il rispetto degli standard urbanistici nonché delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42».

La normativa regionale, secondo il Governo – che richiama sul punto la sentenza n. 217 del 2020 della Corte costituzionale – violerebbe i principi fondamentali in materia di governo del territorio, che si impongono anche alla potestà legislativa primaria spettante alle Regioni ad autonomia speciale, quelli posti dall’articolo articolo 41-quinquies della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 (articolo aggiunto dall’articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765) tra i quali il necessario rispetto degli standard urbanistici.

La normativa, inoltre – destinata a incidere sul patrimonio culturale e sui centri storici, e in generale sul paesaggio urbano, vincolato o meno – si porrebbe «in contrasto con i principi dettati dal Codice che rimettono al piano paesaggistico, quale strumento di vertice di pianificazione del territorio, la regolamentazione delle trasformazioni in grado di incidere sul paesaggio»

L’intervento della Regione introduce infatti una disciplina d’uso del territorio «che inevitabilmente fuoriesce dai confini della materia “governo dal territorio” e, anche laddove riguardi il paesaggio non vincolato, viene a impingere nella materia della tutela del paesaggio, la cui disciplina, che si impone anche alle Regioni speciali in quanto di grande riforma economico-sociale, pone in capo alle Regioni un vero e proprio obbligo (e non la mera facoltà) di pianificare l’intero territorio regionale mediante i piani paesaggistici (art. 135 del Codice)».

L’articolo impugnato contrasterebbe inoltre con l’obbligo di pianificazione, posto in capo alle Regioni anche in relazione al paesaggio non vincolato, costituente comunque oggetto di tutela ai sensi della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta a Firenze del 20 ottobre 2000 e ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14. Ciò perché «L’adempimento degli impegni assunti mediante la sottoscrizione della Convenzione richiede che tutto il territorio sia oggetto di pianificazione e di specifica considerazione dei relativi valori paesaggistici, anche per le parti che non siano oggetto di tutela quali beni paesaggistici. Nel sistema ordinamentale, ciò si traduce nei precetti contenuti all’articolo 135 del Codice di settore, il cui testo è stato integralmente riscritto dal decreto legislativo n. 63 del 2008, a seguito del recepimento della Convenzione europea del paesaggio».

Le disposizioni regionali in questione sono altresì impugnate perché ritenute «manifestamente irragionevoli e sproporzionate» e «contrarie al principio del buon andamento dell’amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione)».

Esse, infatti, rileva il Governo, ammetteno gli interventi in deroga anche su edifici di recentissima realizzazione o addirittura di futura edificazione, senza che possano venire in gioco, quindi, interessi pubblici rilevanti quali il contenimento dell’uso di suolo, l’efficientamento energetico, o la rigenerazione urbana, che stanno alla base della normativa di recupero dei sottotetti o dei piani interrati. Inoltre, il recupero viene irragionevolmente esteso anche agli edifici oggetto di sanatoria, nonostante gli stessi siano esclusi, per esempio, dal piano casa nazionale.

1.3. L’art. 10 sostituisce l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2016, rubricato “Recepimento con modifiche dell’articolo 22 "Segnalazione certificata di inizio attività e denuncia di inizio attività" e dell’articolo 23 "Interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività in alternativa al permesso di costruire" del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”.

In particolare, il nuovo comma 10 prevede: «Previa segnalazione certificata di inizio attività, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo n. 42/2004 e successive modificazioni sono consentiti nel medesimo lotto gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati, nel rispetto della volumetria esistente, per motivi di sicurezza o di rispetto di distanze previste negli strumenti urbanistici vigenti alla data dell’intervento previo parere e autorizzazione paesaggistica della Soprintendenza competente per territorio».

Tale disposizione si porrebbe in contrasto con la definizione degli interventi edilizi e in specie con la clausola di salvaguardia a favore dei beni tutelati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, stabilita dall’ultimo periodo dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001.

Tale clausola di salvaguardia, per i beni vincolati o situati in aree vincolate, «prevede infatti il mantenimento contemporaneamente di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente, oltre alla mancanza di nuove volumetrie, per poter qualificare le demo-ricostruzioni, o gli interventi di ripristino come “ristrutturazione edilizia”. Ove tali requisiti non siano tutti rispettati, gli interventi rientrano nella “nuova costruzione” e sono perciò assoggettati a permesso di costruire».

La disposizione regionale, invece, sottopone a SCIA, anziché a permesso di costruire, taluni interventi di demo-ricostruzione o ricostruzione di immobili tutelati, pertanto, essa viola l’art. 14 dello Statuto speciale di autonomia; l’art. 9 e l’art. 117, secondo comma, lettere l), m) e s) Cost.; l’art. 117, primo comma, Cost. e le norme di grande riforma economico-sociale recate dagli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.

