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Cause C-216/18 PPU e C-327/18 PPU – Ancora sulle “circostanze eccezionali” non codificate che consentono di rifiutare l’esecuzione del MAE (3/2018)

Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 25 luglio 2018, LM, causa C-216/18 PPU, ECLI:EU:C:2018:586
Sentenza della Corte di giustizia, del 19 settembre 2018, RO, causa C-327/18 PPU, ECLI:EU:C:2018:733

Nella prima sentenza oggetto della segnalazione (LM), la Corte di giustizia ha affermato che il rischio reale che la persona ricercata in base a un mandato di arresto europeo (di seguito, MAE) subisca, in caso di consegna, la violazione del suo diritto fondamentale ad un giudice indipendente – di cui all’art. 47, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali UE (Carta) – costituisce una delle “circostanze eccezionali” che, in base alla giurisprudenza Aranyosi e Căldăraru, possono giustificare il rifiuto di eseguire il mandato. Così facendo, la Corte ha esteso l’ambito delle “circostanze eccezionali” oltre l’ipotesi del rischio reale che, in conseguenza di carenze sistemiche nello Stato membro richiedente, la persona ricercata – ove consegnata – subisca la violazione di un diritto fondamentale assoluto. Nella seconda sentenza oggetto di segnalazione (RO), invece, la Corte di giustizia ha chiarito che la mera notifica ex art. 50 TUE da parte di uno Stato membro dell’intenzione di recedere dall’Unione non integra, in quanto tale, una delle suddette “circostanze eccezionali”.

 

Nelle due sentenze oggetto della presente nota, la Corte di giustizia è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi in relazione alla possibilità che l’autorità giudiziaria nazionale chiamata a dare esecuzione a un MAE, ai sensi della Decisione quadro 2002/584/GAI1, possa porre fine alla procedura di consegna qualora ricorrano “circostanze eccezionali” tali da limitare i principi di riconoscimento e di fiducia reciproca tra gli Stati membri. Il giudice dell’Unione ha così avuto modo di fornire ulteriori elementi circa l’interpretazione della nozione di “circostanze eccezionali” in due fattispecie poste alla sua attenzione attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale: l’una riguardante il caso in cui lo Stato membro di emissione di un MAE sia stato oggetto di una proposta motivata della Commissione finalizzata all’avvio della procedura di cui all’art. 7, par. 1, TUE2, in conseguenza delle recenti riforme legislative del sistema giudiziario nello Stato membro interessato; l’altra riguardante il caso in cui lo Stato membro di emissione abbia nel frattempo notificato l’intenzione di recedere dall’Unione a norma dell’art. 50 TUE.
Tali decisioni fanno seguito alla sentenza del 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, originata da un rinvio pregiudiziale con il quale la Corte di giustizia era stata chiamata a pronunciarsi circa l’interpretazione della decisione quadro sul MAE, in particolare sulla previsione – all’art. 1, par. 3 – secondo cui “l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall’art. 6 TUE non può essere modificata per effetto della presente decisione quadro”. In tale sentenza, la Corte aveva statuito che “limitazioni ai principi di riconoscimento e di fiducia reciproci tra Stati membri possono essere apportate in circostanze eccezionali” (par. 82), riconducibili a violazioni di diritti fondamentali quali quelli sanciti dall’art. 4 della Carta, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti.
Pertanto, fondandosi sull’art. 1, par. 3, della decisione quadro, e sul carattere assoluto dell’art. 4 della Carta (che non ammette limitazioni ai sensi dell’art. 52, par. 1, della Carta)3, la Corte aveva stabilito che, “qualora l’autorità giudiziaria dello Stato membro di esecuzione [disponga] di elementi che attestano un rischio concreto di trattamento inumano o degradante dei detenuti nello Stato membro emittente, tenuto conto del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’articolo 4 della Carta […], essa è tenuta a valutare la sussistenza di tale rischio quando decide in ordine alla consegna alle autorità dello Stato membro emittente della persona colpita da un mandato di arresto europeo” (par. 88, corsivo aggiunto). Infatti, secondo la Corte, l’esecuzione del MAE non può condurre a un trattamento inumano e degradante di tale persona, in violazione dell’art. 4 della Carta.
