Editoriale n. 3/2023

rolando tarchi

Il «premierato elettivo»: una proposta di revisione costituzionale confusa e pericolosa per la democrazia italiana

1. L’avvio di una nuova stagione di riforme istituzionali nel primo anno della XIX legislatura

Con la predisposizione di un testo del d.d.l. n. 615, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116 terzo comma della Costituzione” da parte della 1° Commissione del Senato il 23 novembre 2023 e, in parallelo, con la consegna al Ministro per gli affari regionali Roberto Calderoli il 3 novembre scorso del documento con il quale sono stati individuati oltre 250 LEP da parte del Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (CLEP) presieduto da Sabino Cassese e, soprattutto, con la presentazione al Senato, da parte del Governo a firma del Presidente del Consiglio dei Ministri Meloni e del Ministro per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa Casellati, del d.d.l. costituzionale n. 935, recante «Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l'elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del governo e l'abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica», pare definitivamente decollata la nuova stagione di riforme istituzionali annunciata all'inizio di questa XIX legislatura dalla nuova maggioranza di destra premiata con le elezioni parlamentari del 25 settembre 2022.

Il riferimento esplicito va all’ intervista rilasciata al Quotidiano La Repubblica il 28 settembre 2022 dal futuro ministro Francesco Lollobrigida, nella quale si affermava l’esigenza di avviare una «legislatura costituente» (anche mediante l’istituzione di una commissione bicamerale o, addirittura, l’elezione con metodo proporzionale, di una vera e propria Assemblea costituente) finalizzata a realizzare tre obiettivi principali. Il primo consistente nella ridefinizione del rapporto tra sovranità dello Stato italiano e Unione europea, mediante un riconoscimento costituzione esplicito della preminenza del diritto costituzionale nazionale sul diritto U.E.; il secondo relativo alla forma di governo, da trasformare in un regime presidenziale non altrimenti precisato, evocativo di quanto già previsto nel programma presentato dalla coalizione dei partiti di centro-destra prima delle elezioni, nel quale, peraltro, si proponeva l’“elezione diretta del Presidente della Repubblica” (lo stesso programma di Fratelli d’Italia parlava di «riforma presidenziale dello Stato, al fine di assicurare la stabilità governativa e un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il governo»).

D’altra parte, le dichiarazioni programmatiche presentate alla Camera dei deputati il 25 ottobre 2022 dalla Presidente del Consiglio Meloni (www.governo.it/it/articolo/le-dichiarazioni-programmatiche-del-governo-meloni/20770), ribadivano a chiare lettere l’esigenza, per l’Italia di «una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare. Una riforma che consenta all’Italia di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”», così da limitare il potere delle burocrazie diventate «intoccabili e impermeabili» e incrementare, invece, la capacità negoziale dell’Italia nei consessi internazionali e favorire gli investimenti stranieri, finora scoraggiati dalla mutevolezza dei governi. A ben vedere, un’analisi piuttosto elementare nei contenuti e basata sulla convinzione degli effetti «miracolosi» che possono discendere da una modifica della forma di governo. In questa fase, inoltre, l’ipotesi di lavoro indicata restava quella di un semipresidenzialismo sul modello francese, con l’apertura, comunque, alla possibilità di adottare altre soluzioni tecnico-giuridiche.

Non siamo certo in presenza di una novità: la destra italiana è da sempre convinta sostenitrice dell’opzione presidenzialista, sia che si guardi al passato remoto, che a quello più recente; già nel 1948 il programma del MSI prevedeva che lo Stato dovesse essere guidato da un capo eletto dal popolo e non scelto con un compromesso tra i partiti, con poteri tali da essere posto nelle condizioni di dirigere la cosa pubblica in maniera efficiente ed efficace, assumendone la piena responsabilità di fronte alla rappresentanza nazionale (informazione ripresa da: https://www.ildiariodellavoro.it/il-presidenzialismo-di-giorgio-e-giorgia/). Una visione non limitata soltanto alle forze politiche eredi della tradizione del fascismo, ma condivisa da parte della destra liberale: si pensi alle proposte avanzate nel 1964 dall’Unione popolare Democratica per una Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi, successivamente riprese negli anni ’70 dai Comitati di Resistenza Democratica fondati da Edgardo Sogno (cfr. E. Sogno, La seconda repubblica, Firenze, 1974). Se si guarda poi al passato prossimo, oltre alla pubblicazione di stimolanti pamphlet (v. A Carrino, Nuova Repubblica. Quale presidenzialismo per l’Italia?, Modena, 2023) non possiamo dimenticare come nell’ultimo scorcio della XVIII legislatura l’Assemblea di Montecitorio abbia respinto (il 10 maggio 2022, a larghissima maggioranza) una proposta di legge (Camera dei deputati n. 716/2018), prima firmataria l’On. Meloni, ispirata proprio al modello francese di semipresidenzialismo, assunto nella sua versione iper-presidenziale anche mediante la previsione che: «Il presidente della Repubblica dirige la politica generale del governo e ne è responsabile» (secondo il testo del novellato art. 95.1 Cost.). Una previsione, quest’ultima, che la Costituzione francese del 1958 non contiene (l’art. 20.1 Cost. francese statuisce che è il Governo a determinare e dirigere la politica nazionale e l’inversione dei ruoli con l’Eliseo è stato il frutto di una prassi) e che, invece, appare più simile a quella dell’art. 80. 3 della Costituzione russa del 1993, per il quale il Presidente federale «determina gli indirizzi fondamentali della politica interna ed estera dello Stato».

Il terzo obiettivo, infine, consisteva nella diffusione di forme di regionalismo differenziato in grado di sviluppare e completare la riforma del Titolo V del 2001.

Il primo degli obiettivi enunciati sembra per il momento abbandonato, nonostante i problematici rapporti del nostro Paese con le istituzioni e le politiche europee, mentre gli altri due stanno procedendo a passi spediti e, in qualche modo vengono presentati in collegamento tra loro, in quanto la concessione di attribuzioni più ampie ad alcune regioni italiane sarebbe compensata dal rafforzamento del Governo nazionale a garanzia delle istanze proprie dell’unità nazionale. Si tratta di un connubio fondato su presupposti erronei, in quanto il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni di autonomia alle regioni ordinarie su base contrattuale e per un periodo di tempo (lungo) predeterminato, difficilmente consentirebbe controlli sulle modalità di esercizio da parte dello Stato più penetranti rispetto a quelle già stabilite dall’art. 120 Cost. e che non richiedono affatto un’investitura diretta del vertice dell’esecutivo; questo collegamento riposa, invece, su ragioni di carattere strettamente politico, trattandosi delle riforme «bandiera» dei due maggiori partners della coalizione governativa e che, proprio per questo sono oggetto di una costante trattativa politica. Non è un caso che nelle già ricordate dichiarazioni programmatiche della Presidente del Consiglio del 25 ottobre 2022, si aggiungesse che: «parallelamente alla riforma presidenziale, intendiamo dare seguito al processo virtuoso di autonomia differenziata già avviato da diverse regioni italiane secondo il dettato costituzionale e in attuazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà, in un quadro di coesione nazionale».

Il tema della trasformazione in senso asimmetrico del nostro tipo di Stato assume un grande rilievo, anche per l’impatto che potrebbe determinare sulla garanzia universale dei diritti fondamentali, in specie di quelli sociali ad invarianza di spesa e senza una preventiva e completa attuazione dei principi stabiliti dall’art. 118 Cost. anche in termini di perequazione tra territori; sarebbe quindi importante valutare i risultati del lavoro istruttorio compiuto dal CLEP, così come le modifiche proposte di modifica approvate dalla 1° Commissione del Senato, che ad una prima lettura paiono avere attenuato la portata dirompente di alcune delle disposizioni dell’originario d.d.l Calderoli (soprattutto riguardo ai profili procedurali), senza tuttavia rispondere alle critiche più radicali che hanno portato più di un commentatore (Viesti e Villone tra gli altri) a parlare di «secessione dei ricchi», ma in questa sede non possiamo occuparcene.

La nostra attenzione sarà infatti concentrata sulla proposta di riforma del sistema di governo, non a caso definita dai suoi presentatori come «la riforma delle riforme» o, piuttosto, «la madre di tutte le riforme», con la quale, peraltro, si è abbandonata, per ragioni che non paiono adeguatamente esplicitate, la posizione originaria e di bandiera incentrata sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica, per sposare quella dell’investitura popolare del vertice del Governo, ipotesi di per sé non meno dirompente dell’altra. Tale proposta, come vedremo, solleva rilevanti problemi sia di metodo che, soprattutto, di merito e di contenuto; peraltro, il suo iter parlamentare, nella prospettiva di giungere ad una prima approvazione nell’arco di pochi mesi, è stato avviato senza indugi dinanzi alla 1° commissione del Senato, presso la quale sono già state svolte nei giorni scorsi numerose audizioni sia di esperti, che di soggetti istituzionali, quali i sindacati maggiormente rappresentativi, con l’emersione si una serie di apprezzamenti (pochi) e di critiche (più numerose e consistenti). Un dibattito che è proseguito sulle pagine dei giornali, con interventi pressoché quotidiani che, per la gran parte, hanno replicato giudizi non positivi, producendo un effetto di polarizzazione tra gli addetti ai lavori e nella stessa opinione pubblica.