1.4. L’art. 20 modifica l’art. 25 della legge regionale n. 16 del 2016, concernente la “Compatibilità paesaggistica delle costruzioni realizzate in zone sottoposte a vincolo e regolarizzazione di autorizzazioni edilizie in assenza di autorizzazione paesaggistica”.

In particolare, il comma 1, lettera b), sostituisce il comma 3 del predetto art. 25 con il seguente: «La procedura di cui ai commi 1 e 2 si applica anche per la regolarizzazione di concessioni edilizie rilasciate in assenza di autorizzazione paesaggistica per i beni individuati dalle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 134 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, sempre che le relative istanze di concessione siano state presentate al comune di competenza prima dell’apposizione del vincolo».

Secondo il Governo la modifica introdotta sarebbe illegittima poiché «ammette la possibilità di una sanatoria ex post, prima ristretta ai soli casi di vincolo paesaggistico istituito con dichiarazione di notevole interesse pubblico, anche alle aree vincolate paesaggisticamente ope legis, a far data dalla legge c.d. Galasso (legge n. 431 del 1985), per il solo fatto che sia stata presentata istanza di concessione edilizia prima dell’apposizione del vincolo, circostanza che diventa unica condizione legittimante».

L’intervento regionale interviene peraltro a distanza di oltre quarant’anni dall’imposizione del vincolo ope legis, e a oltre quindici anni dall’entrata in vigore del divieto di sanatoria ex post, fissato dal Codice ai sensi del combinato disposto dell’art. 146, comma 4, e 167, commi 4 e 5, e in violazione dell’art. 182, comma 3-bis, del medesimo Codice che contiene la disciplina transitoria, stabilendo il termine finale, ormai ampiamente scaduto, entro il quale l’amministrazione è tenuta a dar corso alle domande di sanatoria, anche laddove dichiarate improcedibili a causa del sopravvenuto (rispetto alla realizzazione dell’opera) divieto di sanatoria ex post.

Rileva il Governo come «La Regione siciliana non solo non ha attuato, all’interno della Regione, il nuovo principio di divieto di sanatoria ex post stabilito dal Codice, ma interviene addirittura in senso contrario al principio stesso, aumentando le ipotesi in cui consentire il giudizio di compatibilità paesaggistica “ora per allora” a tutte le aree c.d. Galasso, in contrasto anche con i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti con uniformità nel territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m)».

La normativa regionale, comportando un abbassamento di tutela e in assoluta violazione della logica “incrementale” della tutela avvalorata dalla Corte costituzionale, si porrebbe in contrasto con l’art. 9 della Costituzione e, incidendo nell’applicazione delle sanzioni penali di cui all’art. 181 del Codice dei bei culturali e del paesaggio, con la competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.

Infine «riaprendo sostanzialmente i termini della sanatoria dopo quarant’anni, appare anche irragionevole e sproporzionata, e quindi in contrasto con gli articoli 3 e 97 Cost.»

1.5. L’art. 22 modifica il comma 3 dell’art. 28 della legge regionale n. 16 del 2016.

Per effetto della modifica esso prevede che «Trascorso il termine di 90 giorni dalla data di deposito della perizia, senza che sia stato emesso provvedimento con il quale viene assentito o negato il condono, la perizia acquista efficacia di titolo abilitativo. Le perizie giurate possono essere precedute da comunicazioni asseverate (CILA tardive) e segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA in sanatoria) per la regolarizzazione di opere minori realizzate all’interno degli immobili oggetto di condono edilizio non definiti, utili per la definizione del condono».

La perizia, cui fa riferimento il comma 3, è prevista dal comma 1, ai sensi del quale «I titolari degli immobili, che hanno presentato istanza di condono edilizio, possono depositare dalla data di entrata in vigore della presente legge una perizia giurata di un tecnico abilitato all’esercizio della professione, iscritto in un albo professionale, attestante il pagamento delle somme versate per l’oblazione e per gli oneri di urbanizzazione nonché il rispetto di tutti i requisiti necessari per ottenere la concessione in sanatoria, oltre la copia dell’istanza di condono presentata nei termini previsti dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47, dalla legge 23 dicembre 1994, n. 724 e dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. Gli interessati, inoltre, per il periodo 2008-2013, allegano, ove previste, le ricevute di versamento delle imposte comunali sugli immobili e quelle per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani».

Osserva il Governo come la disposizione regionale introduca «una sorta di silenzio-assenso in materia di condono, sia pure mediato dal deposito di una perizia tecnica di parte, che si discosta notevolmente dalla fattispecie prevista dal legislatore statale, prevedendo, anziché un biennio, un termine molto più breve per la formazione del titolo e includendo nell’ambito applicativo della fattispecie anche gli immobili vincolati. Ciò in totale spregio dei capisaldi posti dal legislatore statale in tema di condono».