Tale valutazione, secondo il giudice dell’Unione, si snoda attraverso due momenti. In prima battuta, l’autorità giudiziaria di esecuzione deve “fondarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione” (par. 89). Una volta accertata la sussistenza di un “rischio concreto di trattamento inumano o degradante dovuto alle condizioni generali di detenzione nello Stato membro emittente” (par. 91), è necessario che l’autorità giudiziaria di esecuzione valuti, in modo concreto e preciso, “se sussistono motivi gravi e comprovati di ritenere che l’interessato corra tale rischio a causa delle condizioni di detenzione previste nei suoi confronti nello Stato membro emittente” (par.92).
Di conseguenza, “l’autorità giudiziaria di esecuzione, a fronte di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti l’esistenza di siffatte carenze, è tenuta a verificare se, nelle circostanze della fattispecie, sussistano motivi gravi e comprovati di ritenere che, in seguito alla sua consegna allo Stato membro emittente, tale persona corra un rischio concreto di essere sottoposta nello Stato membro di cui trattasi a un trattamento inumano o degradante” (par. 94), ai sensi dell’art. 4 della Carta. A tal fine, l’autorità giudiziaria di esecuzione è tenuta a rivolgersi all’autorità dello Stato membro emittente al fine di ottenere qualsiasi informazione complementare per quanto riguarda le condizioni di detenzione previste nei confronti dell’interessato nello Stato membri di emissione.
Il duplice test, composto dall’accertamento di “carenze sistemiche” nello Stato membro emittente e dalla valutazione della sussistenza, nel caso di specie, di “un rischio concreto” per il soggetto, è stato ripreso dalla Corte di giustizia nella sentenza del 25 luglio 2018, LM, ove quest’ultima era chiamata a pronunciarsi a seguito di una domanda in via pregiudiziale sollevata nell’ambito dell’esecuzione, in Irlanda, di mandati d’arresto europei emessi da giudici della Repubblica di Polonia.
Le autorità polacche avevano emesso tre mandati di arresto europei nei confronti del sig. LM, ai fini della sua consegna a dette autorità per l’esercizio di azioni penali relative a reati legati al traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope. Il sig. LM era stato successivamente arrestato in Irlanda e, in base a tali MAE, condotto dinanzi al giudice del rinvio, la High Court (Alta Corte, Irlanda). L’interessato non aveva acconsentito alla propria consegna alle autorità polacche ed era quindi stato incarcerato in attesa di una decisione circa la sua consegna a dette autorità.
In particolare, il sig. LM sosteneva che la consegna lo avrebbe esposto a un “rischio reale di flagrante diniego di giustizia, in violazione dell’articolo 6 della CEDU” (par. 16). Infatti, secondo l’interessato, le recenti riforme legislative del sistema giudiziario nella Repubblica di Polonia lo avrebbero privato del suo diritto ad un equo processo. Le riforme in parola sarebbero state tali da pregiudicare in maniera sostanziale la fiducia reciproca tra Stati membri e, di conseguenza, l’intero meccanismo del MAE. Questo rilievo trovava il suo fondamento, secondo il sig. LM, sulla circostanza che, in data 20 dicembre 2017, la Commissione europea aveva adottato, ai sensi dell’art. 7 par. 1 TUE, una proposta motivata sullo Stato di diritto in Polonia4. In essa, veniva in rilievo come le recenti riforme legislative adottate fossero causa di preoccupazione da un lato, per l’assenza di controllo di costituzionalità indipendente e legittimo e, dall’altro, per i rischi di violazione dell’indipendenza dei giudici ordinari. Nel parere si invitava quindi il Consiglio a constatare l’esistenza di un rischio evidente di violazione grave da parte della Repubblica di Polonia dei valori di cui all’articolo 2 TUE nonché a rivolgere a tale Stato membro le raccomandazioni necessarie a tal riguardo. L’interessato richiamava inoltre le constatazioni della Commissione per la democrazia attraverso il diritto del Consiglio d’Europa nonché le gravi preoccupazioni espresse nel periodo antecedente alla proposta della Commissione europea, da varie istituzioni e organismi internazionali ed europei.
