La Corte costituzionale ritorna sulla disciplina dell’assenza quale punto di equilibrio tra le esigenze partecipative dell’imputato e l’effettività della tutela della vittima di tortura (3/2023)

Con la sentenza n. 192 del 2023, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.

 

La pronuncia additiva della Corte Costituzionale è giunta al culmine dell’intricata vicenda processuale per i fatti di tortura ai danni del cittadino italiano Giulio Regeni, in cui ad essere imputati erano quattro alti funzionari egiziani. In particolare, in uno dei vari passaggi processuali, la Corte di assise di Roma aveva dichiarato la nullità del decreto di rinvio a giudizio nei confronti degli imputati, non ritenendo vi fossero indizi sufficienti a garantire la effettiva conoscenza della vocatio in iudicium.

Restituiti gli atti al tribunale, nell’udienza del 10 gennaio 2022 il giudice dell’udienza preliminare ha disposto, previe nuove ricerche, la notifica personale agli imputati per l’udienza dell’11 aprile 2022; udienza in cui, stante l’impossibilità di rintracciare gli imputati, ha ordinato la sospensione del processo ai sensi dell’articolo 420 quater del codice di procedura penale. Avverso tale ordinanza, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma ha presentato ricorso alla Corte di cassazione, prima sezione penale, la quale ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso. In attesa del deposito della sentenza (9 febbraio 2023) si è proceduto ad ulteriori ricerche degli imputati da parte della polizia giudiziaria, da cui è emersa l’assenza di una reale volontà di collaborare delle autorità egiziane. Infine, con ordinanza del 31 maggio 2023 il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Roma ha sollevato, su eccezione del pubblico ministero, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 420 bis, commi 2 e 3, del codice di procedura penale alla luce degli articoli 2, 3, 24, 111, 112 e 117 della costituzione.

I Giudici costituzionali hanno ripercorso preliminarmente l’evoluzione della disciplina dell’assenza nell’ambito del processo penale, sotto lo spettro di una specifica analisi di una fattispecie segnata da un’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo e l’effettività della tutela della vittima del delitto di tortura, quale crimine contro l’umanità, proibito sia dal diritto internazionale penale sia dalle norme internazionali sui diritti umani.

L’ordinamento italiano ha registrato un progressivo spostamento del fuoco degli accertamenti di assenza dalla conoscenza del “procedimento” alla conoscenza del “processo”.

Al potenziamento delle garanzie partecipative dell’imputato ha contribuito, con un’opera di fine scavo definitorio, la giurisprudenza di legittimità che, con una primissima sentenza, aveva stabilito che non ostasse alla rimessione nel termine di impugnazione della sentenza contumaciale ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen. la conoscenza dell’accusa evincibile dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari, viceversa esigendosi la conoscenza del processo tratta da un atto formale di vocatio in iudicium[1]. Ancora più incisiva è stata una successiva pronuncia, relativa al valore indiziario dell’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio ai fini della dichiarazione di assenza ex art. 420-bis cod. proc. pen., vecchio testo;  quest’ultima ha escluso la configurabilità di presunzioni di conoscenza del processo, giacché “[i]l fondamento del sistema è che la parte sia personalmente informata del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza”, ed è infatti questa – ha proseguto la Corte riguardo alla modifica dell’art. 175 cod. proc. pen. – “la ragione per la quale il sistema, introducendo la regola di certezza della conoscenza del processo, ha escluso il diritto “incondizionato” al nuovo giudizio di merito in favore del soggetto giudicato in assenza” [2].

Infine,  tali orientamenti sono stati recepiti dalla sensibilità del legislatore che, con il d.lgs. n. 150 del 2022, ha modificato il testo dell’art. 420-bis cod. proc. pen.  rendendo evidente, attraverso un’accurata rivisitazione dei poteri di accertamento del giudice, la traslazione del parametro della dichiarazione di assenza dalla “conoscenza del procedimento” alla “conoscenza della pendenza del processo”.

 Sennonché, il punto di caduta dell’effettività delle garanzie partecipative dell’imputato avrebbe potuto riverberarsi, nel caso in esame, in una paralisi del processo fin dal suo esordio, poiché la mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato ha reso impossibile notificare personalmente all’imputato stesso gli atti formali della vocatio in iudicium, risolvendosi, in ultima istanza, in una sorta di immunità de facto.

In questo senso, determinante nella motivazione della decisione dei Giudici delle Leggi al fine di evidenziare un’aporia processuale nel tessuto della disciplina dell’assenza, ha rappresentato il richiamo alla copiosa giurisprudenza sull’art. 3 CEDU, in cui la Corte di Strasburgo ha più volte distinto un aspetto procedurale («procedural aspect») del divieto di tortura e un aspetto sostanziale («substantive aspect»), potendo tale divieto essere violato non soltanto dalla materiale inflizione di sevizie e crudeltà, ma anche dall’omesso svolgimento di un’indagine effettiva e completa sulla denuncia di tortura, giacché, quando l’indagine riguarda accuse di gravi violazioni dei diritti umani, il “diritto alla verità” («the right to the truth») sulle circostanze rilevanti del caso non appartiene esclusivamente alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di violazioni simili e al pubblico in generale, che hanno il “diritto di sapere cosa è accaduto”[3]. In altri termini, l’art. 3 CEDU esige una “efficient criminal-law response”, senza la quale esso è violato nel “procedural limb”, ancor prima che nell’aspetto sostanziale.