2. Alcune preliminari riflessioni di metodo

Sulle questioni di metodo in materia di riforme delle nostre istituzioni si è a lungo, e in generale, soffermato Orlando Roselli nell’editoriale pubblicato nello scorso numero (n. 2/2023) di questa Rivista, opportunamente intitolato «Per una strategia condivisa delle riforme costituzionali», le cui osservazioni sono in larghissima parte condivisibili. Anche per questo possiamo limitarci a riprendere sinteticamente soltanto alcuni dei profili di maggior rilievo. Questo ennesimo tentativo di revisione costituzionale che, per quanto apparentemente limitato ad apportare limitate modifiche soltanto ad alcune disposizioni costituzionali (gli artt. 59, 88, 92 e 94 Cost.) non presenta un carattere manutentivo, ma si propone di realizzare una riforma radicale della nostra forma di governo, determinando un’alterazione profonda delle relazioni tra i poteri costituzionali e tra questi e il corpo elettorale, è il portato di quella che Roselli definisce «coazione ripetere» gli errori di prospettiva riformatrice del passato. La storia è nota: senza considerare i tentativi intrapresi già negli anni ’80 e nella prima metà degli anni ’90, allora non sorretti da un’effettiva volontà politica e ormai lontani nel tempo, le ultime sette legislature (dalla XIII, inaugurata nel 1996) sono state tutte caratterizzate da tentativi, talora con iniziative plurime, di operare consistenti revisioni della Seconda parte della Costituzione, con esiti per lo più inconcludenti e/o fallimentari. Per ragioni diverse sono abortite la commissione bicamerale presieduta dall’on. D’Alema nel 1997; la proposta approvata dalla maggioranza di centrodestra nel 2005 (XIV legislatura), a proposito della quale Leopoldo Elia aveva coniato l’espressione di «premierato assoluto» (nella Relazione al Seminario ASTRID sul progetto governativo di riforma della Seconda Parte della Costituzione, lunedì 22 settembre 2003) e poi bocciata dal referendum l’anno successivo; la c.d. «bozza Violante» approvata dalla Commissione affari costituzionali nell’ottobre 2007 (XV legislatura); il testo unificato approvato dalla prima commissione del Senato nel giugno 2012 (XVI legislatura); l’ambiziosa proposta fatta approvare in via definitiva dalle Camere da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi nel il 123 aprile 2016, poi naufragata nel voto referendario del successivo 4 dicembre (XVII legislatura). Da ricordare come in quella legislatura sia stata caratterizzata fin dalle origini dalla questione delle riforme istituzionali, dapprima con la nomina da parte del Presidente Napolitano il 30 marzo 2013 di un gruppo di lavoro costituito da dieci saggi e, successivamente, con la nomina di un’ulteriore commissione di trentacinque saggi da parte del Governo Letta il 4 giugno 2013, all’esito della cui relazione finale si procedette alla presentazione di una proposta di legge di revisione costituzionale che, introducendo una deroga al procedimento dell’art. 138 Cost., prevedeva l’«Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali»; progetto approvato nelle prime tre letture e poi definitivamente abbandonato a seguito della crisi di governo intervenuta nel febbraio 2014.

Le uniche riforme ad oggi approvate restano: quelle del 1999-2001 che hanno riguardato il Titolo V, rispetto alle quali il giudizio prevalente, quanto a rendimento concreto delle stesse, non può dirsi oggi certamente positivo, anche alla luce dell’esperienza da ultimo maturata nella fase della pandemia; e quelle, più mirate, intervenute nella XVIII legislatura, tra le quali (se non si considera l’intervento che ha riguardato gli artt. 9 e 41 Cost., certo di grande rilievo simbolico) spicca la l. cost. n. 1/2020 recante Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”. Una riforma, quest’ultima, certamente ispirata ad una visione populista e demagogica e di secondario rilievo per i suoi contenuti e gli effetti marginali sul sistema, che è stata anche l’unica a riscuotere un’ampia adesione parlamentare per essere poi confermata da una larga maggioranza (quasi il 70% dei votanti) nel passaggio referendario del 20 e 21 settembre 2020.

Questa nutrita casistica e, soprattutto, questa lunga serie di fallimenti, dei quali si sono rese protagoniste, in stagioni diverse, la quasi totalità delle forze politiche italiane e dei loro leaders, dovrebbe indurre ad una riflessione seria, per evitare che si ripetano anche in futuro gli errori di questo recente passato e che l’esigenza, largamente avvertita, di procedere ad aggiustamenti del nostro sistema istituzionale al fine di colmarne lacune ed inefficienze, non si dimostri, ancora una volta, inconcludente e inutile; quel perverso ‘gioco dell’oca’ di cui ha parlato Orlando Roselli, che non produce frutti, se non quello di delegittimare ulteriormente le regole costituzionali esistenti.

Se la prospettiva in cui collocarsi è quella di considerare l’eventualità di una riforma costituzionale come opportuna, tenuto conto del rendimento della nostra forma di governo, certamente non comparabile a quello di altri sistemi parlamentari come quelli della Germania o della stessa Spagna e dei profondi mutamenti di carattere economico, sociale, culturale ecc. che sono intervenuti negli ultimi decenni e che richiedono una maggiore tempestività ed efficienza nelle decisioni da assumere, non possiamo però abdicare ad alcuni punti fermi, che, dal mio punto di vista, sono irrinunciabili. Il primo e il più importante riguarda i contenuti della riforma, dovendosi ribadire che le modifiche non devono porsi in termini di rottura, bensì nel segno della continuità con il disegno costituzionale originario.

Continuiamo poi ad essere convinti che l’asserita inadeguatezza del sistema di governo disegnato dalla Costituzione, spesso utilizzata come capro espiatorio, costituisca solo una parte, e non quella più importante del problema cui ci troviamo di fronte (sulle dinamiche storiche che hanno caratterizzato l’evoluzione della nostra forma di governo e del nostro sistema politico v. ora l’interessante ricostruzione di M. Fiorillo, Dalla partecipazione militante, all’astensionismo indifferente. Appunti su origine e linee di sviluppo della forma di governo repubblicana, in Costituzionalismo.it, fasc. n. 2/2023 pp. 54 ss.). Il nostro Paese ha sofferto e continua a soffrire di una prolungata crisi della politica; è stato proprio il sistema dei partiti che si è consolidato a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, con la crisi delle grandi formazioni di massa ispirate da visioni ideologico-politiche generali, con la sua perdita di capacità rappresentativa e l’emersione di partiti personali e movimenti di ispirazione populista, cui è conseguita una radicalizzazione delle posizioni e del confronto, a dimostrarsi incapace di affrontare la complessità dei problemi esistenti, spesso proponendo soluzioni semplificanti e inattuabili e, a seguito dei successivi fallimenti a scaricare tutte le responsabilità sul piano delle regole costituzionali, con un’opera di delegittimazione costante delle stesse. Pare quasi un miracolo che la Costituzione abbia resistito alle numerose «spallate» che ha dovuto subire, confermando come i suoi valori di fondo ed i principi che li codificano, anche in punto di organizzazione dei poteri, costituiscano ancora un patrimonio cui i cittadini, chiamati in più occasioni a pronunciarsi direttamente, non intendono rinunciare.

Le precedenti osservazioni ci portano immediatamente ad osservare come un disegno riformatore maturo e coerente non possa limitarsi al piano della revisione costituzionale, ma debba essere accompagnato, se non preceduto, da interventi ulteriori rivolti ai livelli più bassi del sistema; in primo luogo, ripartendo da quanto statuito dall’art. 49 Cost., mediante l’introduzione di una disciplina organica dei partiti politici comparabile con quella esistente nella maggior parte delle grandi democrazie europee, con una valorizzazione del principio di rappresentatività, della democrazia interna e dell’insostituibile ruolo costituzionale che questi soggetti sono chiamati ad assolvere e che richiede anche forme di finanziamento pubblico trasparente e controllato da autorità indipendenti. Congiuntamente non pare più rinviabile la scrittura di regole elettorali stabili nel tempo, adeguate e condivise, utili a rivitalizzare il circuito della rappresentanza ed a incentivare la partecipazione popolare e non più, come avvenuto finora dopo il 1993, in una prospettiva essenzialmente partisan e con l’adozione di formule poco comprensibili e come tali disincentivanti. È vero che la disaffezione dei cittadini per la politica non è un problema solo italiano e interessa tutti gli altri sistemi di democrazia matura che adottano sistemi proporzionali corretti, ma con un’intensità minore, come dimostrano i dati relativi all’astensionismo considerati nella loro dinamica storica (sulla crisi della partecipazione popolare v. ora M. Volpi, Quale forma di governo per l’Italia, Modena, 2023, p. 15). Infine, più d’uno dei problemi di malfunzionamento istituzionale dipende dalle procedure parlamentari e dalle corrispondenti statuizioni parlamentari ad iniziare da quelle relative alla formazione dei gruppi parlamentari, anche in questo caso assai più flessibili rispetto a quelle di altre esperienze costituzionali che, pur in contesti multipartitici e senza per questo violare il principio del divieto di mandato imperativo, risultano più funzionali ad arginare i fenomeni del trasformismo e del transfughismo parlamentare, dinamiche che di per sé concorrono ad accentuare l’instabilità ministeriale e l’alternanza tra governi sorretti da maggioranze parlamentari diverse in corso di legislatura come di recente dimostrato da G. Valenti, Riduzione del numero dei parlamentari, disciplina dei gruppi e prospettive di riforme regolamentari. L’esperienza italiana a confronto con: Francia, Spagna e Regno Unito, in questa Rivista, n. 1/2023).