In tale contesto, l’Alta Corte irlandese aveva quindi ritenuto esistente un rischio reale che l’interessato fosse trattato arbitrariamente nel corso del processo a suo carico nello Stato membro emittente. Secondo il giudice del rinvio, la consegna del sig. LM in esecuzione del MAE avrebbe quindi comportato una violazione dei suoi diritti sanciti dall’art. 6 CEDU e, di conseguenza, tale consegna avrebbe dovuto essere rifiutata, in base alla giurisprudenza Aranyosi e Cӑldӑraru.
A fronte di tale situazione, il giudice del rinvio aveva quindi deciso di sospendere il procedimento e investire la Corte di giustizia di una questione in via pregiudiziale riguardante le condizioni che consentono all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di astenersi, sul fondamento dell’art. 1 par. 3 della decisione quadro, dal dare corso a un MAE a causa del rischio di violazione, in caso di consegna del ricercato all’autorità giudiziaria emittente, del diritto fondamentale a un equo processo dinanzi a un giudice indipendente, come sancito dall’art. 6 CEDU, che corrisponde all’art. 47 par. 2 della Carta. In particolare, il giudice irlandese aveva chiesto se a fronte di una proposta motivata come quella della Commissione europea, idonea a dimostrare l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un processo equo garantito dall’art. 47 par. 2 della Carta, a causa di carenze sistemiche e generalizzate riguardanti l’indipendenza del sistema giudiziario dello Stato membro emittente, detta autorità dovesse anche verificare, in modo concreto e preciso, se esistessero motivi seri e comprovati per ritenere che l’interessato corresse un rischio di tal genere in quest’ultimo Stato.
La Corte di giustizia, riunita nella formazione della Grande sezione, e trattando il procedimento d’urgenza, inizia il suo ragionamento richiamando la “premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato dall’articolo 2 TUE” (par. 35). Tale presupposto implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra Stati membri nel riconoscimento di tali valori e nel rispetto del diritto dell’Unione che li attua. Pertanto “quando attuano il diritto dell’Unione, gli Stati membri possono quindi essere tenuti, in forza di tale diritto, a presumere il rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri” (par. 37).
In questo contesto, la decisione quadro relativa al MAE costituisce la prima concretizzazione, nel settore del diritto penale, del principio del riconoscimento reciproco, che si fonda a sua volta sulla fiducia reciproca tra Stati membri. Proprio in base a tale principio, gli Stati membri sono tenuti a dare esecuzione ad ogni MAE, conformemente alla decisione quadro che disciplina anche le ipotesi tassative in cui l’esecuzione del mandato possa essere rifiutata o possa essere subordinata ad alcune condizioni tassativamente previste.
Tuttavia, oltre a tali ipotesi disciplinate espressamente dalla decisione quadro, la Corte, nella sentenza Aranyosi e Căldăraru, ha riconosciuto in “circostanze eccezionali” la facoltà per l’autorità giudiziaria dell’esecuzione “di porre fine alla procedura di consegna istituita dalla decisione quadro 2002/584 qualora una siffatta conseguenza rischi di comportare un trattamento inumano o degradante del ricercato, ai sensi dell’articolo 4 della Carta” (par. 44).