L’effetto di tale previsione, prosegue il Governo «è che le pratiche di condono ad oggi ancora incomplete (e sulle quali non ha quindi preso a decorrere il termine di due anni per la formazione del silenzio-assenso) vengano completate (o asseritamente completate), presentando contestualmente la perizia giurata prevista dalla legge regionale. Da quel momento inizierà a decorrere il termine di soli novanta giorni (e non di due anni) per la verifica da parte del Comune. Inoltre, il titolo in sanatoria si formerà anche laddove la perizia risulti errata e la pratica sia in realtà ancora incompleta. Infine, il titolo si formerà persino in presenza di immobili vincolati».

La norma regionale contrasterebbe con i principi in tema di condono ripetutamente ribaditi dalla Corte costituzionale, in contrasto con i limiti alla potestà legislativa regionale sanciti dall’art. 14 dello Statuto speciale, e avrebbe anche «una evidente ricaduta anche sul piano dell’ordinamento penale, parimenti riservato alla potestà legislativa statale, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. e dell’art. 14 dello Statuto speciale».

Si richiama a tal proposito la sentenza n. 196 del 2004 della Corte costituzionale nella quale si precisa che nei confronti delle Regioni ad autonomia speciale, opera il limite della “materia penale” (comprensivo delle connesse fasi procedimentali) e quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di “grande riforma”, quali il titolo abilitativo edilizio in sanatoria e la determinazione massima dei fenomeni condonabili.

1.6. L’art. 37 apporta modifiche alla legge regionale n. 6 del 2010, c.d. piano casa siciliano.

1.6.1. In particolare, il comma 1, lettera a), sostituisce il comma 4 dell’art. 2, allo scopo di estendere l’operatività del c.d. piano casa anche agli edifici “condonati”, precedentemente esclusi e, parallelamente, la lettera d) sopprime il limite di applicazione agli “immobili oggetto di condono edilizio”. La lettera c), inoltre, modifica l’art. 6 della legge sul piano casa, sopprimendo il limite di 48 mesi per la presentazione delle istanze (punto 1) nonché la previsione in basa alla quale i Comuni potevano motivatamente escludere o limitare l’applicabilità del piano casa (punto 2).

Secondo il Governo le nuove previsioni di cui alle lettere a) e d) produrrebbero «l’effetto dirompente di capovolgere il principio statale, posto alla base del c.d. piano casa, in base al quale gli abusi edilizi, benché oggetto di sanatoria, non sono mai computabili ai fini di ottenere premialità edilizie su quei volumi, pur sempre frutto di attività illecita e, inoltre, spesso incoerenti rispetto alla destinazione urbanistica dell’area nella quale si collocano (ragione per la quale le opere erano state originariamente realizzate senza titolo). Ciò risulta espressamente nell’Intesa del 2009 sul c.d. piano casa, nella quale si prevede che “Tali interventi edilizi non possono riferirsi ad edifici abusivi o nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta”».

Inoltre, le stesse comporterebbero «l’evidente incremento dell’edificazione anche in aree vincolate paesaggisticamente, per le quali, a far data dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, è stato stabilito il principio c.d. del “divieto di sanatoria ex post” (salvi i limitatissimi casi previsti dall’art. 167, comma 4, del Codice)».

1.6.2. La novella di cui alla lettera c), punto 1, modifica il comma 2 dell’art. 6 della legge sul piano casa, sopprimendo il termine di 48 mesi dal termine fissato al comma 4 (pari a 120 giorni dall’entrata in vigore della legge) al quale erano subordinate le istanze di interventi edilizi di ampliamento degli edifici esistenti nonché di interventi per favorire il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente.

 Tale previsione, secondo il Governo «non solo converte le istanze “tardive”, eventualmente già presentate, in istanze “tempestive”, ma riapre sine die i termini del piano casa siciliano consentendo la presentazione di nuove domande senza alcun limite temporale».

In questo modo essa stravolgerebbe la finalità della disciplina sul c.d. piano casa che «era originariamente quella di consentire interventi “straordinari”, per un periodo temporalmente limitato, su edifici abitativi», trattandosi, come rilevato dalla Corte costituzionale di «una misura straordinaria di rilancio del mercato edilizio predisposta nel 2008 dal legislatore statale, contenuta nell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133» (Corte cost., sentt. nn. 7 e 217 del 2020).

Questa originaria finalità appare essere stata snaturata dalla Regione con la novella in esame, che consentirebbe di determinare la sostanziale stabilizzazione delle deroghe consentite dalla legge regionale del 2009 (attuativa dell’intesa in Conferenza unificata).