Dobbiamo essere consapevoli che disciplina organica dei partiti, legge elettorale e ricadute sui regolamenti parlamentari congiuntamente considerati più che una riforma costituiscono una vera e propria «autoriforma» del sistema politico, che come tale deve essere realizzata dagli stessi destinatari delle nuove regole, innescando, così, quello che da Kelsen in poi viene definito come il «paradosso delle riforme»; nessuna riforma produce conseguenze a somma zero o vantaggi per tutti i destinatari e, per questo, ciascuno dei soggetti coinvolti in questo processo (che O. Roselli, nell’Editoriale già ricordato definisce come «la più decisiva delle riforme») tende ad affermare e vedere riconosciuti i propri interessi, con impossibilità di coagulare maggioranze possibilmente ampie e conseguente paralisi del processo decisionale. La nostra storia recente conferma pienamente la difficoltà di superare questo paradosso e la nostra classe politica non ci pare oggi attrezzata per affrontare l’ostacolo, ma quelle che abbiamo indicato sono questioni che non possono essere rimosse o accantonate; una loro mancata considerazione e l’adozione di soluzioni discutibili potrebbero addirittura rendere inutili le riforme costituzionali eventualmente approvate che devono necessariamente essere sorrette e vertebrate da discipline di attuazione e da contesti politici in difetto dei quali è facile immaginare l’innesco di un processo di ulteriore delegittimazione delle istituzioni democratiche.

Tornando ai profili più strettamente di metodo, l’esperienza maturata nella XVIII legislatura ci ha lasciato due insegnamenti; il primo, certamente scontato, che risulta più semplice realizzare riforme della costituzione mirate a singoli istituti o che interessano un numero litato di previsioni, che non portare a termine revisioni più ambiziose, di carattere organico relative a più di un titolo della nostra Carta. Non sempre si tratta della soluzione migliore, in quanto la modifica anche di una sola previsione può determinare un’alterazione dei delicati e complessi equilibri realizzati dall’impianto costituzionale complessivo, soprattutto per quanto concerne i rapporti tra organi costituzionali. Il secondo insegnamento, invece, attiene al grado di consenso parlamentare che si riesce a coagulare intorno alla proposta; più lo stesso è elevato, in quanto tra le forze politiche o almeno tra quelle principali si registra una condivisione di fondo del progetto in modalità tendenzialmente bipartisan, più crescono le possibilità che questa condivisione si rifletta anche nell’opinione pubblica e tra i cittadini. In questi casi pare improbabile che l’eventuale consultazione referendaria possa ribaltare la decisione presa.

Al contrario, secondo quanto è ripetutamente avvenuto nelle legislature precedenti, se si procede con iniziative partigiane, quasi sempre profondamente divisive per i contenuti delle proposte, le posizioni politiche tendono a diventare più radicali ed a polarizzarsi tra due contrapposti schieramenti. L’eventuale approvazione a maggioranza assoluta non chiude la partita: lo scontro si riproduce nel referendum che diventa un passaggio obbligato, finendo per assumere una valenza fortemente plebiscitaria. Come dimostrano gli esempi del 2001, del 2006 e del 2016, in questi casi il referendum si trasforma in un voto che trascende i contenuti della riforma e coinvolge direttamente i leaders e le parti politiche contrapposte, che cercano un surplus improprio di legittimazione popolare, non sempre riuscendo nell’impresa. Come dimostrano le vicende del passato prossimo, la prospettiva referendaria, anche per la sua caratteristica binaria, acuisce lo scontro ed è sempre lacerante, potendo determinare esiti imprevedibili, anche perché la maggioranza parlamentare rappresenta solo una minoranza di cittadini e per ottenere l’approvazione popolare delle riforme deve aggregare un consenso ulteriore, non facile da conseguire proprio in conseguenza dell’accentuarsi della polarizzazione.

Un sintomo evidente di questo approccio partigiano si rinviene proprio nell’esercizio da parte del governo del potere di iniziativa di revisione costituzionale; una facoltà certamente consentita e ormai suffragata da una prassi che risale almeno alla proposta relativa all’instaurazione di un «Ordinamento federale della Repubblica» (Camera dei deputati, XIII legislatura, atto n. 5830 del 18 marzo 1999), che porterà all’approvazione della l. cost. n. 3/2001, ma, in quanto riconducibile all’indirizzo politico dell’esecutivo e (si presume) della maggioranza che lo sostiene, rende meno agevole la condivisione da parte degli altri gruppi politici in un processo che sarebbe opportuno riconoscesse la centralità del parlamento in tutti i suoi passaggi, ad iniziare dal suo avvio.

A questa torsione, almeno alcune delle esperienze finora maturate ne hanno affiancata un’altra, consistente nella propensione dei promotori delle riforme ad imporre nuove regole che non sono considerate soltanto come migliori di quelle esistenti o di altre eventualmente possibili, ma che appaiono anche maggiormente congeniali alla propria parte politica; e questo sia che si tratti di proposte di bandiera che possono favorire un incremento del consenso politico immediato, sia in quanto da una loro approvazione possono essere tratti dei vantaggi anche di carattere materiale nell’immediato (l’esempio più clamoroso di questo approccio lo si ritrova nelle leggi elettorali più recenti, come la n. 270/2005, la n. 52/2015, la n. 165/2017, tutte approvate per limitare le perdite e massimizzare i profitti per chi le ha fatte approvare). Riteniamo che la combinazione di queste due modalità di approccio contraddica la natura contrattuale che costituisce l’essenza delle previsioni costituzionali e certamente, di quella condivisione che ha fondato la nostra scelta costituente e debba, per questo, essere contrastata senza indulgenza alcuna. Il compromesso, soprattutto se di alto livello è di difficile conseguimento, ma deve essere perseguito come un obiettivo necessario.

Queste tendenze alla strumentalizzazione delle riforme istituzionali per finalità essenzialmente politiche e di parte trovano spesso un riscontro nei contenuti delle proposte che vengono avanzate; per essere chiari: la revisione del 2001 serviva anche ad attenuare quelle derive secessionistiche che emergevano in alcune delle regioni del Nord, quelle del 2005 e del 2016 a stabilizzare cicli politici imperniati sulle figure dei Presidenti del consiglio allora in carica, anche mediante un rafforzamento rilevante dei loro poteri e del loro ruolo istituzionale.

Un dato comune delle diverse proposte riposa sull’unicità delle soluzioni avanzate, che non trovano riscontro in altre esperienze costituzionali, secondo quando risulta chiaramente dall’indagine comparata. Soluzioni, quindi, atipiche, confezionate tenendo conto esclusivamente dei caratteri (e degli interessi) del nostro sistema politico, prendendo atto delle perduranti anomalie italiane, talora sintetizzate in formule coniate ad hoc (si pensi alla definizione di «Italicum» per la legge elettorale approvata nel 2015 e poi dichiarata incostituzionale prima della sua applicazione).

In proposito credo siano importanti alcune osservazioni in punto di metodo; aveva ragione Voltaire quando scriveva che «I governi si debbono adattare ai paesi dove vanno realizzati» (Dizionario filosofico - voce Stati-governi) e che è necessario diffidare delle supposte virtù taumaturgiche dell’ingegneria costituzionale, ma questo non contraddice l’esigenza di valorizzare le risultanze che la prospettiva comparata induce a considerare. Questo non per proporre l’adozione di trapianti di soluzioni preconfezionate riprese in maniera automatica da altri sistemi costituzionali, ma per accertare la sussistenza di regolarità che ricorrono dalla presenza di istituti e regole simili in contesti diversi; mediante l’analisi comparata è possibile verificare il successo o l’insuccesso di determinati modelli adottati altrove, che anche per questo meritano di essere imitati, magari con gli opportuni adattamenti, o, invece, rifiutati. In particolare, in punto di forme di governo, l’inesistenza di sistemi simili a quelli che si vogliono congegnare o, piuttosto la registrazione in chiave diacronica del fallimento e dell’abbandono di determinati modelli, costituiscono indici di riferimento che non possono essere trascurati, anche soltanto per un’elementare prudenza, da parte dei promotori delle riforme. D’altra parte, è questo il metodo cui si sono ispirati i costituenti di ogni epoca (compreso il nostro), che, partendo dalle esperienze conosciute hanno dato corpo ad un numero limitato di varianti e favorito una circolazione diffusa dei modelli di maggior successo, con limitate ibridazioni e, semmai, varianti che si sono affermate ex post, sulla base delle specificità di ciascun contesto politico-sociale.

Per concludere sul punto: le costituzioni (e le revisioni costituzionali quando necessario) devono essere fatte su misura (così, P. Renard, Constitutionnes de la nuovelle Europe, Rev. pol. et parl., 1930, 278), tenendo conto della taglia del Paese in cui si devono applicare, ma l’eccessiva eccentricità desta sospetto e può rivelarsi pericolosa, soprattutto quando si propende per un ribaltamento del tavolo e si propone di sovvertire la tradizione esistente piuttosto che limitarsi a correggerla per limitarne i difetti e le incongruenze. In casi di questo genere l’esito più frequente che la comparazione mette in luce è quello dello snaturamento delle nuove regole, che vengono poi adattate alla luce delle prassi e dei comportamenti politici che tendono a riproporsi.

Abbiamo ragionato in termini generali, ma più di una delle considerazioni fatte valgono anche a proposito del progetto di revisione costituzionale di cui ora si sta discutendo; si tratta di una proposta presentata dall’esecutivo, che ha incontrato da subito critiche severe da parte delle minoranze parlamentari più consistenti; l’approccio, quindi, torna ad essere divisivo ed anche se è difficile anticipare previsioni, al momento pare poco probabile che si possa coagulare una maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere, o, comunque, una condivisione parlamentare ampia, forse non voluta neppure dagli stessi partiti di governo, che possono intravedere nel successivo referendum un momento di legittimazione politica di ulteriore, anche se il coefficiente di rischio appare elevato per l’imprevedibilità del voto popolare. Ancora una volta, quindi, non si è proceduto con l’apertura di una discussione allargata ed inclusiva, ma imponendo un punto di partenza incentrato sull’elezione diretta di una delle massime cariche dello Stato, inteso come un punto irrinunciabile dal punto di vista sia ideologico che politico, con l’effetto di polarizzare e radicalizzare le posizioni in campo, così da rendere molto difficili eventuali ipotesi di mediazione e di intesa. La prospettiva referendaria che si intravede ove si completasse il percorso parlamentare della riforma prefigura scenari ancora più laceranti, con uno scontro politico il cui oggetto travalicherà il contenuto della riforma, con un contenuto e degli effetti plebiscitari per entrambi le parti.