Nel caso di specie, la Corte ritiene che occorra innanzitutto verificare se, al pari di un rischio reale di violazione dell’art. 4 della Carta, un rischio reale di violazione del diritto fondamentale dell’interessato a un giudice indipendente e, quindi, del suo diritto fondamentale a un equo processo, come enunciato all’art. 47, par.2 della Carta, consenta all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di astenersi, a titolo eccezionale, dal dare seguito a un mandato di arresto europeo, in base all’art. 1 par. 3 della decisione quadro. La Corte richiama quindi come il “requisito dell’indipendenza dei giudici attiene al contenuto essenziale del diritto fondamentale a un equo processo, che riveste importanza cardinale quale garanzia della tutela dell’insieme dei diritti derivanti al singolo dal diritto dell’Unione e della salvaguardia dei valori comuni agli Stati membri enunciati all’articolo 2 TUE, segnatamente del valore dello Stato di diritto” (par. 48). Elemento essenziale dello Stato di diritto è infatti costituito dall’esistenza stessa di un controllo giurisdizionale effettivo destinato ad assicurare il rispetto del diritto dell’Unione.
Secondo il giudice dell’Unione, la salvaguardia dell’indipendenza di tali autorità è essenziale anche nell’ambito del meccanismo del MAE, il quale poggia su un alto grado di fiducia tra Stati membri: infatti, non soltanto la decisione relativa all’esecuzione del mandato ma anche quella concernete l’emissione devono essere adottate da un’autorità giudiziaria che soddisfi i requisiti inerenti a una tutela giurisdizionale effettiva, tra cui la garanzia di in indipendenza e imparzialità (paragrafi. 56-58).
Pertanto, in principio, “l’esistenza di un rischio reale che la persona oggetto di un mandato di arresto europeo subisca, in caso di consegna all’autorità giudiziaria emittente, una violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente e, pertanto, del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale a un equo processo, garantito dall’art. 47, secondo comma, della Carta, autorizza l’autorità giudiziaria dell’esecuzione ad astenersi, a titolo eccezionale, dal dare seguito a tale mandato d’arresto europeo, in base all’art. 1, par. 3, della decisione quadro 2002/584” (par. 59).
Come nel caso di specie, nel quale il sig. LM ha fatto valere l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate idonee ad incidere sull’indipendenza del potere giudiziario nello Stato membro emittente e a pregiudicare così il contenuto essenziale del suo diritto fondamentale ad un equo processo, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione è tenuta a valutare, dovendo decidere sulla consegna dell’interessato, l’esistenza di un rischio reale che egli subisca una violazione di tale diritto fondamentale nello Stato membro emittente.
La Corte richiama quindi il test formulato nella sentenza Aranyosi e Cӑldӑraru, stabilendo che “l’autorità giudiziaria di esecuzione, in una prima fase, deve valutare, in base a elementi oggettivi, attendibili, precisi e debitamente aggiornati riguardanti il funzionamento del sistema giudiziario nello Stato membro emittente […], l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo connesso a una mancanza di indipendenza dei giudici di detto Stato membro, a causa di carenze sistemiche o generalizzate in quest’ultimo Stato” (par.61). In questo senso, “le informazioni contenute in una proposta motivata recentemente rivolta dalla Commissione al Consiglio in base all’art. 7, par. 1, TUE costituiscono elementi di particolare rilevanza ai fini di tale valutazione” (ibid.).
Quanto al requisito d’indipendenza dei giudici, che attiene al contenuto essenziale del diritto ad un equo processo, esso è intrinseco alla funzione giurisdizionale e implica due aspetti: “il primo aspetto, di carattere esterno, presuppone che l’organo interessato eserciti le sue funzioni in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo gerarchico o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, con la conseguenza di essere quindi tutelato dagli interventi o dalle pressioni esterne idonei a compromettere l’indipendenza del giudizio dei suoi membri e a influenzare le loro decisioni” (par. 63). Il secondo aspetto, invece, di carattere interno, si ricollega alla nozione di imparzialità e riguarda l’equidistanza dalle parti della controversia e dai loro rispettivi interessi riguardo all’oggetto di quest’ultima. Tale aspetto “richiede il rispetto dell’oggettività e l’assenza di qualsiasi interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica” (par. 65). Entrambi i requisiti presuppongono quindi l’esistenza di regole che consentano “di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti” (par. 66).
