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Editoriale n. 2/2021

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Evoluzione del rapporto tra tecnica e politica. Quali saranno gli effetti in uno Stato tecnologico?

1. Introduzione
Il tema del rapporto fra tecnica e politica ricorre spesso e quasi in modo ciclico negli studi giuridico-politici e, più in generale nelle discipline c.d. sociali, che lo affrontano in prospettive ovviamente diverse, ma sempre indirizzate a capire i limiti dell’intervento dei tecnici esterni dal circuito politico sulle decisioni dello Stato. Il primato della politica rispetto all’influenza della tecnica fino a questi ultimi anni è apparso nettamente prevalente nelle varie indagini scientifiche.

 

Negli ultimi tempi la discussione è riapparsa tuttavia in modo insistente per la presenza di alcuni fattori contingenti che impongono di rivalutare il tema tenendo conto, da un lato dell’influenza che le scelte tecniche hanno avuto sulle decisioni politiche durante tutta la fase emergenziale e dall’altro al fine di comprendere gli effetti che l’Intelligenza Artificiale (IA) potrà avere sulla formazione delle stesse decisioni della pubblica amministrazione, ma anche delle stesse decisioni politiche.

Si tratta di molteplici tematiche che richiederebbero una trattazione articolata e che in questa sede possono essere accennate solo per sommi capi, ma che, in ogni caso, possono consentire di comprendere come le problematiche scientifiche e il ruolo degli organi tecnici incidono in modo significativo sul modo in cui opera lo Stato e in cui si formano le stesse norme giuridiche.

L’emergenza sanitaria ha messo in evidenza sicuramente il ruolo e l’importanza degli “scienziati”, ma anche la loro debolezza, l’evanescenza delle affermazioni non sempre confermate dalla realtà successiva, talvolta anche la forte contraddittorietà di alcune affermazioni che incidono sulle decisioni poi adottate dai soggetti politici. Decisioni queste che si devono trasformare in atti amministrativi ed in un’attività di gestione, ma che prima di tutto devono essere trasfuse in atti normativi, non tanto in leggi, come abbiamo visto, ma in particolare in decreti-legge, DPCM ed ordinanze. Tutti atti che hanno alla loro base una sintesi della valutazione politica e tecnico/scientifica, che ovviamente presuppone una pluralità di competenze di supporto agli organi politici, ma sui quali il controllo parlamentare è sostanzialmente inesistente.

A tal fine occorre quantomeno richiamare tre modi in cui la politica e la tecnica si completano a vicenda ed hanno operato nella realtà giuridica italiana.

Il primo è l’assetto che potrebbe essere definito “normale”, ossia quando la politica utilizza la tecnica, scegliendo nell’ambito della propria organizzazione e raramente al di fuori di essa, le competenze tecniche che servono alla realizzazione di indirizzi politici predeterminati.

Il secondo attiene alle ipotesi in cui la politica è esercitata direttamente dalla tecnica o, meglio, si potrebbe dire, la tecnica si sostituisce alla politica, legittimando scelte normative su un fondamento tecnico che viene prospettato come indiscutibile e non negoziabile. Si fa riferimento, in altre parole, a quelle fasi tecnocratiche che determinano anche effetti anomali sul carattere rappresentativo e democratico dell’organizzazione dello Stato.

Il terzo caratterizza fasi che potremmo definire ibride, in cui formalmente esiste un governo “politico”, ma la complessità della situazione, dovuta ad un eccesso di contrapposizione fra i partiti della maggioranza o per cause esterne, di natura economica o di altro genere, richiede un intervento delle competenze tecniche che non sono presenti (o non gradite se ci sono) nel circuito classico politico/amministrativo. In questo modo si cerca di deresponsabilizzare le scelte politiche in virtù degli interventi tecnici. Quando alla inadeguatezza della politica si affiancano anche eventi emergenziali, come le problematiche pandemiche che stiamo vivendo, la necessità di avere indirizzi tecnico-scientifici, che integrino le scelte politiche, si fa più stringente, tanto da non sapere esattamente dove finisca il ruolo della tecnica ed inizi quello della politica. E tutto questo ha effetti sia sulle scelte politico/amministrative, sia sulle scelte politico/normative.