Ma la Costituzione è troppo importante per tutti e non può essere messa in gioco esclusivamente nell’interesse di una parte politica, che pretende di imporre a tutti regole fortemente controverse.

3. I progetti di riforma attualmente in discussione

Quello presentato dal Governo non è l’unico progetto di modifica della forma di governo incentrato sul passaggio al premierato: ne sono stati presentati altri, sia in forma ufficiale, con la presentazione di un d.d.l di revisione costituzionale, sia come esercizio di attività intellettuale volta a stimolare la riflessione sul tema. Ovviamente si tratta di proposte alternative la cui autorevolezza non è paragonabile a quella del d.d.l. governativo, ma delle quali è opportuno dare sommariamente conto per evidenziare come la stessa idea di fondo possa essere declinata secondo una molteplicità di varianti e prospettive, oltre che di soluzioni tecnico-giuridiche.

L’elemento in comune di questi progetti, abbandonata la prospettiva di un’elezione diretta del Presidente della Repubblica consiste nel rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio o mediante la sua elezione a suffragio universale o mediante un collegamento con le liste per le elezioni parlamentari, comunque con la previsione di un premio di maggioranza che assicuri alla parte che ottiene il più alto consenso elettorale il conseguimento di una maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le Camere.

Prima di procedere all’analisi dei progetti di cui si sta discutendo, pare opportuno un inquadramento generale che richiami i presupposti e le finalità di questa forma di governo, che, come vedremo subito, va considerata come un modello estraneo alla tradizione del parlamentarismo razionalizzato.

Quella del c.d. premierato direttamente elettivo è un’ipotesi sulla quale si dibatte da lungo tempo anche in sede scientifica; il primo a teorizzarla, per completare il sistema introdotto dalla Costituzione francese del 1958 fu Maurice Duverger nel 1960 (cfr. La repubblica tradita, tr. it., Milano, 1960, spec. 180 ss.), che poi l’abbandonò quasi subito per condividere, a seguito dell’approvazione della loi referendaire del 1962, l’investitura popolare del Presidente della Repubblica.

In Italia la primogenitura della proposta è da attribuire a Serio Galeotti che, nel 1983, la pose al centro del progetto di riforma costituzionale elaborato dal gruppo di Milano coordinato da Gianfranco Miglio (Per il rimodellamento della forma di governo in «Governo di legislatura», in AA.VV., «Gruppo di Milano», Verso una nuova Costituzione, Milano, 1983, I, 387 ss.). Galeotti, con una proposta assai completa nella sua articolazione, riteneva che mediante l'adozione di questa regola costituzionale si rendesse possibile, anche in assenza di un sistema bipartitico e le corrispondenti conventions of constitution, una modalità di funzionamento della forma di governo italiana simile a quella inglese, ovvero consentire che il leader politico che risultava eletto diventasse automaticamente primo ministro e lo rimanesse per l'intera legislatura (una lettura del sistema britannico risalente a mezzo secolo fa e ormai stereotipata, considerate le sue dinamiche più recenti).

Questa visione assume come valori primari da assicurare, prima di ogni altro, quelli della stabilità del potere esecutivo e della governabilità che ne sarebbe la diretta conseguenza, con una valorizzazione del principio della sovranità popolare. I benefici di una soluzione siffatta consisterebbero oltre che a «sapere chi governerà il giorno stesso delle elezioni» (per usare un gergo politico ricorrente), nell’impedire cambiamenti di maggioranza in corso di legislatura (c.d. ribaltoni) o la formazione di governi tecnici nel caso di crisi sopravvenute, in quanto ulteriore elemento indefettibile di questa forma di governo, oltre all'elezione popolare del primo ministro, consisterebbe nella regola “aut simul stabunt aut simul cadent”, secondo la quale la sfiducia parlamentare al governo obbligherebbe quest’ultimo alle dimissioni ma determinerebbe il contestuale scioglimento anticipato delle Camere; parallelamente, le dimissioni del Primo ministro (o la sua morte/impedimento permanente) conseguirebbero il medesimo effetto.

L’indagine comparata ci dimostra come si tratti di un sistema pressoché inedito a livello statale (l’eccezione è rappresentata dalle regioni e dai comuni italiani), in quanto non corrisponde a nessuna forma di governo attualmente esistente («il modello introvabile», di cui parla M. Volpi, cit., 44).

L'unica esperienza storica nella quale si è cercato di realizzare una forma di governo riconducibile allo schema teorico appena decritto è stata quello di Israele, a seguito di una riforma approvata nel 1992 ed applicata per una sola legislatura, dal 1996 al 2001, per poi essere rapidamente abbandonata.

La soluzione israeliana si reggeva sull’elezione contestuale, ma disgiunta, del Primo ministro (con un sistema a doppio turno eventuale) e della Knesset; a seguito della doppia elezione il Governo che si formava doveva comunque ricevere la fiducia preventiva da parte della Camera nei confronti del Governo, per consentire le necessarie trattative tra i partiti, per accordi di coalizione in grado di coagulare una maggioranza parlamentare. Semplificando al massimo la complessa disciplina adottata, il sistema prevedeva inoltre due diversi procedimenti per la rimozione del primo ministro: l'approvazione di una mozione di sfiducia a maggioranza assoluta della Camera, oppure con tre successive votazioni sempre a maggioranza assoluta per decidere per l'autoscioglimento; il Primo ministro disponeva infine di un potere autonomo di dissoluzione della Camera, che determinava il ricorso alle urne per la rielezione di entrambi gli organi.

L’ibridazione di elementi propri della democrazia d’investitura con istituti tipici della forma parlamentare di governo quali il carattere preventivo e necessario della relazione fiduciaria (a parte l'obbligo per il premier di essere un parlamentare), non ha risolto i cronici problemi della debolezza congenita delle compagini governative e dell’alta instabilità governativa, conseguenza di un multipartitismo composito, estremizzato da una forte la polarizzazione e dalla presenza di partiti religiosi radicali, con una formula elettorale proporzionale non modificabile (stante le profonde lacerazioni sociali ed i conflitti religiosi irrisolti) e corretta da un premio di maggioranza non elevato (ora del 3,25%). È sembrato quindi quasi naturale il ritorno ad un sistema parlamentare, che certo non ha risolto la questione dell’instabilità politica, ma ha mostrato il carattere illusorio del ricorso all’ingegneria costituzionale per affrontare problemi che di natura sociale e culturale prima ancora che politica.

Nel dibattito italiano ci si è posti fin da subito il problema della qualificazione di questa forma di governo, che già Galeotti aveva definito come neoparlamentare, ritenendo come si trattasse soltanto di uno sviluppo e di un’attuazione più moderna del nostro sistema istituzionale ed anche per sottolinearne la derivazione dal modello parlamentare. Una parte significativa della dottrina (Cfr. M. Volpi, Libertà e autorità. La classificazione delle forme di Stato e delle forme di governo7, Torino, 2018, 193 ss.; L. Primicerio, Forma di governo parlamentare e modelli di democrazia rappresentativa, Torino, 2002, 170 ss.) ha contestato questa denominazione per la sua equivocità, preferendo definirla come semi-parlamentare, con una formula che meglio evidenziasse la giustapposizione di elementi parlamentari e presidenziali, allo stesso modo di quanto si verifica anche per il sistema semipresidenziale. I profili nominalistici non vanno mai enfatizzati, ma come risulta impropria la stessa formula «semipresidenzialismo» (facendo immaginare un sistema presidenziale dimezzato), essendo più corretto parlare di sistemi «a componenti presidenziali e parlamentari» a carattere ibrido e multivirtuale, allo stesso modo ci pare che per il modello sul quale stiamo ragionando sia del tutto fuorviante mantenere qualsiasi riferimento alla forma di governo parlamentare, rispetto alla quale risulta prima del principale elemento caratterizzante, che riposa sulla derivazione parlamentare e non elettorale del governo e della permanenza in carica di quest’ultimo sul presupposto della permanenza della relazione fiduciaria, senza escludere la possibilità di crisi che producano la formazione di un nuovo esecutivo, eventualmente sorretto anche da una diversa maggioranza politica.

Ne consegue, allora, che proprio la formula di «premierato elettivo» (potendo configurarsi anche un «premierato non elettivo», possibile con interventi limitati alla sola legge elettorale, come da alcuni proposto anche in passato), per quanto da verificare potrebbe essere quella che meglio esprime l’essenza di questo modello, che configura in maniera netta ed inequivocabile una forma di governo diversa e alternativa rispetto a quella parlamentare, tanto nella sua versione classica che in quelle razionalizzate. Ci pare una considerazione di tutta evidenza: non solo l'investitura del governo non procede più da una decisione della maggioranza delle Camere derivando direttamente da una scelta popolare ma, diversamente dalla forma di governo parlamentare che si caratterizza tra le altre per la sua flessibilità, questo sistema risulta particolarmente rigido, quale conseguenza della regola del simul stabunt simul cadent. Siamo fuori dallo schema classico recentemente ribadito dalla Supreme Court of United Kingdom nella sentenza del 14 settembre 2019 (c.d. Miller II) secondo cui la forma di governo parlamentare britannica si fonda, oltre che sul principio della sovranità parlamentare su quello della necessaria responsabilità del governo, considerato come un’emanazione permanente della Camera dei comuni. Un’affermazione che credo costituisca il contenuto essenziale di qualsiasi forma di governo parlamentare, nella quale il Governo nasce nel e dal Parlamento e non insieme al Parlamento.