Se alla luce di tali requisiti, “l’autorità giudiziaria dell’esecuzione accerta che esiste, nello Stato membro emittente, un rischio reale di violazione del contenuto essenziale del diritto fondamentale a un equo processo a causa di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti il potere giudiziario di tale Stato membro, tali da compromettere l’indipendenza dei giudici di detto Stato, tale autorità deve, in un secondo momento, valutare, in modo concreto e preciso, se, nelle circostanze del caso di specie, esistano motivi seri e comprovati per ritenere che, in seguito alla sua consegna allo Stato membro emittente, il ricercato corra tale rischio” (par.68).
Secondo la Corte, infatti, se la proposta motivata della Commissione è sufficiente per fornire all’autorità giudiziaria dell’esecuzione elementi idonei a dimostrare l’esistenza di carenze sistemiche in relazione ai valori di cui all’art. 2 TUE sul piano del potere giudiziario dello Stato membro emittente, è altresì vero che tale proposta non esime il giudice dello Stato membro di esecuzione a procedere alla valutazione concreta e precisa dell’esistenza di motivi seri e comprovati che l’interessato corra un rischio reale di subire una lesione del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale ad un equo processo.
L’unica ipotesi in cui il giudice dell’esecuzione non sarebbe tenuto a procedere a tale valutazione concreta è nel caso di adozione da parte del Consiglio europeo di una decisione che constati, alle condizioni di cui all’art. 7, par. 2, TUE, una violazione grave e persistente nello Stato membro emittente dei principi sanciti all’articolo 2 TUE, come quelli inerenti allo Stato di diritto, seguita dalla sospensione da parte del Consiglio dell’applicazione della decisione quadro 2002/584 nei confronti di tale Stato membro. In questo caso, “l’autorità giudiziaria dell’esecuzione sarebbe tenuta a rifiutare automaticamente l’esecuzione di ogni mandato d’arresto europeo emesso da detto Stato membro, senza dover svolgere alcuna valutazione concreta del rischio reale, corso dall’interessato, di lesione del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale a un equo processo” (par. 72).
Al di là di questa ipotesi, quindi, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve “esaminare in quale misura le carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l’indipendenza dei giudici dello Stato membro emittente, attestate dagli elementi a sua disposizione, siano idonee ad avere un impatto a livello dei giudici di tale Stato membro competenti a conoscere dei procedimenti cui sarà sottoposto il ricercato” (par. 74).
Se da tale esame risulta che dette carenze sono idonee a incidere su tali giudici, “l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve ancora valutare, alla luce delle specifiche preoccupazioni espresse dalla persona interessata e delle informazioni eventualmente fornite da quest’ultima, se esistano motivi seri e comprovati per ritenere che detta persona corra un rischio reale di violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente e, pertanto, del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale a un equo processo, tenuto conto della sua situazione personale nonché della natura del reato per cui è perseguita e delle circostanze di fatto poste alla base del mandato d’arresto europeo” (par.75).
Inoltre, l’autorità dell’esecuzione è tenuta a chiedere all’autorità emittente “ogni informazione complementare che reputi necessaria per la valutazione dell’esistenza di un siffatto rischio” (par. 76).
Tuttavia, “nel caso in cui le informazioni che l’autorità giudiziaria emittente, dopo avere richiesto, ove necessario, l’assistenza dell’autorità centrale o di una delle autorità centrali dello Stato membro emittente, ai sensi dell’articolo 7 della decisione quadro 2002/584 […] ha comunicato all’autorità giudiziaria dell’esecuzione non inducano quest’ultima a escludere l’esistenza di un rischio reale che la persona interessata subisca, in detto Stato membro, una violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente e, quindi, del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale a un equo processo, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve astenersi dal dare seguito al mandato d’arresto europeo di cui è oggetto tale persona” (par.78).