Questi tre modi di confronto fra politica e tecnica possono essere connessi anche ad una ricostruzione diacronica nell’esperienza istituzionale italiana, anche se la prevalenza della politica, ovvero della tecnica, può essere riscontrata in modo ricorrente in vari momenti storici.

L’utilità di tornare su questi argomenti è poi ancor più rilevante dinanzi all’emergere della presenza significativa delle nuove tecnologie che influiscono anche in questo settore e che affiancano e supportano le scelte politiche fino a comprimere in modo significativo il ruolo della politica, alterando significativamente l’asse democratico-rappresentativo del nostro Stato costituzionale.

2.  Tecnica e politica un rapporto stretto ma differenziato nei ruoli

Il rapporto fra politici e tecnici nell’ambito dell’amministrazione pubblica è sempre stato stretto, ma, nello stesso tempo, complesso ed articolato. Un rapporto che potrebbe essere definito di “amore-odio”, che inevitabilmente ha prodotto e produce effetti continui sul funzionamento dello Stato, sulla realizzazione dell’indirizzo politico, sull’efficienza e sulla buona amministrazione.

La presenza dei tecnici nell’ambito dell’amministrazione pubblica non è mai stata stabile, alternandosi periodi in cui le Amministrazioni centrali erano supportate, se non addirittura gestite, da una pluralità di tecnici, ingegneri, architetti, economisti, a periodi in cui la burocrazia e le competenze meramente giuridiche hanno preso il sopravvento. Le ricostruzioni storiche di Guido Melis, che da sempre ha studiato in modo approfondito l’argomento, ci raccontano di uffici tecnici dell’Amministrazione centrale che sono stati implementati da numerosi tecnici nel periodo successivo all’unità d’Italia, quando le opere pubbliche dovevano rappresentare lo strumento per unificare davvero le varie parti di un territorio sconosciuto ai più.

A questo indirizzo di valorizzazione delle competenze tecniche si sono poi succedute fasi in cui l’espansione dell’amministrazione, a partire dall’età giolittiana, ha portato all’emarginazione delle professionalità tecniche ed alla conseguente burocratizzazione dell’amministrazione con la prevalenza del ruolo di giuristi ed amministrativi. Un’alternanza fra la burocratizzazione ed indirizzo tecnico si è avuta anche durante il fascismo, come ancora ci racconta Guido Melis ne La macchina imperfetta (Il Mulino, Bologna, 2018), dove ha ricostruito il periodo fascista in un’ottica storico/amministrativa molto dettagliata e puntuale, evidenziando il ruolo che hanno avuto ragionieri, economisti, ingegneri, bonificatori, organizzatori corporativi, statistici nell’attuazione delle politiche fasciste. Ma fra tutti i tecnici, non possiamo dimenticare il ruolo che hanno avuto i due consiglieri economici di Mussolini, Alberto Beneduce e Alberto Pirelli che, più di tutti gli altri, ma in modo interno e sconosciuto ai più, gli suggerivano gli indirizzi politico-amministrativi da adottare. Si trattava quindi di un ruolo sicuramente rilevante delle competenze e dei consulenti tecnici che tuttavia non comparivano molto all’esterno, ma costituivano le fondamenta per molte decisioni politiche che implicassero competenze specifiche di settore. 

Ed ancora non possiamo dimenticare, come anche all’inizio del periodo repubblicano vi sia stata una pari rilevanza degli uffici giuridico/burocratici e di quelli tecnici per la necessità della ricostruzione dello Stato, per la realizzazione di quelle infrastrutture di cui ancora beneficiamo a distanza di sessant’anni.