Osserva il Governo come in questa Intesa fossero stati previsti «precisi limiti per gli interventi realizzabili “in deroga”, sia volumetrici, sia temporali, che benché non siano configurabili come indicazioni tassative, assumono comunque valore di regole di riferimento, rispetto alle quali lo ius variandi della Regione è contenuto e deve attenersi alla ratio delle previsioni concordate. Da ciò consegue che necessariamente – poiché una diversa interpretazione porterebbe a vanificare completamente l’efficacia della predetta Intesa – le determinazioni regionali, in senso ampliativo rispetto ai limiti previsti nell’Intesa, sono ammissibili solo se rispondono a canoni di proporzionalità e ragionevolezza. In particolare, la espressa previsione di un termine, peraltro di soli 18 mesi, non consente di ipotizzare, legittimamente, una “messa a regime”, da parte delle Regioni, di una normativa eccezionale e derogatoria alla pianificazione urbanistica, né tanto meno l’ampliamento progressivo della portata di tale normativa».

L’intervento della Regione contrasterebbe perciò «anche con il principio fondamentale, costituente norma di grande riforma economico-sociale, di temporaneità del relativo regime» e sarebbe «manifestamente arbitraria e irragionevole, nonché contraria al principio del buon andamento dell’amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione) in quanto, ponendo nel nulla le previsioni degli strumenti urbanistici, comporta che le trasformazioni sul territorio non siano previste sulla base di una valutazione riferita ai singoli contesti, bensì in base a un disegno generale e astratto operato una volta per tutte dalla legge».

Il numero 2) della lettera c) del comma 1 dell’art. 37 abroga il comma 4 dell’art. 6 della legge n. 6 del 2010, che prevedeva: “I comuni, con delibera consiliare, entro il termine perentorio di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, possono motivatamente escludere o limitare l’applicabilità delle norme di cui agli articoli 2 e 3 ad immobili o zone del proprio territorio o imporre limitazioni e modalità applicative, sulla base di specifiche ragioni di carattere urbanistico, paesaggistico e ambientale”.

Viene così eliminata la possibilità, per i comuni, di limitare gli effetti del piano casa sul proprio territorio, sulla base di motivazioni di carattere urbanistico, paesaggistico e ambientale, e ciò determinerebbe una compressione dell’autonomia dei comuni, apparendo altresì «irragionevole e sproporzionata, in quanto tale previsione costituiva un punto di caduta necessario tra le opposte esigenze della riqualificazione abitativa e del principio di ordinato sviluppo del territorio di piena pertinenza dell’autorità comunale».


1.7. L’art. 38 prevede che «al fine di contrastare l’emergenza Covid-19 per un periodo di due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il limite di mq. 50 di cui all’articolo 20 della legge regionale 16 aprile 2003, n. 4 e successive modificazioni non si applica per la chiusura di spazi interni ove questi costituiscano pertinenze di unità immobiliari in cui sono legittimamente insediate attività di ristorazione».

La norma, secondo il Governo, sarebbe «manifestamente arbitraria e irragionevole, posto che prevede un termine di applicazione pari a due anni, nonostante il termine finale dell’emergenza sia fissato al 31 dicembre 2021; d’altro canto, gli effetti della norma non sono parametrati all’emergenza pandemica, essendo destinati a protrarsi molto più a lungo, non essendo previsto un termine oltre al quale procedere alla rimozione delle opere».

Essa, inoltre, violerebbe l’art. 14 dello Statuto di autonomia, confliggendo con la norma di grande riforma economico sociale di cui all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 poiché, «pur trattandosi di opere precarie, le medesime ricadono sul principio di ordinato sviluppo del territorio, derogandovi, posto che il TUE non distingue gli interventi sulla base di un criterio strutturale (la più o meno agevole rimozione), ma funzionale (la destinazione a esigenze temporanee o permanenti), ed essendo tali opere comunque finalizzate alla formazione di spazi chiusi destinati alla permanenza di persone, che lo stesso TUE annovera tra gli interventi di nuova costruzione».

2. La seconda legge regionale oggetto di impugnazione è la n. 24 del 24 settembre 2021 che detta “Disposizioni per il settore della forestazione. Disposizioni varie”.

Essa è censurata relativamente alle previsioni contenute nell’articolo 4 (Adeguamento fondo per il rinnovo del CCRL) che eccederebbe le competenze statutarie attribuite alla Regione siciliana dallo Statuto speciale di autonomia, violando al contempo disposizioni statali che costituiscono principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica posti dallo Stato ai sensi dell’articolo 117, terzo comma della Costituzione, e che vincolano anche le Regioni a statuto speciale.

L’articolo 4, al comma 1, prevede che, per l’adeguamento del fondo per il trattamento di posizione e di risultato del personale con qualifica dirigenziale (Missione I, Programma 10, capitolo 212019), viene autorizzata l’ulteriore spesa annua di euro 946.600,92 per il triennio 2021-2023, disponendo, contestualmente al comma 2, che ai predetti oneri si faccia fronte mediante corrispondente riduzione delle disponibilità della Missione 20, Programma 3, capitolo 215704, mentre per gli esercizi successivi l’entità dello stanziamento sia determinata, annualmente, con legge di bilancio, ai sensi dell'articolo 38 del d. lgs. n. 118 del 2011.