In conclusione, secondo la Corte, l’art. 1 par. 3, della decisione quadro deve essere interpretato nel senso che “qualora l’autorità giudiziaria dell’esecuzione, chiamata a decidere sulla consegna di una persona oggetto di un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esercizio di un’azione penale, disponga di elementi, come quelli contenuti in una proposta motivata della Commissione adottata a norma dell’articolo 7, paragrafo 1, TUE, idonei a dimostrare l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo garantito dall’art. 47, secondo comma, della Carta, a causa di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario dello Stato membro emittente, detta autorità deve verificare in modo concreto e preciso se, alla luce della situazione personale di tale persona, nonché della natura del reato per cui è perseguita e delle circostanze di fatto poste alla base del mandato d’arresto europeo, e tenuto conto delle informazioni fornite dallo Stato membro emittente, ai sensi dell’art. 15, par. 2, di tale decisione quadro, vi siano motivi seri e comprovati di ritenere che, in caso di consegna a quest’ultimo Stato, detta persona corra un siffatto rischio” (par.79).
A pochi mesi di distanza, la Corte di giustizia è stata investita nuovamente di una questione pregiudiziale riguardante l’esecuzione in Irlanda, di due mandati d’arresto europei emessi dai giudici del Regno Unito, prima che tale Stato membro notificasse al Consiglio europeo la sua intenzione di recedere dall’Unione ai sensi dell’art. 50 TUE.
Il sig. RO era stato oggetto di due mandati di arresto europei, entrambi datati 2016, emessi dalle autorità giudiziarie del Regno Unito per reati punibili fino all’ergastolo. L’interessato era poi stato arrestato e posto in custodia cautelare in Irlanda, Stato dell’esecuzione. Egli si era quindi opposto alla sua consegna verso il Regno Unito sulla base, in particolare, della sopravvenuta decisione di tale Stato di recedere dall’Unione europea e sull’art. 3 della CEDU, asserendo che avrebbe potuto subire trattamenti inumani e degradanti qualora fosse stato detenuto nel carcere dell’Irlanda del Nord, carcere di destinazione.
Alla luce delle gravi condizioni di salute del sig. RO e del rischio che lo stesso subisse trattamenti inumani e degradanti nello Stato membro emittente, la High Court irlandese – autorità giudiziaria dell’esecuzione – aveva ritenuto necessario chiedere chiarimenti alle autorità del Regno Unito sulle condizioni di RO in caso di consegna, sulla base della sentenza Aranyosi e Căldăraru. A seguito delle informazioni ricevute, la High Court aveva quindi deciso di respingere ciascuno dei motivi di opposizione sollevati dal sig. RO contro la sua consegna, salvo quelli relativi alla notifica del recesso del Regno Unito dall’Unione, nel frattempo intervenuta il 29 marzo 2017 sulla base dell’art. 50 TUE. Il giudice irlandese faceva infatti valere che, se avesse proceduto alla consegna dell’interessato, egli sarebbe stato molto probabilmente in carcere dopo la data prevista per il recesso del Regno Unito dall’Unione – 29 marzo 2019 – e che, per via dell’incertezza quanto al regime giuridico esistente dopo tale data, non si sarebbe potuto garantire che i diritti di cui egli godeva ai sensi del diritto dell’Unione avrebbero potuto essere di fatto garantiti anche dopo tale data.
In tali circostanze, la High Court aveva quindi deciso di sospendere il procedimento e sollevare una questione in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, chiedendo se l’art. 50 TUE dovesse essere interpretato nel senso che la notifica da parte di uno Stato membro della propria intenzione di recedere dall’Unione comporti che, in caso di emissione da parte di tale Stato membro di un MAE nei confronti di una persona, lo Stato membro di esecuzione deve rifiutare di eseguirlo o rinviarne l’esecuzione in attesa che venga chiarito il regime giuridico che sarà applicabile nello Stato membro emittente dopo il suo recesso dall’Unione.
A seguito della richiesta formulata dal giudice del rinvio, la Corte aveva deciso di trattare la causa in base al procedimento d’urgenza.