L’importanza del supporto tecnico nelle decisioni politiche è stata confermata anche in gran parte della storia repubblicana del secolo scorso e confermata negli studi sui rapporti fra tecnica e burocrazia sviluppati in quegli anni. Era la fase storica in cui le decisioni venivano adottate prevalentemente a livello centrale ed in cui i Ministeri erano formati in modo tale da avere al loro interno una pluralità di competenze tecniche, prevalentemente di carattere giuridico, dato che l’attività amministrativa e normativa era dominante, ma non mancavano certo organismi e specializzazioni tecnico/scientifiche interne alla stessa amministrazione con ingegneri, architetti, economisti, sociologi, statistici ecc. Una presenza che tuttavia nel corso degli anni si è assottigliata, sia per il decentramento delle competenze, sia per il taglio del personale amministrativo che per lungo tempo non poteva essere integrato per problemi economici, sia per un approccio a queste tematiche che si preferiva fossero “esternalizzate” piuttosto che interne alla stessa Amministrazione.

Si è quindi provveduto a nominare Comitati tecnici, Commissioni, tavoli di lavoro di esperti che coadiuvano il politico nella decisione da adottare, fin dall’inizio della legislatura o nel momento della formazione di un nuovo governo, che devono lavorare in modo stabile a fianco delle Amministrazioni e dei soggetti politici, ministri, vice-ministri, sottosegretari, capi di gabinetto ecc.

Si tratta tuttavia di periodi in cui la politica, i politici ed i partiti hanno un ruolo prevalente ed appunto si fanno supportare nelle proprie decisioni da questa varietà di soggetti tecnici, ma sempre attraverso il filtro della decisione politica che appare all’esterno.

In tempi recenti è accaduto che si siano seguite ulteriori strade per avere un supporto tecnico “esterno” per la decisione politica, ossia l’uso di società di consulenza private, che coadiuvano il soggetto politico nell’individuazione delle soluzioni concrete, a partire comunque da obiettivi e finalità che il politico formula in modo prevalentemente autonomo. L’intervento di società di consulenza private, che spesso fanno capo a multinazionali del settore, è stato oggetto di numerose critiche per il rischio di un’interferenza esterna e più che altro “estera” sulle decisioni dello Stato.

Entrambe le soluzioni, società di consulenza o Comitati, hanno pregi e difetti, ma paiono legittime e percorribili, perché dovrebbero essere sempre indirizzate dalle scelte politiche. Spesso, tuttavia, accade che i Comitati, che, come si è detto, hanno una struttura stabile per tutta la legislatura, acquisiscano con il tempo una autonomia di decisione o comunque un’influenza sul ruolo di filtro che poi deve (dovrebbe) svolgere il politico. Sono infatti nomine fiduciarie, con piena discrezionalità di scelta dei componenti da parte del soggetto politico, cosicché spesso accade che le competenze tecniche sovrastino completamente chi ha fatto la nomina, in virtù della difficoltà di discernere le problematiche della materia, ma sempre giustificate dal rapporto di fiducia con i componenti del Comitato o della Commissione. Il problema che quindi si pone è quello della garanzia e della possibilità di verificare l’effettiva capacità e competenza del nominato, che non sempre è garantita, così da rendere assai discutibili e contrastate le scelte poi operate (su cui vedi ultra § 4).

3.  Tecnocrazia: una situazione anomala

Situazione opposta si ha, invece, quando ai tecnici è affidata direttamente la funzione politica.

Nel nostro ordinamento costituzionale teoricamente dovrebbe costituire un’anomalia parlare di tecnocrazia ed anche di governo tecnico, perché la forma di governo parlamentare e la necessità di un voto inziale di fiducia nei confronti di ogni governo, nonché la necessità di un mantenimento del rapporto di fiducia fra Governo e Parlamento, dovrebbe determinare la presenza di un governo che sia prima di tutto accettato dai rappresentanti e quindi indirizzato politicamente nella stessa linea della maggioranza. Ciò nonostante, le crisi economiche che si sono succedute nella storia istituzionale italiana hanno viceversa determinato la valorizzazione dei tecnici fino a sostituire gli stessi soggetti provenienti dalla politica nella gestione del governo.   

La tecnocrazia si ha quando la tecnica si sostituisce completamente alla politica, perché la soluzione di problematiche particolari e talvolta eccezionali impongono di affidare il governo a soggetti che non solo abbiano capacità tecniche, ma anche che si assumano decisioni “scomode”, ma necessarie.