3.1. Il d.d.l. cost. A.S. n. 830/2023 e la proposta del «sindaco d’Italia»

La prima proposta in assoluto ad essere formalizzata è stata quella del d.d.l. cost. n. 830 (presentato al Senato il 1° agosto 2023, primo firmatario Matteo Renzi ed abbinato a quello governativo in seno alla 1° Commissione permanente); il primo dei suoi punti qualificanti riposa sull’elezione a suffragio universale del premier, contestualmente a quella delle Camere. Per questo, coerentemente, il Presidente del Consiglio viene configurato quale organo di vertice del potere esecutivo, titolare esclusivo della funzione di indirizzo politico e del potere di nomina e revoca dei ministri, configurato come un atto proprio. In parallelo, le dimissioni del premier (come la morte o l’impedimento permanente) determinano l’obbligo per il Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere; allo stesso l’approvazione di una mozione di sfiducia ai sensi del novellato art. 94. 5 Cost., obbligando il Presidente del Consiglio a rassegnare le dimissioni, determinerebbe a sua volta un’interruzione automatica della legislatura, coerentemente con la regola, adottata in via generale, del simul stabunt simul cadent. Questo automatismo non si determinerebbe, invece, in caso di mancata approvazione di una questione di fiducia: al verificarsi di una simile eventualità sarebbe consentita al Governo la richiesta di una nuova ed ulteriore deliberazione parlamentare per confermare quella precedentemente assunta (una sorta di doppia conforme). L’anomalia di una previsione siffatta è del tutto evidente, anche per la sua unicità, non rinvenendosi precedenti da un’analisi comparata; la sua finalità riposa sull’esigenza di superare eventuali incidenti di percorso (si pensi alla caduta del primo Governo Prodi nel 1998, a seguito dell’approvazione con un solo voto di scarto della questione di fiducia da parte della Camera dei deputati), ma proprio per questo pare offensiva nei confronti delle Camere, che, considerate alla stregua di soggetti immaturi e, per questo, invitate a ponderare meglio le proprie decisioni, verrebbero ad essere ulteriormente depotenziate nelle loro prerogative di controllo del Governo (v. le critiche di S. Curreri, Lo strano premierato alla Renzi: al secondo tentativo fa peggio, L’Unità, 29/09/2023). Una clausola di flessibilità funzionale all’apertura di trattative politiche magari volte a recuperare il sostegno di parlamentari «responsabili», certamente coerente con le prassi del parlamentarismo, ma che di per sé mette a nudo e conferma come i problemi che generano fenomeni di instabilità governativa sono di natura politica e quasi mai imputabili alla disciplina costituzionale esistente.

Questa proposta è finalizzata a replicare a livello nazionale qualcosa di molto simile ai modelli di governo già operanti a livello comunale e, soprattutto, regionale, come risulta anche dall’adozione della formula «sindaco d'Italia» (il riferimento al modello degli enti locali è esplicato nell’introduzione al d.d.l.), giuridicamente del tutto impropria, ma di sicura suggestione. Resta un’incognita: il progetto tace riguardo alle formule elettorali da adottare per questa elezione contestuale di Camere e Presidente del Consiglio; ciò che non esclude la possibilità di una votazione a turno unico, secondo quanto previsto da un certo numero di leggi elettorali regionali, permettendo così l’elezione alla carica di premier del leader di un partito o di una colazione minoritaria, con uno sbilanciamento ingiustificato ed eccessivo tra legittimazione popolare ed entità dei poteri conferiti. Lo stesso parallelismo tra forme di governo operanti negli enti territoriali e quella nazionale, che viene richiamato anche da chi in dottrina sostiene questa ipotesi riformatrice (per tutti T.E. Frosini (a cura di), Il premierato nei governi parlamentari, Torino, 2008), con il richiamo ad un’esigenza di omogeneità costituzionale che dovrebbe valorizzare ed estendere il modello più efficiente, ovvero quello adottato nelle regioni, è di per sé è molto debole sul piano giuridico, oltre che fuorviante. Intanto si deve osservare che la stabilità che è stata conseguita dalle istituzioni regionali dopo il 1995 non ha prodotto altrettanta efficacia dell’azione di governo, come dimostrato in più occasioni, in particolare per la gestione della sanità pubblica anche in tempi di pandemia; e questo al prezzo di un annichilimento delle assemblee consiliari e del principio di rappresentanza che esse esprimono, con una crescita progressiva del disinteresse dei cittadini ed un drastico abbassamento della partecipazione popolare, come dimostrato dagli elevati tassi di astensionismo che si registra in questo tipo di elezioni (i dati delle consultazioni che si sono svolte nel 2023 registrano una percentuali di votanti in alcuni casi inferiore al 40%). Una situazione, questa, che dovrebbe indurre ad un ripensamento dello stesso modello che è stato costruito per gli enti territoriali, piuttosto che enfatizzarne impropriamente qualità che non possiede; una riflessione utile anche per attenuare la polarizzazione eccessiva determinata da un tipo di consultazione elettorale funzionale soltanto all’investitura del vertice monocratico dell’ente, che nella maggior parte dei casi è stato scelto da una minoranza di cittadini.

La prospettiva che tende a sovrapporre la forma di governo nazionale a quella locale, considerando quest’ultima come un modello da imitare anche per il piano più alto presenta poi il difetto di trascurare la profonda diversità che intercorre tra i livelli di governo territoriale e quello nazionale, sia in termini di struttura organizzativa che di consistenza ed estensione delle attribuzioni spettanti. Intanto, non si tiene conto che a differenza del sistema istituzionale dei comuni e delle regioni italiane, che è di tipo binario, la forma di governo nazionale è organizzata sulla base di quella che Alfonso di Giovine ha definito la triade del grande potere politico, con la presenza di un terzo soggetto, il Presidente della Repubblica, titolare di funzioni di garanzia politica della Costituzione, quale organo necessario. Anche soltanto per questa ragione la formula proposta è equivoca ed il modello regionale/comunale non è automaticamente trasferibile a livello nazionale. Del resto, è una caratteristica di tutti i sistemi parlamentari (repubblicani e monarchici) quella di garantire la presenza di un capo di Stato come figura distinta da quella del Governo, indipendentemente dalla effettiva consistenza dei poteri che lo stesso è in grado di esercitare.

Quanto poi alle diversità di attribuzioni credo sia pleonastico ricordare che a differenza dei comuni, titolari solo di competenze amministrative e delle regioni, che dispongono anche di limitate competenze legislative, lo Stato è titolare del potere di revisione costituzionale e di una potestà legislativa che può intervenire sui diritti di libertà e disciplinare gli organi di garanzia (in particolare il potere giudiziario). La questione sarà ripresa più avanti, ma era intanto necessario sottolineare il carattere improprio di questo parallelismo, spesso evocato per giustificare alcune delle proposte di riforma presentate.

Siamo convinti che la proposta in questione, presentata in termini provocatori per stimolare altre iniziative, si configuri come l’ipotesi più estrema e radicale tra quelle sul tappeto, la cui eventuale (e al momento improbabile oltre che non auspicabile) approvazione determinerebbe un abbandono del sistema parlamentare di governo, del quale verrebbe a difettare il presupposto essenziale «del governo quale emanazione permanente del parlamento». Un esito che si riverbera sulla stessa qualificazione di questa inedita forma di governo, per la quale, trattandosi di un unicum nel quadro dei regimi democrati, non si potrebbe fare ricorso ad altre esperienze esistenti e che alla fine potrebbe essere definita proprio come «premierato elettivo».

3.2 La riproposizione del modello di «premierato non direttamente elettivo»

La seconda delle proposte con la quale è utile confrontarci ha una matrice dottrinale che la rende assai più pregevole dal punto di vista tecnico-giuridico. Anche questa riforma produrrebbe un cambiamento significativo del sistema di governo, con una forte valorizzazione del vertice del potere esecutivo (sia in termini di investitura che di attribuzioni); tanto è vero che, coerentemente con questa evoluzione, viene modificata la denominazione dell’organo da Presidente del Consiglio a Primo ministro. Il complesso delle modifiche proposte, che interessano anche la disciplina del rapporto fiduciario, delle crisi di governo e dello scioglimento anticipato delle Camere, fanno sorgere il dubbio se si tratti di una fortissima razionalizzazione del nostro parlamentarismo, o non determini, invece, la creazione di un nuovo modello, di natura ibrida, rispetto alla forma di governo parlamentare.

Facciamo riferimento al progetto elaborato da Stefano Ceccanti (in federalismi.it, paper, 25 novembre 2023), il quale partendo dal presupposto della non difendibilità dello status quo e da quella che definisce esigenza di una ragionevole manutenzione istituzionale, ripropone l’ipotesi di un premierato nel quale l’investitura popolare del vertice dell’esecutivo non sia rimessa ad un’elezione popolare diretta, ma sia conseguibile in via di fatto per effetto di un nuovo sistema elettorale che colleghi l’elezione parlamentare a del futuro Primo ministro. A questo fine con una riscrittura dell’art. 55 Cost., si prevederebbe l’inserimento in Costituzione di una pluralità di norme di principio sulla cui base la legge elettorale, oltre a favorire la formazione di maggioranze omogenee in entrambe le Camere, dovrebbe prevedere: 1) che le candidature nei collegi uninominali o di lista siano collegate ad un candidato Primo ministro (con modalità poi precisate dalla normativa elettorale); 2) la possibilità di assegnare seggi aggiuntivi alla lista o alla coalizione di liste (o ai candidati uninominali tra loro collegati) che abbiano ottenuto la metà più uno dei voti validamente espressi, con un favor per un sistema a doppio turno con eventuale ballottaggio. Inoltre, la normativa elettorale sarebbe circondata dalla garanzia di un eventuale controllo preventivo di costituzionalità, esperibile da una minoranza parlamentare.