La disposizione si porrebbe in contrasto con il limite posto dall’articolo 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 all’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del d.lgs n. 165 del 2001, riferito all’anno 2016.

Osserva inoltre il Governo come «la “riduzione del trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale”, costituisce una delle condizioni contenute nel Piano di rientro, redatto a seguito dell’Accordo Stato – Regione, sottoscritto in data 14 gennaio 2021, dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Presidente della Regione Siciliana, ed allegato alla legge regionale n. 10 del 2021, concernente l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Siciliana per il triennio 2021-2023».

Piano che è stato adottato in attuazione del decreto legislativo n. 158 del 2019, recante “Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana in materia di armonizzazione dei sistemi contabili, dei conti giudiziari e dei controlli” e, in particolare, dell’articolo 7, rubricato “Ripiano del disavanzo derivante dagli effetti del riaccertamento straordinario”, che prevede la possibilità di ripianare il disavanzo e le quote di disavanzo non recuperate relative al rendiconto 2018, in un periodo non superiore a dieci esercizi finanziari.

La Regione siciliana avrebbe quindi assunto un impegno ad attuare azioni specifiche per la riduzione ed il contenimento della spesa per il personale, anche mediante una razionalizzazione organizzativa di riduzione degli uffici di livello dirigenziale e di riduzione del trattamento accessorio del personale, anche dì livello dirigenziale; per tale ultima finalità si è impegnata a contenere le risorse destinate al salario accessorio, anche nei rispetto dei citati limiti previsti per le Amministrazioni pubbliche dall'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75.

La norma regionale impugnata, prevedendo di destinare un maggiore importo al Fondo per la retribuzione di posizione e di risultato del personale dirigenziale, con incremento dei relativi oneri finanziari, pregiudicherebbe il raggiungimento dell'obiettivo di rientro previsto nel suddetto piano, ponendosi in tal modo in contrasto con all'articolo 7 del decreto legislativo 27 dicembre 2019 n. 158, e dunque con una norma che fissa dei principi in materia di coordinamento della finanza pubblica, oltre che con l'articolo 81 della Costituzione.

Ad ulteriore suffragio delle proprie doglianze il Governo «segnala che la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti non ha certificato il CCRL Area della dirigenza della Regione Siciliana e degli Enti di cui all'art. 1 della L.r 15 maggio 2000, n. 10 per il triennio 2016-2018, in quanto le somme destinate al trattamento accessorio per gli anni successivi ai 2019 non presentano «le condizioni dì compatibilità finanziaria ed economica con gli attuali strumenti di programmazione e di bilancio della Regione Siciliana».

3. La terza legge regionale oggetto di impugnativa statale è la legge n. 28 del 19 novembre 2021, recante “Norme in materia di funzionamento del Corpo Forestale della Regione siciliana”.

L’art. 1 e l’art. 2 della legge «presentano problemi di copertura finanziaria della spesa ivi prevista e devono, pertanto, essere censurate in quanto esulano dalle competenze statutarie attribuite alla Regione e contrastano con l’art. 81, terzo comma, della Costituzione che impone l’obbligo di copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi o maggiori oneri, con l’art. 38 del Decreto legislativo 118/2011 e con l’art. 17 della legge di contabilità n. 196/2009 nonché con la legislazione regionale in materia di bilancio e contabilità (art. 14 del Testo coordinato delle norme in materia di bilancio e di contabilità applicabili alla Regione in base alle leggi regionali in materia e alle leggi nazionali riguardanti la contabilità dello Stato e delle altre regioni nonché art. 7, comma 8, della legge regionale n. 47/77 e successive modifiche)».

La legge interviene in materia di assunzioni del Corpo forestale regionale con l’obiettivo fornire copertura finanziaria alle assunzioni disciplinate dalla legge regionale n. 16 del 20 luglio 2020, recante “Norme per il funzionamento del Corpo forestale della Regione siciliana. Disposizioni varie” e rifinanziate dalla legge n. 29 del 3 dicembre 2020 recante “Norme per il funzionamento del Corpo forestale della regione siciliana”.

Con la prima era stata autorizzata, per tale finalità, una spesa annua di 2 milioni di euro per il triennio 2020-2022; con la seconda legge la spesa autorizzata per le assunzioni era stata incrementata di ulteriori 5 milioni di euro per gli esercizi finanziari 2021 e 2022;

Entrambe le citate leggi sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 226 del 2021 per violazione dell’art. 81, terzo comma, della Costituzione, in quanto prive di copertura finanziaria, da un lato per l’inidoneità del capitolo individuato (contenente risorse destinate a spese obbligatorie non comprimibili trattandosi del capitolo stipendi del personale già in servizio), dall’altro per la mancata messa a regime della spesa negli esercizi finanziari successivi, pur trattandosi di oneri di natura pluriennale e continuativa.