Nella storia istituzionale italiana possono essere ricordati almeno tre governi in cui la tecnicità della sua composizione ed il modo di operare era prevalente, nominati in situazioni, se non di emergenza, sicuramente di crisi della politica e/o dell’economia: il governo Ciampi del 1993 generalmente considerato il primo governo formalmente tecnico, in quanto presieduto dall’ex Governatore della Banca d’Italia e composto in parte da tecnici ma anche da politici, nominato subito dopo lo tsunami rappresentato dai referendum abrogativi del 1993, l’accoglimento dei quali ha messo in discussione molte scelte primarie della politica italiana, prima fra tutti quella contenuta nella legge elettorale proporzionale e la presenza di alcuni ministeri allora considerati inutili. Un governo poi nato dopo la fase più “calda” di “Tangentopoli”, in un periodo quindi di totale assenza (più che di crisi) dei partiti ed in cui occorreva garantire una stabilità dinanzi ad un “terremoto” politico così significativo. Altrettanto può essere detto per il governo Dini, nominato dopo la crisi del primo governo Berlusconi, in una fase in cui la politica subiva ancora gli effetti derivanti dall’intervento giudiziario e dell’introduzione di un sistema elettorale maggioritario non pienamente sedimentato ed accettato dagli stessi partiti. Ed infine, il più recente governo Monti che assomma in sé le caratteristiche di governo tecnico e di governo del Presidente, in quanto cercato e voluto dal Presidente della Repubblica (si ricordi la nomina a senatore a vita di Monti pochi giorni prima della sua nomina a Presidente del Consiglio), ma composto integralmente da ministri tecnici, tutti caratterizzati dalla loro provenienza e competenza tecnica. Un governo chiamato a risolvere una crisi economica mondiale e che imponeva, appunto l’adozione di decisioni impopolari, che solo un governo tecnico aveva la possibilità di prendere.

Se il governo Monti, come è facile ricordare, ha fatto interventi normativi molto incisivi e penetranti da un punto di vista economico/finanziario, sul lavoro, sulla previdenza, a partire dalle competenze specifiche dei singoli ministri, non altrettanto si può dire per gli altri due governi tecnici di Ciampi e Dini, se non appunto in materia economica ed occupazionale. In particolare, per quanto riguarda il governo Ciampi, si possono ricordare alcuni interventi importanti, ma non certamente essenziali, che hanno avuto effetti anche a distanza di tempo, riguardanti la materia dell’occupazione dei lavoratori, misure urgenti in materia di economia, da segnalare le leggi n. 19 e 20 del 1994 in tema di giurisdizione e poteri di controllo della Corte dei Conti, e poi una serie di assestamenti conseguenti ai referendum del 1993 con la soppressione di alcuni Ministeri, anche interventi in materia radiotelevisiva. Anche gli atti e gli effetti normativi del governo Dini non possono essere segnalati per particolare rilevanza se si osservano, a distanza di tempo, i settori d’intervento normativo in quell’anno o poco più di azione di tale governo.

Constatazione questa che non può certo portare a sottovalutare il ruolo che i governi tecnici hanno in un determinato periodo storico, visto che l’attività di governo non è data solo dalla capacità d’influire sull’approvazione delle leggi o sull’emanazione di decreti-legge, ma deve essere considerata nel suo complesso tutta l’attività normativa, amministrativa ed appunto l’attività di governo svolta in quella fase. La natura tecnica del Ministro, ossia di colui che deve fare le scelte politiche essenziali, consente sicuramente di poter indirizzare in modo più incisivo il lavoro delle strutture amministrative interne del proprio ministero, ma non esclude poi che permanga un rapporto non sempre semplicissimo sul supporto tecnico dei vari Dipartimenti o Direzioni, che possono più o meno collaborare o comunque avere quelle competenze necessarie per seguire gli indirizzi, anche molto dettagliati, del ministro tecnico. In definitiva, non è sufficiente la preparazione settoriale del politico, se poi non è adeguatamente supportata dalle strutture amministrative competenti (si pensi ai problemi connessi ai c.d. “esodati” dopo la riforma Fornero).