All’esito delle elezioni parlamentari, sulla base del novellato art. 92 Cost., il Presidente della Repubblica procederebbe quindi alla nomina del candidato collegato secondo la legge elettorale alla maggioranza parlamentare degli eletti (art. 92.3 Cost.), cui deve seguire la presentazione del programma di governo al Parlamento in seduta comune entro 10 giorni, senza che sia previsto un voto di fiducia iniziale, (così il nuovo art. 94.1 Cost.); una modalità tipica del parlamentarismo negativo utile a consentire la formazione di gabinetti di minoranza e adottata anche dalla Costituzione francese del 1958. Dobbiamo poi aggiungere che il rafforzamento della posizione del Primo ministro sarebbe garantita dall’estensione del potere di proporre al Capo dello Stato non solo della nomina, ma anche della revoca dei ministri.

Il passaggio dall’attuale procedura bicamerale a quella monocamerale riguardo alla gestione del rapporto fiduciario si estende a tutte le fasi successive; così, le dimissioni del Primo ministro possono essere presentate al Presidente della Repubblica dopo motivata comunicazione al Parlamento in seduta comune e relativa discussione, con una parlamentarizzazione obbligatoria di un’eventuale crisi di gabinetto. Nel caso di dimissioni volontarie del Primo ministro (o di morte o impedimento permanente) il Presidente della Repubblica ha il potere di proporre al Parlamento in seduta comune un nuovo candidato (la riproposizione del dimissionario è espressamente esclusa), per la cui nomina è comunque richiesta l’approvazione a maggioranza assoluta, in difetto della quale entro dieci giorni si procede allo scioglimento anticipato delle Camere. Si tratta di un elemento di flessibilità del nuovo sistema, che non accoglie, quindi, la regola «simul–simul», anche se viene fortemente ridotta la discrezionalità del Capo dello Stato in ordine al potere di dissoluzione del Parlamento.

Il disegno riformatore si completa con la previsione della mozione di sfiducia costruttiva, che può essere presentata da un quarto dei componenti del Parlamento, con l’espressa indicazione del nuovo candidato alla carica di Primo ministro. Anche il voto sulla mozione di sfiducia costruttiva sarebbe rimesso al Parlamento in seduta comune, chiamato nuovamente a deliberare con la maggioranza assoluta dei suoi componenti; se la proposta viene approvata, il presidente della Repubblica deve quindi procedere alla nomina del nuovo Primo ministro.

Troverebbe infine un'espressa disciplina costituzionale anche l'istituto della questione di fiducia, che resterebbe proponibile oltre che su atti politici (quali ordini del giorno, mozioni o risoluzioni), anche con riguardo all'approvazione di un disegno di legge ordinaria o di eventuali emendamenti; una proposta che porterebbe a costituzionalizzare regole che si sono affermate in via di prassi, con un ulteriore rafforzamento della posizione del Governo dinanzi alle Camere, che anche in questa eventualità si dovrebbero pronunciare in seduta comune, con un voto per appello nominale per il quale non sembrerebbe prevista una maggioranza particolare. Questa analitica disciplina del rapporto fiduciario si completa stabilendosi che la presentazione di una questione di fiducia inibisce quella di una mozione di sfiducia, ancora una volta con un favor per l’esecutivo.

Il rafforzamento del potere esecutivo e della stabilità del governo opererebbe quindi sul duplice versante dell'investitura contestuale della maggioranza parlamentare e del «suo» primo ministro e della permanenza in carica del governo, che potendo disporre della questione di fiducia è facilitato nell'attuazione del proprio programma e la cui rimozione diventa possibile se si coalizza una maggioranza parlamentare assoluta in grado di esprimere un nuovo leader.

Riguardo, infine, alla disciplina dello scioglimento anticipato delle Camere, la disciplina attuale viene mantenuta per larghi tratti, con l’introduzione di alcuni automatismi che rafforzano il ruolo del Primo ministro. Intanto, in caso di mancata approvazione di una questione di fiducia quest’ultimo, in alternativa alle proprie dimissioni potrebbe chiedere ed ottenere entro un termine molto breve (tre giorni) al Capo dello Stato di indire nuove elezioni anche nel periodo del semestre bianco, eccezion fatta per il caso in cui il Parlamento in seduta comune proceda all’approvazione di una mozione di sfiducia costruttiva che porti entro dieci giorni alla formazione del nuovo governo.

Nel suo complesso, soprattutto se si guarda alle regole in entrata, la proposta in questione non costituisce, almeno per i suoi tratti essenziali, una novità assoluta; come lo stesso Ceccanti ricorda nella sua presentazione, essa riprende la Prima Tesi del programma dell’Ulivo presentato nel 1986 e, almeno per quanto riguarda le modalità di investitura del vertice dell’esecutivo in collegamento preventivamente del candidato con le liste o le coalizioni di liste presentate per le elezioni delle Camere, già in passato erano state presentate delle proposte di analogo contenuto. Il riferimento è al d.d.l. costituzionale A.S. n. 1622 del 2002 (primo firmatario il Sen. G. Tonini), «Norme per la stabilizzazione della forma di governo intorno al Primo Ministro e per il riconoscimento dello Statuto dell’Opposizione», che prefigurava un collegamento del candidato alla carica di Primo ministro con i candidati dei collegi uninominali maggioritari alle elezioni parlamentari; con la conseguenza che la scelta del Capo dello Stato in ordine alla successiva nomina era vincolata al risultato elettorale, con la possibilità per il Primo ministro di chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere in caso di sfiducia (c.d. norma antiribaltone).

Sostanzialmente sulla stessa linea anche il d.d.l. A.S. n. 1889 del 2003 (Malan e altri), ove si prevedeva che il nome del candidato premier fosse esplicitamente indicato sulla scheda elettorale e collegato alla coalizione vincente e che una volta nominato questo acquisisse il potere pieno di nomina e revoca dei ministri e di scioglimento anticipato delle Camere. Soluzione che in parte si era poi concretizzata con l’approvazione dell’art. 1.5, l. n. 270/2005 (di riforma della legge elettorale, c.d. porcellum), che obbligava le liste o le coalizioni a indicare preventivamente il loro «capo». Regola che, come ben sappiamo, è stata applicata in tre diverse consultazioni elettorali (2006, 2008 e 2013), prima che Corte cost. n. 1/2014 accertasse l’incostituzionale della formula elettorale congegnata da quella legge.

L’ipotesi del premierato non elettivo (rectius: indirettamente elettivo) si configura certo come una soluzione meno dirompente rispetto alle altre sul tappeto, ma a sua volta comporta una forte limitazione del ruolo del Presidente della Repubblica e gli automatismi che essa introduce irrigidiscono fortemente la flessibilità propria della forma di governo parlamentare, con un’ibridazione di elementi che sono confermati dalla clausola che imporrebbe l’incandidabilità alla carica di Primo ministro di chi abbia svolto tale funzione per due legislature consecutive, una previsione (ripreso da quanto stabilito per i presidenti di giunta regionale dall’art. 2.1 lett. f), l. n. 165/2004 e per i sindaci dall’art. 51.2 T.U.E.L), certo opportuna per impedire un’eccessiva e prolungata concentrazione di potere nelle mani della stessa persona, ma sintomatica di una visione presidenziale (in questo senso le previsioni del XXII emendamento della Costituzione USA o dell’art. 6.2 Cost. francese 1958), piuttosto che tipica dei sistemi parlamentari (si pensi ai quattro mandati consecutivi di Kohl e Merkel in Germania, o ai casi di Thatcher e Blair nel Regno Unito, certamente eccezionali ma non preclusi da divieti costituzionalmente imposti).

Ma anche in questo caso il difetto maggiore della proposta è riferibile alla sua parzialità, prendendo in considerazione soltanto il profilo della stabilità del governo, senza occuparsi dell’evidente necessità di realizzare forme di riequilibrio istituzionale che, a fronte dell’evidente depotenziamento del ruolo di intermediazione politica del Capo dello Stato, richiederebbe in funzione di contrappeso un consistente irrobustimento dell’istituzione parlamentare, con particolare riguardo ai poteri di controllo politico e, soprattutto, con riferimento all’esercizio della funzione legislativa, che andrebbe ri-parlamentarizzata, limitando drasticamente le possibilità di ricorso alla decretazione d’urgenza ed all’uso sistematico e costante della questione di fiducia.

Un aspetto di questa proposta merita, tuttavia, attenzione, se si condivide l’opportunità di procedere ad una razionalizzazione più incisiva del nostro sistema parlamentare; il riferimento è alla serie di previsioni sulla cui base il rapporto fiduciario non si instaurerebbe più con ciascuna delle due Camere, bensì con il Parlamento in seduta comune. Anche in questo caso nulla di nuovo sotto il sole, se è vero che si tratterebbe di un ritorno alla proposta inizialmente elaborata, per iniziativa anche in questo caso dell’on. Tosato, in seno all’Assemblea costituente; come noto il progetto di costituzione elaborato dalla Commissione dei 75 e presentato all'Assemblea plenaria nel gennaio del 1947, stabiliva che la fiducia al governo fosse accordata con voto nominale, su una mozione motivata, dalla maggioranza assoluta dai componenti dell'Assemblea nazionale (integrata sia dai deputati che dai senatori), di fronte alla quale il governo si doveva presentare entro 8 giorni dalla sua formazione, proprio per chiederne la fiducia (art. 87 del progetto). Allo stesso modo se il governo, dopo avere ricevuto un voto di sfiducia da parte di una delle Camere non aveva intenzione di dimettersi, doveva convocare l'assemblea nazionale che si sarebbe pronunciata, anche in questa evenienza, su una mozione motivata (in questo caso senza indicazione la maggioranza richiesta) (art. 88 del progetto). Come già rilevato da Leopoldo Elia (nel discorso tenuto quale Presidente emerito dinanzi alla Corte costituzionale il 29 febbraio 2008 per celebrare il 60° Anniversario della Costituzione) questo disegno, coerente con le finalità dell’o.d.g. Perassi e della scelta consapevole di introdurre una forma di parlamentarismo razionalizzato, perseguiva «l’intento stabilizzatore della continuità di governo da una parte e il tentativo di non rendere più difficile con il bicameralismo l’efficienza del potere governativo».