Innanzitutto, la Corte richiama, come nella sentenza LM, l’art. 2 TUE e i valori su cui poggia l’Unione, tra cui il principio di fiducia reciproca tra Stati membri e il principio del reciproco riconoscimento, i quali - in “circostanze eccezionali” – possono essere limitati, come stabilito dalla sentenza Aranyosi e Căldăraru.
La Corte prende poi in esame il caso di specie, rilevando che il sig. RO, a causa della notifica del Regno Unito della propria intenzione di recedere dall’Unione, corre il rischio “che vari diritti di cui gode ai sensi della Carta e della decisione quadro non siano più rispettati dopo il recesso del Regno Unito dall’Unione” (par. 43). Infatti, secondo l’interessato “il principio della fiducia reciproca, che è alla base del reciproco riconoscimento, è stato irrimediabilmente compromesso da tale notifica, ragion per cui la consegna prevista dalla decisione quadro non deve essere eseguita” (ibid.).
A fronte di tale situazione, si è quindi posta alla Corte la questione se la mera notifica da parte di uno Stato membro della propria intenzione di recedere dall’Unione a norma dell’art. 50 TUE sia in grado di giustificare, in forza del diritto dell’Unione, “il rifiuto di eseguire un mandato d’arresto europeo emesso da tale Stato membro in ragione del fatto che la persona consegnata non potrebbe più dopo tale revoca, far valere nello Stato membro emittente i diritti conferitegli dalla decisione quadro e di sottoporre al vaglio della Corte la conformità del diritto dell’Unione della loro attuazione ad opera di tale Stato membro” (par. 44).
In primo luogo, la Corte ricorda che “una simile notifica non ha l’effetto di sospendere l’applicazione del diritto dell’Unione nello Stato membro” (par. 45) interessato e che, pertanto, “tale diritto, di cui fanno parte le disposizioni della decisione quadro e i principi della fiducia e del riconoscimento reciproci inerenti a quest’ultima, è pienamente vigente in tale Stato fino al suo effettivo recesso dall’Unione” (ibid.).
Secondo la Corte, quindi, un simile rifiuto di esecuzione del MAE da parte dello Stato di esecuzione equivarrebbe “a una sospensione unilaterale delle disposizioni della decisione quadro” (par. 47) e contrasterebbe, inoltre, con la decisione quadro stessa, secondo cui spetta al Consiglio europeo constatare una violazione, nello Stato membro emittente, dei principi sanciti dall’art. 2 TUE ai fini della sospensione, nei confronti di tale Stato membro, dell’applicazione del MAE. Pertanto “la mera notifica, da parte di uno Stato membro, della propria intenzione di recedere dall’Unione […] non può essere considerata, in quanto tale, una circostanza eccezionale in grado di giustificare il rifiuto di eseguire un mandato d’arresto europeo emesso da tale Stato membro” (par. 48, corsivo aggiunto).
In secondo luogo, spetta tuttavia all’autorità giudiziaria dell’esecuzione esaminare, a seguito della valutazione concreta e precisa del caso di specie, “se sussistano ragioni serie e comprovate di ritenere che, dopo il recesso dall’Unione dello Stato membro emittente, la persona oggetto di tale mandato d’arresto rischi di essere privata dei diritti fondamentali e dei diritti derivati [dalla] decisione quadro” (par. 49, corsivo aggiunto).
Riguardo al rispetto dell’art. 4 della Carta nel Regno Unito dopo il recesso, la Corte rileva che tale articolo corrisponde all’art. 3 della CEDU. Nel caso di specie, il Regno Unito è parte della CEDU e ha inserito le disposizioni dell’art. 3 nel proprio diritto interno. Pertanto, “la decisione di detto Stato membro di recedere da[ll’Unione] non incide sul suo obbligo di rispettare l’art. 3 della CEDU, cui corrisponde l’art. 4 della Carta, e, di conseguenza, non può giustificare un rifiuto di dare esecuzione a un mandato d’arresto europeo motivato dal fatto che la persona consegnata corre un rischio di trattamento inumano e degradante” (par. 52).