4.  Rapporto politica-tecnica durante l’emergenza

Durante l’ultima legislatura, il rapporto politica-tecnica ha assunto un ruolo molto diverso, non solo in conseguenza dell’emergenza sanitaria, che ha alterato tutti i rapporti istituzionali, come meglio si cercherà di analizzare, ma anche a partire dalla teorizzazione della marginalità delle competenze, mettendo in dubbio il carattere professionale del politico che, in virtù dell’esperienza, dell’attività interna al partito e nelle varie istituzioni locali, ha la possibilità di maturare le nozioni necessarie per il “governo della collettività”.

Con la nascita dei movimenti e con l’abbandono dei “tecnici della politica”, si è cercato di mettere in crisi tutto il sistema su cui si è fondato il costituzionalismo del ‘900, valorizzando contemporaneamente i “non tecnici” ed i “non politici” professionali.

Dinanzi alla necessità di governare ed ancor più dinanzi alla necessità di reagire ad un’emergenza, il ruolo dei tecnici è tornato ancora una volta centrale, per risolvere problemi concreti inimmaginabili ed indeterminabili. Ciò ha coinciso, tuttavia, con l’assenza di strutture tecniche adeguate interne all’Amministrazione, che si sono dovute formare nell’immediatezza con soggetti ancora una volta istituzionali, che non sempre avevano anche le competenze necessarie ad obiettivi particolari.

Da uno studio fatto alla fine della prima fase dell’emergenza sanitaria (maggio/giugno 2020), il numero dei tecnici in vario modo coinvolti dal governo era particolarmente significativo, si è parlato addirittura di più di 400 tecnici, senza parlare delle strutture tecniche nominate ad hoc da parte delle regioni, per supportare a loro volta i governi regionali nell’adozione delle diverse decisioni ad esse affidate.

Dinanzi ad una pandemia, che ha travolto tutti i sistemi sanitari, economici, organizzativi mondiali, marginale era sicuramente la valutazione dei criteri attraverso cui il governo decideva di attribuire una competenza o un ruolo ad un determinato organismo, Comitato o Task–force, l’importante era raggiungere un risultato adeguato alla situazione. Ma proprio la carente programmazione ha determinato l’estemporaneità delle nomine, talvolta in base a criteri istituzionali di ruolo ricoperto, talaltra in base a valutazioni pienamente discrezionali di vicinanza al singolo politico. Anche la presenza iniziale solo di uomini in alcune di queste task force e nello stesso Comitato scientifico costituisce l’ulteriore conferma che i meccanismi di nomina non hanno funzionato adeguatamente, non tanto per un problema di rappresentanza femminile, che in organi tecnici non necessariamente vi deve essere qualora le competenze adeguate non vi fossero (anche se ormai è difficile che avvenga nella maggior parte dei settori), quanto perché si è poi facilmente potuto constatare che proprio questa assenza ha inciso sulla tipologia di indirizzi dati dai Comitati scientifici, non molto attenti a tutti gli effetti che la pandemia ha determinato proprio nei confronti delle donne, cosicché il governo si è poi trovato costretto ad integrare la composizione dopo le tante critiche ricevute (E. Catelani, M. D’Amico (a cura di), Effetto Codiv. Donne: la doppia discriminazione, Il Mulino, Bologna 2021).

