Archivio rubriche 2016

Il 22 novembre 2023 il Parlamento europeo (PE) ha approvato a maggioranza una risoluzione con cui l'istituzione che rappresenta i cittadini dell’Unione esercita il potere ad essa conferito dall’art. 48.2 TUE di sottoporre al Consiglio progetti di revisione ordinaria dei Trattati. Alla risoluzione è allegato un articolato progetto che delinea una riforma organica dei Trattati. Il voto ha tuttavia denotato una spaccatura in seno all’istituzione proponente. Questo dato, unito alla complessità della procedura di revisione ordinaria e all’imminente termine della legislatura, getta qualche ombra sul futuro dell’iniziativa. A ciò si aggiunge la volontà, chiaramente emersa dalla riunione del Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre 2023, di riformare l’Unione nella prospettiva del suo allargamento. La proposta del Parlamento europeo sembra quindi destinata a confrontarsi con una visione della riforma dell’Unione che si rende necessaria, in primis, per ragioni geo-politiche, piuttosto che per raggiungere un grado ulteriore di approfondimento del processo di integrazione europea, nel solco della Conferenza sul Futuro dell’Europa.

Tribunale dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza 13 settembre 2023, Causa T-65/18 RENV, Repubblica bolivariana del Venezuela c. Consiglio dell’Unione europea, ECLI:EU:T:2023:529.

La sentenza in oggetto costituisce un nuovo atto dell’articolata vicenda processuale che vede contrapporsi il Venezuela e il Consiglio dell’Unione europea in relazione alle misure restrittive adottate da quest’ultimo per contrastare il drastico peggioramento della situazione in materia di diritti umani, di Stato di diritto e di democrazia in corso ormai da alcuni anni in Venezuela. La causa è tornata dinanzi al Tribunale dopo che lo stesso (Causa T-65/18) aveva respinto il ricorso del Venezuela volto a ottenere l’annullamento di alcune disposizioni del regolamento adottato dal Consiglio per dare attuazione alle misure restrittive in questione. Lo Stato terzo, impugnata la sentenza del Tribunale sopra ricordata, ne ha ottenuto il parziale annullamento da parte della Grande Sezione della Corte di giustizia (Causa C-872/19 P), la quale ha altresì rinviato la causa al Tribunale affinché statuisca nel merito. Quest’ultimo, analizzati i quattro motivi sollevati dal Venezuela a sostegno della sua richiesta di annullamento, ha respinto integralmente il ricorso.

Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 28 novembre 2023, Commune d’Ans, causa 148/22, ECLI:EU:C:2023:924

Nella sentenza Commune d’Ans, la Corte di giustizia, nella formazione della Grande sezione, si è pronunciata in via pregiudiziale circa il divieto contenuto in un regolamento interno imposto da un datore di lavoro pubblico ai suoi dipendenti di portare qualsiasi segno visibile che possa rivelare la loro appartenenza religiosa sul posto di lavoro. La Corte di giustizia, riprendendo la sua giurisprudenza precedente, ha, da un lato, escluso che tale divieto integri una discriminazione diretta e, dall’altro lato, rimesso al giudice nazionale la valutazione se una siffatta differenza di trattamento costituisca una discriminazione indiretta per motivi di religione o convinzioni personali. In particolare, la Corte di giustizia ha preso in esame la situazione peculiare dovuta alla natura pubblica del datore di lavoro e ha rilevato che la “neutralità esclusiva” perseguita da una pubblica amministrazione sul posto di lavoro può costituire una finalità legittima, in quanto la direttiva 2000/78 lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri quanto allo spazio che intendono concedere, al loro interno, alla religione o alle convinzioni filosofiche nel settore pubblico. Inoltre, la Corte di giustizia ha ritenuto che i mezzi appropriati e necessari per perseguire tale obiettivo non ammettano alcuna manifestazione visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, sia quando i lavoratori sono a contatto con gli utenti del servizio pubblico sia quando sono a contatto tra loro, rimettendo infine al giudice nazionale il bilanciamento degli interessi in gioco, che dovrà tenere conto, da un lato, del diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, il quale ha come corollario il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione e, dall’altro lato, del principio di neutralità dello Stato.

Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 5 settembre 2023, Udlændinge- og Integrationsministeriet (Perte de la nationalité danoise), Causa C-689/21, ECLI:EU: C:2023:626

La Corte di Giustizia, nella composizione della Grande Sezione, è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi in relazione alla revoca della cittadinanza di uno Stato membro che, stante l’assenza della cittadinanza di un altro Stato membro, determina il venir meno della cittadinanza dell’Unione di cui all’art. 20 TFUE, il quale è «destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri». La Grande Sezione ha, in primo luogo, ribadito che la suddetta decisione di revoca deve essere conforme al principio di proporzionalità e ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta, tra cui in particolare il diritto alla vita privata e familiare, letto alla luce del principio del superiore interesse del minore. In secondo luogo, applicando per la prima volta i principi dell’autonomia procedurale e di effettività al settore in questione, la Corte ha individuato alcune garanzie procedurali che la legislazione e la prassi in materia di revoca devono assicurare per essere conformi al diritto dell’Unione.

L’art. 281, paragrafo 2, TFUE prevede la possibilità di modificare lo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea senza dover ricorrere alla procedura di revisione dei Trattati, benché lo stesso sia contenuto nel Protocollo n. 3 e abbia, pertanto, rango di diritto primario. La disposizione citata consente, in particolare, al Parlamento europeo e al Consiglio di adottare tali modifiche deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, su richiesta della Corte di giustizia e previa consultazione della Commissione, ovvero su proposta della Commissione e previa consultazione della Corte di giustizia.

Lo scorso dicembre, la Corte di giustizia ha presentato una domanda ai sensi dell’art. 281, paragrafo 2, TFUE volta a introdurre due modifiche, entrambe animate dall’esigenza di ridurre il carico di lavoro della Corte stessa, nell’interesse della buona amministrazione della giustizia e dell’efficace adempimento della funzione affidata a tale istituzione (ovvero, “[assicurare] il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati”: cfr. Articolo 19, par. 1, TUE).

Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 18 aprile 2023, E.D.L., Causa C‑699/21, ECLI: ECLI:EU:C:2023:295

La Grande Sezione della Corte di Giustizia, statuendo in seguito a rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale italiana, si è nuovamente pronunciata sul rapporto tra fiducia reciproca e tutela dei diritti fondamentali e, in particolare, sulla situazione in cui la protezione di tali diritti impone di non eseguire un mandato di arresto europeo per una ragione non prevista dalla decisione quadro in materia. La pronuncia riguarda, nello specifico, l’ipotesi in cui il ricercato sia affetto da una grave patologia cronica e di durata indeterminata e la consegna possa esporlo al rischio di subire una riduzione significativa della sua aspettativa di vita o un deterioramento rapido, significativo e irrimediabile del suo stato di salute, tali da configurare un trattamento disumano e degradante vietato dall’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La Grande Sezione ha, innanzitutto, precisato che un’interpretazione della decisione quadro alla luce di tale disposizione, impone di ritenere che, nell’ipotesi richiamata, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione sia tenuta a sospendere temporaneamente la consegna e richiedere all’autorità emittente garanzie volte a evitare il materializzarsi del suddetto rischio. Qualora, alla luce delle informazioni ricevute, tale rischio non possa escludersi entro un termine ragionevole, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione dovrà rifiutare di dare esecuzione al mandato.

Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 22 dicembre 2022, Ministre de la Transition écologique e Premier ministre (Responsabilité de l’État pour la pollution de l’air), causa 61/21[1], ECLI:EU:C:2022:1015

Nella sentenza Ministre de la Transition écologique, la Corte di giustizia, nella formazione della Grande sezione, si è pronunciata in via pregiudiziale, per la prima volta, circa le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro può essere ritenuto responsabile per i danni alla salute dei suoi cittadini, causati dalla violazione di obblighi discendenti dal diritto dell’Unione in materia ambientale. La Corte di giustizia ha, in particolare, valutato se la normativa dell’Unione in questione fosse preordinata ad attribuire diritti ai singoli. Essa tuttavia ha ritenuto che sebbene le misure considerate ponessero obblighi abbastanza chiari e precisi quanto al risultato che gli Stati membri dovevano assicurare, esse perseguivano un obiettivo generale di protezione della salute umana e dell’ambiente nel suo complesso e pertanto non contenevano alcuna attribuzione esplicita o implicita di diritti la cui violazione potesse far sorgere la responsabilità di uno Stato membro per i  danni causati ai singoli.

Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 6 giugno 2023, O.G., Causa C‑700/21, ECLI:EU:C:2023:444

La Grande Sezione della Corte di Giustizia, pronunciandosi a seguito di un rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale italiana, ha affermato che il principio di uguaglianza dinanzi alla legge di cui all’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea osta alla normativa di uno Stato membro che limita il beneficio di un motivo facoltativo di non esecuzione del mandato d’arresto europeo ai cittadini nazionali e di altri Stati membri, escludendo invece in modo automatico qualsiasi cittadino di un paese terzo che dimori o risieda nel territorio di tale Stato membro, senza che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione possa valutare i legami di tale cittadino con detto Stato membro. La Corte di giustizia ha altresì precisato che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve, al contrario, poter procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi concreti caratterizzanti la situazione del cittadino di paese terzo destinatario del mandato (legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici, natura, durata e condizioni del soggiorno). Questa valutazione deve condurre a stabilire l’esistenza di un sufficiente grado di integrazione del cittadino di paese terzo nello Stato ospitante, cosicché l’esecuzione in detto Stato membro della pena o della misura di sicurezza privative della libertà pronunciata nei suoi confronti nello Stato membro emittente contribuirà ad aumentare le sue successive possibilità di reinserimento sociale.

Sentenza della Corte di giustizia del 17 maggio 2023, BK e ZhP (Suspension partielle de la procédure au principal), causa 172/22, ECLI:EU:C:2023:416

Nella sentenza BK, la Corte di giustizia ha chiarito se e a quali condizioni il giudice del rinvio possa continuare a esaminare la causa di cui è investito, anche dopo aver sollevato un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia e in attesa della sua pronuncia.

Il lungo e quanto mai incerto percorso di adesione formale dell’Unione alla Cedu ha raggiunto recentemente una tappa significativa davvero non scontata. Il 17 marzo scorso è stato concluso un nuovo progetto di accordo grazie al quale l’ipotesi di un’adesione torna ad essere una prospettiva realistica[1].

L’art. 6, par. 2, TUE[2] stabilisce un vero e proprio obbligo a carico dell’Unione di procedere in questa direzione e, in infetti, un primo tentativo si era registrato già all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Come si ricorderà, il negoziato protrattosi per circa tre anni aveva portato nel luglio del 2013 all’adozione del primo progetto di accordo di adesione. Quest’ultimo, sottoposto dalla Commissione al vaglio della Corte di giustizia, attraverso lo strumento previsto dall’art. 218, par. 11, TFUE, era stato dichiarato incompatibile con il diritto dell’Unione. Per il suo contenuto, il parere 2/13[3] ha costituito una battuta di arresto di portata tale da determinare l’abbandono del negoziato per circa sei anni, facendo addirittura dubitare della possibilità di realizzare l’adesione formale alla Cedu. La finalizzazione del nuovo progetto di accordo è dunque un risultato provvisorio ma di assoluta rilevanza nel quadro dei rapporti dell’Unione con la Convenzione.

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