Per quanto riguarda i diritti derivanti dalla decisione quadro - segnatamente il diritto della persona ricercata ad essere incriminata, condannata o privata della libertà unicamente per il reato che ha determinato la sua consegna e il diritto a non essere estradato successivamente verso uno Stato diverso dallo Stato membro di esecuzione -, la Corte rileva che né le osservazioni del giudice del rinvio né quelle dell’interessato “forniscono elementi tangibili che consentano di ipotizzare una controversia al riguardo” (par. 55). Inoltre, la Corte osserva che entrambi i diritti sono contenuti anche nella Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, che il Regno Unito ha ratificato e recepito nel proprio diritto interno. Pertanto “i diritti invocati da RO in questi ambiti sono, in sostanza, contemplati dalla normativa nazionale dello Stato membro emittente, a prescindere dal recesso di tale Stato membro dall’Unione” (par. 57).
Di conseguenza, secondo la Corte, poiché i diritti derivanti dalla decisione quadro, nonché i diritti fondamentali di cui all’art. 4 della Carta sono tutelati da disposizioni di diritto interno nei casi non solo di consegna, ma anche di estradizione, essi non sono subordinati all’applicazione della decisione quadro nello Stato membro emittente. Risulta dunque “che non vi sono elementi tangibili atti a dimostrare che RO sarà privato della facoltà di invocare tali diritti dinanzi ai giudici di detto Stato membro dopo il recesso”, ma è fatta comunque salva la verifica da parte del giudice del rinvio (par. 59).
La circostanza per cui tali diritti non potranno più essere oggetto di rinvio pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia dopo il recesso, non è in grado di modificare l’analisi svolta dalla Corte. Infatti, da un lato, la persona interessata “deve avere la possibilità di far valere la totalità di questi diritti dinanzi a un giudice di tale Stato membro” (par. 60); dall’altro lato, il ricorso al meccanismo del procedimento pregiudiziale non è sempre stato possibile per i giudici chiamati ad applicare il MAE. Infatti, è solo dal 1° dicembre 2014 che la Corte ha assunto piena competenza a interpretare la decisione quadro.
Pertanto “al fine di decidere se dare esecuzione a un mandato d’arresto europeo, è necessario che, all’atto di tale decisione, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione possa presumere che, nei confronti della persona da consegnare, lo Stato membro emittente applicherà il contenuto sostanziale dei diritti derivanti dalla decisione quadro applicabili al periodo successivo alla consegna, dopo il recesso di detto Stato membro dall’Unione” (par. 61). Una simile presunzione, secondo la Corte, è ammessa “se il diritto nazionale dello Stato membro emittente riprende il contenuto sostanziale di tali diritti, in particolare a causa della perdurante partecipazione di tale Stato membro a convenzioni internazionali, quali la convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957 e la CEDU, anche dopo il recesso di quest’ultimo dall’Unione” (par. 61). Solo in presenza di elementi concreti atti a dimostrare il contrario, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione può rifiutare di eseguire il MAE.


1 Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (GU 2002, L 190, p.1) come modificata dalla Decisione quadro 2009/29/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009 (GU 2009, L 81, pag. 24).

2 Ai sensi dell’Art. 7 par. 1 TUE, “1. Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura.
Il Consiglio verifica regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione permangono validi.”

3 Ciò non è previsto espressamente dalla Carta, ma si ricava dall’art. 52, par. 3, della stessa, che eleva la CEDU a standard di protezione minimo rispetto ai diritti fondamentali della Carta che hanno una corrispondenza nella CEDU. L’art. 4 della Carta corrisponde all’art. 3 CEDU, che non ammette limitazioni.

4 Sul punto, si veda, in questo Rivista, n. 1/2018, N. Lazzerini, Le recenti iniziative delle istituzioni europee nel contesto della crisi dello Stato di diritto in Polonia: prove di potenziamento degli "anticorpi" dei Trattati?

 

Osservatorio sulle fonti

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