In realtà, un problema non marginale in questo uso ampio e diversificato dei tecnici è quello dei criteri di scelta. Il tecnico dovrebbe essere selezionato e prescelto sulla base della propria competenza in quel settore. Se è vero quello che ci dice Giuseppe Guarino (Tecnici e politici nello Stato contemporaneo, in G. Guarino, Scritti di diritto pubblico dell'economia e di diritto dell'energia, Giuffrè, Milano, 1962), che il tecnico è “ogni persona che possieda le conoscenze o le attitudini specializzate necessarie per risolvere un determinato problema”, ed a distanza di sessant’anni il suo pensiero rimane sicuramente intatto, occorrerebbe selezionare quelli che meglio di altri hanno queste conoscenze ed attitudini con criteri che dovrebbero garantire un margine di oggettività nella scelta, ossia vi dovrebbe essere un procedimento determinato e trasparente per la nomina nei vari Comitati. Questo dovrebbe costituire un presupposto imprescindibile, che da un lato consenta al politico di conoscere effettivamente la pluralità di soggetti competenti ed adatti a risolvere problemi specifici e dall’altro garantisca anche una trasparenza nella valutazione dell’effettiva competenza del tecnico, evitando così l’opacità dei criteri scelti. E l’emergenza non può, sotto questo profilo, costituire una giustificazione della piena discrezionalità, che può tramutarsi in causalità, appunto perché i procedimenti dovrebbero essere predeterminati e validi sempre, magari accelerando in maniera significativa i tempi di selezione e decisione, ma sempre per la finalità prevista di garanzia della scelta del soggetto più competente, più idoneo, più specializzato per quel determinato ruolo.

Gli ampi limiti della gestione che sono stati riscontrati in questa emergenza sanitaria (ma forse anche in altre situazioni pregresse di tipo economico, in cui parimenti il supporto dei tecnici era essenziale), era dovuta proprio alla forte commistione fra la valutazione tecnica e quella politica necessaria per l’adozione di un determinato indirizzo, per l’approvazione del contenuto di un decreto-legge o di un DPCM, per la trasmissione ai cittadini di una scelta operata dal governo. Commistione che ha portato tuttavia a non consentire di comprendere esattamente fino a che punto l’indirizzo era giustificato da valutazioni di carattere politico o invece di carattere tecnico, anche a causa della segretezza che, fino ad una certa fase, era stata imposta per le decisioni del Comitato tecnico scientifico. Incertezza che sicuramente non delegittima i singoli atti adottati dal governo, pur con tutti i limiti che hanno dimostrato (si pensi al contenuto del primo decreto-legge n. 6/2020 prima modificato in modo sostanziale in fase di conversione e poi abrogato per la genericità del contenuto), ma costituisce un’immagine d’incertezza e di poca trasparenza sull’operato del governo e dei suoi atti. La non conoscenza all’esterno dei dati e delle proposte provenienti dagli organi tecnici, che tuttavia sono stati richiamati come presupposto degli atti normativi adottati, hanno reso questo rapporto fra politica e tecnica molto nebuloso.

Nello stesso tempo è poi accaduto che i risultati delle attività svolte (Comitato Colao) siano stati, prima qualificati come lo strumento per garantire l’individuazione di soluzioni ottimali per la ripartenza dello Stato e poi, invece, oggetto di considerazione marginale e comunque siano stati visti più come obiettivi utopistici, piuttosto che prospettive raggiungibili. Ed allora dalle “task force” si è passati agli “Stati generali”, altro percorso che apparentemente dovrebbe valorizzare le valutazioni e gli indirizzi dei tecnici, ma dall’altro paiono più obiettivi d’immagine, che percorsi necessari per l’adozione di atti politici.

Un insegnamento che bisognerà trarre da questa emergenza è quindi rappresentato dalla necessità di predeterminare e rendere certi ed identificabili i criteri di selezione dei tecnici, non mettendo in dubbio la necessità di garantire anche la vicinanza ideologico/politica con la maggioranza di governo, ma occorre che, nello stesso tempo, siano individuate procedure che consentano al politico di valersi di tecnici adeguati alla pluralità di situazioni che possono emergere e una trasparenza nella scelta.

Ancora le parole di Giuseppe Guarino possono indirizzarci al fine di cercare di comprendere lo spartiacque fra il ruolo dei politici e quello degli scienziati. Entrambi essenziali, ma il politico deve svolgere il suo ruolo in modo professionale, come “tecnici della politica”, ossia “essi devono aver acquisito una specializzazione che comprende le nozioni necessarie per il governo della collettività e che si fonda sullo sviluppo delle attitudini indispensabili per adottare quelle decisioni che sono sottratte agli altri tecnici”.