La legge oggetto della nuova impugnativa in esame interviene nuovamente sull’obiettivo delle precedenti, individua le risorse finanziarie per procedere all’assunzione di nuovo personale del Corpo forestale regionale, autorizza il Dirigente generale del Corpo forestale regionale ad assumere – mediante concorso pubblico per esami – personale del comparto non dirigenziale a tempo indeterminato, subordina l’accesso al superamento di un corso di formazione e disciplina tale corso di formazione professionale.

L’art. 1 della legge in esame autorizza, per l’esercizio finanziario 2021, la spesa di 3 milioni di euro (Missione 9, Programma 5, Capitolo 150521- Spese per l’espletamento di concorsi per l’assunzione del personale del Corpo forestale della Regione Cap. 14210) e prevede che l’intera spesa sia coperta mediante riduzione delle disponibilità della Missione 9, Programma 5, capitolo 150001.

Secondo il Governo tale disposizione sarebbe illegittima vista «l’inidoneità della copertura finanziaria prevista a valere sulle disponibilità della Missione 9, Programma 5, capitolo 150001, denominato “Stipendi ed altri assegni fissi da erogare al personale a tempo indeterminato, con qualifica diversa da quella dirigenziale, in servizio presso il comando del corpo forestale e presso il dipartimento sviluppo rurale. (spese obbligatorie)”, in quanto tale capitolo reca risorse destinate a spese obbligatorie, non comprimibili, del bilancio della Regione per l’esercizio finanziario 2021, trattandosi di spese obbligatorie del personale che, per loro natura, si sottraggono a ipotesi di facile comprimibilità».

Ciò risulterebbe evidente alla luce di quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sent. n. 226 del 2021 sopra citata, avente ad oggetto le leggi regionali n. 16 e 29 del 2020.

L’art. 2 della legge in esame modifica l’entità delle risorse finanziarie già individuate nelle precedenti leggi regionali n. 16 e n. 29 del 2020, senza invece modificare il capitolo sul quale grava l’onere della spesa e, secondo il Governo, «presenta le medesime criticità segnalate con riferimento al precedente articolo 1, in quanto prevede come mezzo di copertura finanziaria risorse destinate a spese obbligatorie non comprimibili, in contrasto con l’articolo 81, terzo comma, della Costituzione; inoltre il comma 2 non indica la copertura finanziaria degli oneri derivanti dalle assunzioni di personale per gli anni 2023 e successivi, pur trattandosi di un onere obbligatorio a carattere permanente».

La disposizione impugnata determinerebbe peraltro anche una violazione del giudicato costituzionale dato che «la modifica introdotta dall’art. 2, comma 1, della legge, incide, come illustrato, sull’art. 1 comma 1, della legge regionale n. 29/2020, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con la già citata sentenza 2 dicembre 2021, n. 226, per violazione dell’articolo 81, terzo comma, della Costituzione, senza superare i motivi di illegittimità costituzionale rilevati».

Inoltre, rileva il Governo, «le disposizioni proposte nell’art. 2 della legge in esame, sostanzialmente già censurate dalla Corte Costituzionale per quanto sopra detto, contrastano anche con quanto previsto all’articolo 17 della legge n. 196 del 2009, che - al comma 1 – elenca in modo tassativo le modalità con cui assicurare la copertura finanziaria delle leggi che comportano nuove o maggiori spese, ossia l’utilizzo degli accantonamenti iscritti nei fondi speciali destinati alla copertura finanziaria di provvedimenti legislativi che si prevede siano approvati nel corso degli esercizi finanziari compresi nel bilancio pluriennale, la riduzione di precedenti autorizzazioni legislative di spesa, le modificazioni legislative che comportino nuove o maggiori entrate. Inoltre, il successivo comma 3 stabilisce che le norme che comportino conseguenze finanziarie devono essere corredate da una relazione tecnica che dia contezza della quantificazione delle entrate e degli oneri recati da ciascuna disposizione, nonché delle relative coperture».

La norma in questione  violerebbe anche il contenuto dell’Accordo Stato-Regione sottoscritto in data 14 gennaio 2021, ed allegato alla legge regionale n. 10 del 2021 (bilancio di previsione della Regione Siciliana per il triennio 2021-2023) che, impegna la Regione, pena il venir meno del regime di ripiano pluriennale di cui al comma 1 dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 158/2019, ad adottare interventi di riduzione della spesa corrente attraverso provvedimenti legislativi o amministrativi tra i quali è ricompreso anche il contenimento delle dotazioni organiche del personale (lettera e, punto 2, Accordo Stato-Regione).