Oggi la via maestra da seguire in Italia dovrebbe essere quella di una riforma del bicameralismo (a nostro avviso irrinunciabile, come nella tradizione comune di tutte le democrazie di grandi dimensioni nessuna delle quali è caratterizzata da assetti monocamerali), con una differenziazione delle due Camere, che lasciasse alla sola Camera dei deputati il compito di far valere la responsabilità ministeriale; ma nell’impossibilità di procedere per la strada maestra, non va trascurata la possibilità di un ritorno alle origini, con una disciplina del rapporto fiduciario strutturato in una modalità monocamerale. Anche a questo proposito le risultanze della comparazione costituiscono un ausilio importante; la regolarità è oggi rappresentata dal bicameralismo differenziato e asimmetrico, laddove quello paritario, ormai anacronistico, costituisce un’assoluta eccezione, operando solo in Romania, ove, comunque, il potere di votare la fiducia/sfiducia all’esecutivo è rimesso dall’art. 102 Cost. proprio al Parlamento in seduta comune (che approva ex art. 62 anche il bilancio dello Stato). Una soluzione “alla rumena” non pare quindi disprezzabile almeno in questo caso.

4. I contenuti del disegno di legge presentato dal Governo Meloni e la proposta di elezione del Presidente del consiglio a suffragio popolare

Sono cinque, a nostro avviso, i punti cardinali che costituiscono il nucleo del già menzionato d.d.l. n. 935, ovvero:

1) l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (sorprendentemente viene mantenuta la denominazione attuale, senza introdurre quella di Primo ministro, che risponderebbe meglio ai contorni della nuova figura che viene configurata ed al ruolo preponderante ad essa conferito), contestuale con quella delle Camere e per una durata prefissata (5 anni).

2) L’attribuzione di un premio di maggioranza predeterminato dalla legge elettorale (che dovrebbe garantire il rispetto dei principi di rappresentatività e governabilità) nella misura fissa del 55% dei seggi in entrambe le Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, a sua volta eletto in una delle due Camere.

3) L’obbligo per il Presidente della Repubblica di conferire al Presidente del Consiglio eletto, cui spetta il potere di proposta dei ministri, l’incarico di formare il governo.

4) La presentazione del nuovo governo alle Camere per ottenerne la fiducia entro dieci giorni; in caso di voto negativo si procede ad una sorta di appello, con il rinnovo dell’incarico al Presidente eletto ed eventuale automatico scioglimento delle Camere nel caso di ulteriore diniego della fiducia.

5) Nel caso di apertura di una crisi in corso di legislatura per cessazione della carica del Presidente del Consiglio non altrimenti precisata (quindi oltre che per dimissioni spontanee, morte o impedimento permanente si deve presumere anche in conseguenza della mancata approvazione di una questione di fiducia o dell’accoglimento di una mozione di censura), al Presidente della Repubblica è consentita l’alternativa tra il conferimento di un nuovo incarico al premier dimissionario o ad un altro parlamentare eletto in collegamento con quest’ultimo, senza possibilità di un mutamento di indirizzo politico e al solo fine di proseguire nell’attuazione del programma di governo sul quale era stata votata la fiducia iniziale. Se il nuovo governo non ottiene la fiducia o negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente subentrante si procede allo scioglimento delle Camere.

A queste previsioni se ne aggiungono due di ulteriori, che possiamo definire di contorno, anche se le stesse assumono un significativo valore simbolico. La prima consiste nell’eliminazione della possibilità di scioglimento di una soltanto delle due Camere, sulla base dell’argomento richiamato nella relazione al d.d.l. della perdita della ratio originaria della norma collegata alla diversa durata delle Camere e, pertanto della desuetudine di questo potere. Un’opera di manutenzione superflua rispetto agli obiettivi primari della riforma, che pare sottintendere la preferenza per un monocameralismo funzionale e di fatto, secondo quanto risulta dall’imposizione di regole elettorali uniformi per le due Camere, condizione necessaria (ma forse non sufficiente) per conseguire quell’assoluta omogeneità politica tra premier eletto e maggioranze parlamentari a suo sostegno. Paradossalmente, però, il circuito fiduciario manterrebbe il suo carattere bicamerale, con l’attuale duplicazione delle procedure.

La seconda, con l’abrogazione integrale dell’art. 59 Cost., porta all’eliminazione per il futuro (nella relazione si parla di superamento) della figura dei senatori a vita di nomina presidenziale; una norma transitoria precisa che restano in carica quelli nominati fino ad oggi, ergo, fermo restando che questa carica sarà ancora riconosciuta agli ex Presidenti della Repubblica, non si potranno più avere nuovi senatori a vita di nomina presidenziale. La giustificazione di questa scelta viene ricondotta ad una duplice motivazione: ampliare la legittimazione democratica al maggior numero di istituti della forma di governo e, in secondo luogo, adeguarsi alla riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei membri del Senato, per non ostacolare l’affermazione del principio maggioritario. Un’argomentazione, quest’ultima, piuttosto risibile, considerato che la previsione di una maggioranza garantita del 55% non potrebbe matematicamente venir meno neppure nel caso in cui tutti i senatori a vita si schierassero con le opposizioni. Se colleghiamo, invece, questa previsione con quella, già richiamata, che impone quale presupposto soggettivo per ricoprire la carica di Presidente del Consiglio l’essere un parlamentare eletto in nome di una necessaria legittimazione democratica (requisito che viene espressamente rivendicato nella relazione di accompagnamento come uno dei cinque punti qualificanti della riforma, invocando la necessità che si tratti di un parlamentare sottoposto al voto popolare e non un soggetto esterno al circuito del suffragio), si comprende come l’obiettivo perseguito sia quello di impedire in ogni caso la costituzione di governi guidati da personalità che non esercitano la politica come professione, anche mediante aggiramenti che portino alla preventiva nomina alla carica di senatore a vita potenziali candidati alla guida dell’esecutivo, come avvenuto nel caso di Mario Monti. L’avversione per i c.d. governi tecnici è uno dei crittotipi di questo disegno riformatore, ma su questa base arrivare all’eliminazione dei senatori a vita sembra eccessivo; certo si può discutere sul carattere più o meno obsoleto di questa figura, ma sarebbe opportuno farlo alla luce di una riflessione più ampia che affronti il tema di riforma dell’istituzione parlamentare nel suo complesso; ma il progetto che stiamo esaminando non si occupa affatto di tali questioni, assumendo la falsa prospettiva della inutilità di un rafforzamento del principale soggetto in cui si esprime la rappresentanza popolare ed il pluralismo politico presente nel Paese.

4.1 Le criticità del d.d.l. cost. n. 935

Una qualche considerazione può essere sviluppata riguardo alla coerenza tra le motivazioni addotte nella relazione al d.d.l. di revisione ed il testo dell’articolato, nonché alla fondatezza di alcune delle motivazioni stesse.

Il punto di partenza riposa nell’osservazione secondo cui l’intervento riformatore risulta necessario per affrontare le criticità ormai conclamate e «sostanzialmente condivise a livello istituzionale, scientifico e di opinione pubblica» della nostra forma di governo, consistenti nell’instabilità dei Governi, nell’eterogeneità e volatilità delle maggioranze, nel «transfughismo parlamentare». La terapia, attraverso le misure di razionalizzazione che abbiamo sopra descritto (elezione diretta del Presidente del Consiglio e stabilità della carica per il legame stretto che viene realizzato con una maggioranza parlamentare solida e precostituita), mira a consolidare il principio democratico consentendo al “corpo elettorale di determinare l’indirizzo politico della Nazione” e favorire la determinazione di indirizzi politici di medio-lungo periodo, finora impediti da crisi di governo sopravvenute in corso di legislatura e da comportamenti parlamentari ispirati a trasformismi; l’investitura del leader e la selezione di una maggioranza parlamentare ad esso collegata consentirebbe un ribaltamento di questa prospettiva. Non solo, questa «restituzione dello scettro al principe» (gli elettori), sarebbe in grado di ridurre la disaffezione verso la politica dei cittadini ed il marcato astensionismo elettorale che ne deriva, consentendo loro di selezionare delle istituzioni decidenti ed eventualmente di confermare o non confermare la classe dirigente nelle successive tornate elettorali.