In definitiva, il politico deve essere colui che deve avere le capacità di selezionare il tecnico e nello stesso tempo riuscire a valutare fra le varie soluzioni scientifiche quella che risponda meglio alle proprie finalità. È in ogni caso necessario che vi sia qualcuno che trasformi le idee in scelte e soluzioni precise, ossia il politico deve operare come “cerniera” fra tecnici e comunità. I “tecnici” non devono certamente essere demonizzati, anzi devono convivere in modo simbiotico con il politico. Un tecnico che abbia ben presente il dato scientifico nelle sue più ampie accezioni o, talvolta, che utilizzi e si confronti con i tanti tecnici di settore e sappia fare a sua volta da collettore fra le varie soluzioni possibili, per poi tramutare tale indagine in varie soluzioni tecniche da sottoporre al politico.

5.  Le nuove tecnologie ed il rischio di un’ulteriore alterazione dei rapporti fra tecnica e politica

Il nostro sguardo deve ora andare oltre il presente e tener conto delle evoluzioni che stanno trasformando il modo di operare del governo, tanto che ormai è ricorrente il richiamo al concetto di “Stato tecnologico” come l’evoluzione normale ed inevitabile dell’organizzazione statuale. Ciò avviene non solo per gli effetti delle nuove tecnologie sulla vita di tutti i cittadini, ma per il modo in cui si formano gli atti amministrativi, normativi e le decisioni politiche più in generale. Una trasformazione in rapida evoluzione che il governo fino ad ora ha subito, più che indirizzato, tanto che è recente l’istituzione del Dipartimento per la trasformazione digitale (DPCM 19 giugno 2019), che è diventato il punto di riferimento per accompagnare la trasformazione digitale della pubblica amministrazione e più in generale la trasformazione tecnologica del Paese.

Varie sono le tecniche utilizzabili al fine di agevolare, ma non certamente sostituire scelte politiche complesse. L’intelligenza artificiale, l’uso degli algoritmi e il machine learning possono sicuramente modificare e forse anche semplificare il modo in cui vengono adottate determinate decisioni politiche. In particolare, per la formazione delle leggi il lavoro del legislatore (parlamentare o governativo) può essere agevolato da piattaforme di crowdsourcing legislation, che possono portare all’individuazione di una pluralità di soluzioni normative possibili per un determinato obiettivo. Ciò che un tempo richiedeva un’attività d’indagine preparatoria particolarmente complessa per la formazione di un atto, può essere realizzata in tempi estremamente ridotti. Cosicché, se si utilizzassero i vari strumenti dell’intelligenza artificiale per verificare gli effetti che ha avuto l’applicazione di una determinata normativa in un periodo di tempo, si potrebbero avere risultati veloci e verificabili dal soggetto politico in ordine alla bontà di una determinata normativa e all’impatto che ha avuto nel settore. In altre parole, la c.d. valutazione d’impatto della regolazione (VIR) potrebbe essere agevolata nella sua formulazione da meccanismi automatizzati, così come si potrebbe ottenere la verifica preventiva degli effetti di una nuova normativa (AIR). Meccanismi che sarebbero in ogni caso subordinati alla scelta degli obiettivi da selezionare, che devono essere comunque determinati dall’uomo.

Le nuove tecnologie possono e devono costituire uno strumento per agevolare e velocizzare l’elaborazione e la conoscenza dei dati tecnici che sono il presupposto della decisione politica, ma non possono sostituirsi a questa.

Occorre partire dal presupposto che, nonostante l’evoluzione dell’intelligenza artificiale e la capacità dei programmi di acquisire in modo autonomo ulteriori conoscenze, vi deve essere sempre lo spazio per un controllo e per una verifica, sia dei criteri di selezione dei dati, sia dei risultati conseguiti. In particolare, è stato segnalato il rischio derivante dai sistemi di machine learning, che non consentono allo stesso programmatore di conoscere i criteri in base ai quali si giunge ad una decisione o ad un risultato. Si impone, cioè, la presenza di una specie di meccanismi di allarme per evitare che si formino output anomali, è necessario poi che i criteri con cui vengono scelti ed utilizzati i dati siano conoscibili, insomma che vi sia una trasparenza anche nel processo di formazione dell’IA.