La Regione avrebbe assunto l'impegno di attuare azioni specifiche per garantire la riduzione e il contenimento della complessiva spesa per il personale, impegno evidentemente disatteso dalla disciplina oggetto dell’impugnativa che si porrebbe così in contrasto anche con l'art. 117, terzo comma, Cost. in relazione all'art. 7 del D.lgs. n. 158/2019, quanto al coordinamento della finanza pubblica.

4. La quarta legge impugnata dal Governo nel periodo considerato è la n. 29 del 26 novembre 2021, recante “Modifiche alla legge regionale 15 aprile 2021, n. 9. Disposizioni varie”.

4.1. In particolare, l’articolo 4, comma 1 che modifica il comma 7 dell’art. 36 della legge regionale n. 9 del 2021 (in materia di stabilizzazione del personale ASU, impegnato in attività socialmente utili presso gli enti locali ubicati nella Regione)) contrasterebbe con il principio di equilibrio dei bilanci pubblici, di cui all’articolo 97, comma 1, della Costituzione, e di copertura finanziaria delle leggi di spesa, prescritto dall’articolo 81, terzo comma, della Costituzione, e violerebbe, quale norma interposta, l’art. 38 del Decreto legislativo n. 118/2011, introdotto dal legislatore statale nell’esercizio delle competenze legislative ad esso riservate in materia di “armonizzazione dei bilanci pubblici” (articolo 117, comma 2, lettera e), della Costituzione) e “coordinamento della finanza pubblica” (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), esulando altresì dalle competenze attribuite alla Regione dallo Statuto speciale.

Secondo il Governo «le modifiche introdotte dall’art. 4, comma 1, della legge in esame confermano le originarie finalità già oggetto di impugnativa, tra gli altri, del suddetto art.36 della legge regionale 9/2021, recante “Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2021. Legge di stabilità regionale” impugnata davanti alla Corte Costituzionale a seguito della delibera del Consiglio dei Ministri del 17 giugno 2021, in quanto ritenuta esorbitante dalle competenze affidate alla Regione dallo Statuto Speciale di autonomia e in contrasto con diversi articoli della Costituzione».

Dunque la modifica introdotta interviene solo sulla quantificazione delle risorse (peraltro restringendo all’esercizio 2021 la copertura degli oneri necessari alla stabilizzazione) ma non incide sulle originarie finalità dell’art. 36 della L.R. n. 9/2021.

Per tale ragione il Governo «intende integralmente richiamare anche tutti i motivi di impugnativa, non soltanto quindi quelli relativi alla inidoneità della copertura finanziaria, che attengono ai vizi di illegittimità costituzionale del citato art. 36 nel suo complesso e quindi all’intervento legislativo regionale per la stabilizzazione del personale gli ASU, che sono stati illustrati nel ricorso proposto ex art. 127 Cost relativamente alla L.R. 9/2021».

4.2. L’articolo 14 “Interventi per favorire la sicurezza dei luoghi della cultura” violerebbe gli artt. 81, 117, terzo comma, e 119 Cost.

Con la norma in esame si autorizza, per l’esercizio finanziario 2021, un’ulteriore spesa per il trattamento accessorio del personale utilizzato per interventi di sicurezza e vigilanza nei luoghi della cultura.

I motivi di doglianza sono sostanzialmente analoghi a quelli che stanno alla base dell’impugnativa proposta avverso l’art. 4 della legge regionale n. 24 del 2021 si cui si è detto sopra.

Essa infatti, secondo il Governo, si porrebbe «in contrasto con il vincolo finanziario posto dall'art. 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017 n.75, ai sensi del quale a decorrere dal 1° gennaio 2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016».

Il ricorrente rammenta come la “riduzione del trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale” costituisse una delle condizioni contenute nel Piano di rientro, redatto a seguito dell'Accordo Stato-Regione sottoscritto in data 14 gennaio 2021 dai Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Presidente della Regione Siciliana, ed allegato alla legge regionale n. 10 del 2021, concernente, l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Siciliana per il triennio 2021-2023.

Piano «adottato in attuazione del decreto legislativo 27 dicembre 2019 n. 158, recante “Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione Siciliana in materia di armonizzazione dei sistemi contabili, dei conti giudiziali e dei controlli” e, in particolare, dell'articolo 7, rubricato “Ripiano del disavanzo derivante dagli effetti del riaccertamento straordinario”, che prevede la possibilità di ripianare il disavanzo e le quote di disavanzo non recuperate, relative al rendiconto 2018, in un periodo non superiore a dieci esercizi finanziari».