Posto dunque l’accento sul connotato dell’effettività del diritto alla verità, la Consulta ha accolto l’invito del giudice a quo ad una pronuncia additiva, giungendo alla conclusione che l’aporia processuale denunciata dal remittente disvelasse «una lacuna ordinamentale, che non tardava a manifestare i tratti del vulnus costituzionale» in relazione, soprattutto, al diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura nonchè salvaguardia processuale della dignità umana.

Infatti, la Corte ha precisato come l’impossibilità di notificare personalmente agli imputati l’avviso di udienza preliminare e la richiesta di rinvio a giudizio – quindi di portare a loro conoscenza l’apertura del processo – comportasse, sulla base dell’attuale quadro normativo interno, la necessità di emettere, nei confronti degli stessi, la sentenza inappellabile di improcedibilità ai sensi dell’art. 420 quater c.p.p; pronuncia che, a sua volta, non avrebbe mai potuto verosimilmente assolvere alla funzione secondaria di vocatio in iudicium, pure ad essa istituzionalmente spettante, e che anzi era destinata a divenire, con il trascorrere del tempo, irrevocabile per tre dei quattro imputati, giacché chiamati a rispondere di un reato prescrittibile, qual era il sequestro di persona.

Orbene, se una fattispecie addizionale di assenza non impeditiva, nel caso di specie, è apparsa una necessità ordinamentale, al fine di evitare una paralisi processuale costituzionalmente e convenzionalmente intollerabile, la soluzione individuata avrebbe dovuto comunque essere rispettosa del principio del giusto processo e delle garanzie partecipative dell’imputato e, quindi, in ultima istanza, rispondente al canone di ragionevolezza.

E tale punto di bilanciamento ragionevole tra valori contrapposti non poteva che essere rintracciato in un riassetto delle garanzie partecipative dell’imputato, «riassetto non qualitativo, né quantitativo, ma esclusivamente temporale, pur sempre all’interno del binario tracciato dalla disciplina dell’assenza nel processo penale».

In altri termini, il vulnus costituzionale prodotto dalla lacuna normativa in questione poteva essere ridotto a legittimità per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun sacrificio, né condizionamento, delle facoltà partecipative dell’imputato, ma unicamente con una diversa scansione temporale del loro esercizio.   

Richiamando lo statuto europeo dell’assenza processuale, nonchè le garanzie sottese alla formula sintetica enunciata dall’art. 9 della direttiva 2016/343/UE sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, il punto di equilibrio viene individuato dal Giudice delle Leggi nel diritto a un nuovo processo, che, svolgendosi in presenza dell’imputato e a sua richiesta, «consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria».  

Nel sistema interno delle garanzie già presenti, la Corte ha associato, dunque, all’ipotesi di un’assenza “ben dichiarata” dal giudice, un rimedio per la restituzione nelle facoltà processuali laddove l’imputato dimostri che la decadenza dalle stesse sia stata dovuta a causa a lui non imputabile. In altri termini, come nel caso di specie, tenuto all’oscuro della vicenda processuale da un factum principis (la condotta non cooperativa del proprio Stato di appartenenza), l’imputato, pur a conoscenza del procedimento, deve presumersi senza sua colpa ignaro delle cadenze del processo, con pieno e libero accesso alla reintegrazione nelle facoltà processuali che ritenga di esercitare.

In conclusione – ha affermato la Corte – alle ipotesi di processo in absentia, contemplate dall’articolo 420 bis del codice di procedura penale, deve aggiungersi, onde evitare la paralisi del processo, la fattispecie in scrutinio, limitata, tuttavia all’accertamento dei crimini di tortura, e non estesa a qualunque titolo di reato. A tale delimitazione oggettiva deve aggiungersi la delimitazione soggettiva riguardante l’autore del reato, deve trattarsi cioè di un “agente della funzione pubblica” o “ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.

 

[1] Cass., Sezioni unite penali, sentenza 28 febbraio-3 luglio 2019, n. 28912.

[2] Cass., Sezioni unite penali, sentenza 28 novembre 2019-17 agosto 2020, n. 23948.

[3] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 13 dicembre 2012, El-Masri contro ex Repubblica jugoslava di Macedonia; poi Corte EDU, sentenze 31 maggio 2018, Abu Zubaydah contro Lituania, e 24 luglio 2014, Al Nashiri contro Polonia nonché Corte EDU, sentenza 16 febbraio 2023, Ochigava contro Georgia.

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