Ma anche questo non è certamente sufficiente visto che, come è stato giustamente osservato (A. Simoncini,  L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 1/2019, 83), “gli automatismi finiscono per godere di quella che la nudging theory chiama la “default-option force”: un indubbio plusvalore “pratico” connesso alle scelte suggerite automaticamente (dal sistema, dall’algoritmo, dalla profilazione automatica), rispetto alla quale ci si può discostare, ma a patto di impegnarsi in un notevole sforzo (e rischio) valutativo”.

Due sono i rischi che, pertanto, possono venire dall’uso incontrollato dell’IA nella decisione politica: da un lato la convenienza in termini di tempo e di impegno personale a controllare e mettere in discussione un dato che proviene dalla macchina da parte del politico, affidandosi ciecamente ad essa, dall’altro la giustificazione ed i dati tecnici possono prevalere e sostituirsi alla valutazione politica, potendo così rappresentare uno strumento per ridurre o comunque spostare su altri (tecnici o sull’IA) una parte della responsabilità politica.

Quindi se è vero che per ogni decisione politica l’ultima parola deve essere sempre affidata alla persona fisica, il rischio di affidarsi al risultato tecnico proveniente dalla macchina senza una valutazione ponderata è significativo.

Vi è la tendenza di affidare anche le decisioni amministrative al software, ma i rischi anche in questo caso non sono marginali. Molte decisioni, anche quelle che possono incidere sull’esercizio di diritti, sono affidate spesso al risultato che proviene da un algoritmo, senza alcuna possibilità di intermediazione umana. Un risultato che non può consentire deroghe, anche quando è palesemente irragionevole o comunque limitativo dei diritti in modo eccessivo e che, pertanto, richiede in qualche modo l’intervento dell’uomo, che corregga il risultato della macchina.

Se quindi le nuove tecnologie costituiscono sicuramente un aiuto ed uno strumento di semplificazione per il lavoro del politico, ciò non significa che lo possano sostituire, ma sicuramente lo possono influenzare in maniera significativa, a tal punto da indirizzarlo verso soluzioni molto diverse da quelle che potevano apparire preferibili originariamente.

Non è questa la sede per affrontare i problemi connessi all’influenza che le nuove tecnologie possono avere sulla stessa formazione della volontà politica, penso ad esempio all’influenza che hanno i social o le varie piattaforme dei partiti o gli stessi algoritmi per comprendere in tempo reale l’opinione degli elettori (non necessariamente solo i propri) su una questione o su un atto specifico, in quanto, pur costituendo sicuramente un aspetto rilevante in ordine alla rappresentanza ed alla responsabilità politica, non incide direttamente sul modo in cui il politico si rapporta con il tecnico. Sicuramente anche le modalità attraverso cui il politico acquisisce le valutazioni, gli apprezzamenti su una determinata soluzione normativa o su un indirizzo politico, possono influire sul rapporto fra politica e tecnica.

Una strada che consente di mediare fra l’evoluzione tecnologica ed il controllo politico e giuridico di tale processo sembra essere indirizzata dalle nuove prospettive che si aprono con le c.d. Regulatory Sandboxes (o RS), che consentono spazi di sperimentazione giuridica in ambito tecnologico e di digitalizzazione, ora in parte legittimate con l’art. 36 del d.l. semplificazioni n. 76 del 2020. Si stanno quindi aprendo nuovi spazi di collaborazione fra tecnica e politica sicuramente innovativi da un punto di vista delle procedure seguite e dei risultati che s’intendono conseguire.

In uno “Stato tecnologico”, in definitiva, la tecnica non è data soltanto dalla conoscenza che proviene dagli esperti, da coloro che sanno e possono utilizzare i dati scientifici in misura più diretta, ma dalla pluralità di strumenti tecnologici che in varia misura possono influenzare l’adozione di una determinata soluzione politica. L’evoluzione tecnologica è talmente rapida, che ha reso il politico sempre più vulnerabile ed indifeso, perché non più in connessione solo con i tecnici, ma con vari strumenti tecnologici e quindi con la tecnica direttamente.

 


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