La norma in esame dunque, secondo il Governo, «oltre a costituire un’ingiustificata violazione del precetto normativo di cui al predetto articolo 23, comma 2, del d. lgs. n. 75/2017, pregiudicherebbe il raggiungimento dell’obiettivo di rientro previsto nel suddetto Piano, ponendosi in tal modo in contrasto con l'art. 117, terzo comma, Cost. in relazione all'articolo 7 del decreto legislativo 27 dicembre 2019 n. 158, quanto al coordinamento della finanza pubblica, oltre che con l'art. 81 Cost, per il tramite della violazione della legge 24 dicembre 2012, n. 243, recante “Disposizioni per l'attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell'articolo 81, sesto comma, della Costituzione” e, in particolare, con l'articolo 9, rubricato "Equilibrio dei bilanci delle regioni e degli enti locali”».

L'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017, che limita a decorrere dal 2017 l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente ai trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, all’importo corrisposto per l'anno 2016, rappresenta espressione del principio di coordinamento della finanza pubblica, e norma interposta in relazione all'art. 117, comma 3, della Costituzione.

Si richiamano in tal senso le indicazioni della Corte Costituzionale, che individua nell’art. 23, comma 2, del D. lgs. n. 75 del 2017 – quale norma che pone un limite generale al trattamento economico del personale pubblico – un principio di coordinamento della finanza pubblica, non derogabile dal legislatore regionale, poiché incide su un rilevante aggregato della spesa corrente, costituito da una delle due componenti della retribuzione dei pubblici dipendenti, con l’obiettivo di contenerla entro limiti prefissati, essendo tale spesa una delle più frequenti e rilevanti cause di disavanzo pubblico (sentenze nn. 212 del 2021, 191 del 2017, 218 del 2015 e 215 del 2012).

La norma impugnata si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. l), della Costituzione «qualora i maggiori oneri indicati nell'articolo 14 in esame si riferissero ad un aumento della retribuzione di posizione e di risultato del personale con qualifica dirigenziale». Ciò perché, come affermato dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 178 del 2015 «nei limiti tracciati dalle disposizioni imperative della legge (art. 2. commi 2, secondo periodo, e 3-bis del D.Lgs. n. 165 del 2001), il contratto collettivo si atteggia come imprescindibile fonte, che disciplina anche il trattamento economico (art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001) nelle sue componenti fondamentali ed accessorie (art. 45, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001), e "i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali" (art. 40, comma 1, primo periodo, del D.Lgs. n. 165 del 2001)».

5. L’ultima legge impugnata è la n. 35 del 27 dicembre 2021 recante “variazioni al bilancio della regione per il triennio 2021-2023”, che presenterebbe profili di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 2, comma 5, e all'art. 3, comma 3.

5.1. L’art. 2, comma 5 violerebbe l'art. 81, terzo comma, dell'art. 117, secondo comma, lett. e), e terzo comma, Cost. e l’art. 3 Cost.

Esso dispone che, per le finalità di cui all'art. 36 della legge regionale n. 9 del 2021 (Legge di stabilità regionale 2021), concernente norme in materia di stabilizzazione e fuoriuscita del personale ASU, sono apportate modifiche all'autorizzazione di spesa di cui al comma 7 del medesimo art. 36, procedendo di fatto ad una riduzione delle risorse già stanziate, per l'esercizio finanziario 2021, nel Fondo per la stabilizzazione e fuoriuscita del personale ASU. Contestualmente si dispone un incremento delle relative risorse, per gli esercizi finanziari 2022 e 2023, a copertura degli oneri conseguenti alla proroga, fino al 31 dicembre 2023, dell'utilizzazione del personale rientrante nel bacino, quale disposta dal successivo art. 3 della legge regionale in esame.

 Il Governo rammenta di avere già impugnato la legge regionale n. 9 del 2021, recante "Disposizioni programmatiche e correttive per l'anno 2021. Legge di stabilità regionale", ritenuta esorbitante dalle competenze affidate alla Regione dallo Statuto Speciale di autonomia e in contrasto con alcuni articoli della Costituzione.

E conclude che «non essendo mutate le originarie finalità già censurate, si richiamano le motivazioni poste alla base dell’impugnativa dell'art. 36, comma 7, della legge regionale n. 9 del 2021».

Le medesime ragioni di doglianza valgono dunque anche per l’art. 2, comma 5, della legge regionale in esame, considerato che interviene a modificare gli importi indicati al menzionato art. 36 comma 7 della legge regionale n. 9 del 2021.

5.2. Infine, l’art. 3, comma 3 si porrebbe in contrasto con l’art. 81 Cost. ed eccederebbe la competenza legislativa attribuita Regione dal proprio Statuto speciale.

Esso proroga fino al 31 dicembre 2023 la possibilità di utilizzare il personale, non meglio individuato, titolare di contratto a tempo determinato o utilizzati in attività socialmente utili e al comma 4 prevede la relativa copertura finanziaria.

La norma non indica con precisione il personale a cui è destinata la proroga dei contratti a tempo determinato e proprio dall’impossibilità di verificare la correttezza della copertura finanziaria, deriverebbe la violazione dell’art. 81 Cost.

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