Le aspettative sono piuttosto alte e per la maggior parte rischiano di essere deluse. Partendo dalla finalità richiamata per ultima, ritenere che l’elezione diretta del vertice del governo favorisca inevitabilmente una partecipazione più consistente alle consultazioni elettorali, così superare la crescente disaffezione elettorale che si sta manifestando da alcuni decenni, ci pare una semplificazione rispetto ad un problema assai più complesso, che ha motivazioni profonde e di non breve periodo. Oltre ai profondi mutamenti sociali degli ultimi decenni ed al crescente disinteresse per la politica delle generazioni più giovani, l’astensionismo crescente ed ancora di più la drastica riduzione del tasso di partecipazione politica è un fenomeno che interessa tutte le democrazie mature e trova le sue ragioni principali nella crisi dei partiti e nella limitata capacità di rappresentanza che essi sono in grado di esprimere, con sistemi politici (tra i quali il nostro) destrutturati rispetto al passato e, nel caso italiano, da formule elettorali poco trasparenti, che comprimono la libertà di scelta degli elettori che percepiscono la scarsa utilità del proprio voto. A prescindere dal rilievo che non costituirebbe un grosso passo avanti incentivare la partecipazione popolare solo nel giorno delle elezioni, assecondando una idea di democrazia meramente elettorale e plebiscitaria, è noto, come ci insegnano gli sviluppi recenti dell’esperienza francese (e anche delle stesse elezioni regionali in Italia). In questa fase storica l’elezione a suffragio universale di cariche monocratiche sta producendo (a cominciare dalla Francia) effetti di personalizzazione della politica, con effetti disgreganti per gli assetti partitici consolidati e riduce il valore delle elezioni delle assemblee legislative (in Francia nelle elezioni legislative del 2017 e del 2022 l’affluenza la voto è stata ben inferiore al 50% degli aventi diritto), percepite come di rilievo secondario, a discapito, quindi, del principio di rappresentanza. Soluzioni istituzionali di questo tipo concorrono, inspiegabilmente, a rafforzare l’ormai generalizzato predominio dei governi nei confronti delle assemblee parlamentari, favorito in Europa dalle prevalenti modalità di gestione intergovernativa di cui si avvale l’Unione.

In definitiva, l’effetto auspicato molto difficilmente potrà essere prodotto da una terapia, incentrata sulla scelta di una persona, poco adatta alla patologia, per curare la quale non esistono scorciatoie; la strada maestra, sempre che sia sufficiente, resta quella della riforma generale della politica, secondo quanto abbiamo già rilevato in precedenza.

Diversi passaggi del progetto di revisione richiedono poi un’analisi puntuale; riguardo alla contestualità dell’elezione del premier e di quella della Camere, come è stato puntualmente rilevato da un osservatore attento (E. Caterina, Sulla misteriosa sparizione della “scheda unica” dal ddl costituzionale sul “premierato”, lacostituzione.info, 4 dicembre 2023), si è registrata una differenza macroscopica rispetto al progetto originariamente diffuso a seguito dell’approvazione in Consiglio dei ministri e pubblicizzato con un comunicato stampa ufficiale del 3 novembre 2003, secondo il quale la contestualità dell’elezione si sarebbe realizzata mediante l’’uso di “una medesima scheda”. Ovvero, con un solo voto si sarebbe dovuto procedere sia all’elezione dei membri delle due Camere che del Presidente del Consiglio, escludendosi la possibilità di un voto distinto per ciascuno dei tre organi. Le ragioni della soppressione di questo inciso non sono, ovviamente, note, né si conosce «la mano» che vi ha provveduto, ma certo si tratta di una variante non secondaria. La formula originariamente utilizzata rendeva del tutto palese il riconoscimento di un valore decisivo e assorbente dell’elezione del premier ed il carattere solo accessorio di quella dei componenti delle due Camere, ma aveva anche il difetto di mostrarsi come manifestamente incostituzionale, coartando la libertà di voto degli elettori e, quindi, dello stesso principio di sovranità popolare, oltre a violare il principio del bicameralismo, che pone il divieto di un’elezione abbinata dei due rami del Parlamento e quello della separazione dei poteri, che richiede un’investitura distinta del potere esecutivo rispetto a quello legislativo.

D’altra parte, premesso che lo sfasamento temporale dei diversi momenti elettorali relativi all’elezione del Presidente e delle Camere è una delle tecniche più diffuse per bilanciare i rapporti tra i poteri, lo stesso concetto di contestualità che viene utilizzato è suscettibile di plurime interpretazioni: significa soltanto che le elezioni del premier e delle Camere si svolgono nello stesso giorno o, invece, che deve realizzarsi una forma di collegamento più intenso, al momento peraltro non precisato? Dubbi che potrebbero essere sciolti solo da una nuova legge elettorale che appare assolutamente necessaria e che, per rispettare i vincoli che le sarebbero imposti dalla nuova normativa costituzionale, deve impedire la formazione di maggioranze diversificate nelle due Camere. Si è osservato (da parte di M. Cartabia, v. infra) che riforma costituzionale e nuova legge elettorale deve procedere insieme e che la prima non potrà produrre effetti abrogativi prima dell’entrata in vigore dell’altra, «pena la paralisi del sistema». Si tratta di un’ulteriore criticità delle proposte in discussione e, in attesa di ulteriori sviluppi, qui ci dobbiamo fermare.

Il secondo punto della proposta che suscita fortissime perplessità attiene alla previsione di un premio di maggioranza assegnato su base nazionale che garantisca alle liste ed ai candidati collegati al Presidente del Consiglio eletto il 55% dei seggi in entrambe le Camere, senza peraltro indicare nessuna soglia minima di consenso per ottenere questo risultato, con la concreta possibilità che il premio sia assegnato da una maggioranza relativa molto bassa (anche la soglia del 40% dei voti in un turno unico, di cui si parlato in alcune occasioni, pare molto distante e sproporzionato dalla consistenza parlamentare che si conseguirebbe). Un primo rilievo riguarda l’opportunità di inserire Costituzione una previsione così specifica (di solito i testi costituzionali o tacciono sui sistemi elettorali o si limitano ad indicare dei principi generali da seguire, come l’indicazione di una formula genericamente proporzionale), in contrasto anche con le indicazioni della Commissione di Venezia, che ha raccomandato più volte di limitarsi inserire nei testi costituzionali solo i principi fondamentali del sistema elettorale, al fine di garantirne la necessaria flessibilità e precludere la possibilità di successivi sviluppi. Una critica severa va rivolta invece alla previsione con la quale si stabilisce l’assegnazione di un premio di maggioranza molto elevato, predeterminato in misura fissa, senza nessuna indicazione relativa alle modalità di votazione (turno unico? doppio turno?) e, soprattutto senza prevedere una soglia minima di voti da conseguire per beneficiare del premio. Una norma così congegnata appare ictu oculi manifestamente incostituzionale per violazione di una serie di principi fondamentali, quali quelli ricavabili dagli art. 1 (sovranità popolare), 3 e 48 (eguaglianza del voto), 67 (rappresentanza politica) della Costituzione; principi che la Corte costituzionale ha già utilizzato in occasione delle sentenze n. 1/2014 e n. 35/2015. Questo vulnus che è stato evidenziato in più di una delle audizioni svolte dinanzi alla 1° Commissione del Senato (v., per tutte quella di Marta Cartabia del 28 novembre 2023), con la considerazione che, trattandosi di principi supremi, gli stessi costituiscono un limite invalicabile per lo stesso legislatore costituzionale. Una forzatura su questo punto potrebbe quindi aprire uno scontro istituzionale che sarebbe preferibile evitare, con il Giudice delle leggi posto di fronte all’alternativa tra fare un passo indietro rispetto ai propri precedenti, abdicando così alla propria funzione di garanzia, o contrapporsi al volere della maggioranza (eventualmente confermato dal referendum), con tutti i rischi che ne potrebbero conseguire in termini di legittimazione.

Riguardo poi al procedimento di formazione del Governo articolato in due fasi distinte, limitare il primo passaggio ad un mero conferimento di incarico (per il Capo dello Stato si tratta di un atto dovuto) al Presidente del Consiglio pare una contraddizione con l’avvenuta elezione diretta; d’altra parte l’art. 94.3 Cost. riformato subordinerebbe l’entrata in carica dell’esecutivo al conseguimento della fiducia parlamentare (per la quale non viene indicata una soglia: anche qui in maniera poco comprensibile, tenuto conto della garanzia della maggioranza assoluta conseguente alla formula elettorale). Va rilevato come si tratti di una previsione spuria rispetto al modello teorico del neoparlamentarismo, per il quale è sufficiente l’elezione del premier e la scelta dei ministri da questi effettuata e simile, invece, a quanto era stato previsto dal sistema israeliano sommariamente descritto poco sopra.

In effetti non appare del tutto chiara la ratio di questa regola, che segue una logica opposta rispetto a quella dominante dell’investitura diretta del premier, rendendo possibili trattative politiche per l’attribuzione dei dicasteri e la spartizione del potere (non per la definizione del programma che, per ragioni di coerenza sistemica, dovrebbe essere presentato agli elettori); in un contesto che si prevede di coalizione, si tratta di un fattore condizionante dell’azione del Presidente del Consiglio, potenzialmente generatore di conflitti e, quindi, di instabilità, tenuto anche conto che è previsto un secondo passaggio parlamentare ove nel primo non si sia ottenuta la fiducia. Il surplus di legittimazione politica conferito dall’elezione diretta e la sanzione prevista dalla medesima norma in caso di mancata instaurazione del rapporto fiduciario (scioglimento immediato e automatico delle Camere) non costituiscono una garanzia assoluta per un esito comunque positivo di questo passaggio; anche se i rischi paiono limitati, la farraginosità di questa procedura non la esime da un giudizio decisamente negativo.

Un’ulteriore particolarità di questa proposta, che la distacca dal modello di forma di governo neoparlamentare è la mancata previsione, almeno in maniera esplicita, della regola del simul stabunt simul cadent, né a vantaggio del premier, né per decisione parlamentare; al contrario, viene introdotta una deroga ad essa anche in corso di legislatura. La possibilità che in caso di dimissioni del Presidente del Consiglio, il Capo dello Stato possa conferire un ulteriore incarico allo stesso soggetto dimissionario o ad altro parlamentare candidato «in collegamento con il Presidente eletto», fermo restando per quest’ultimo l’obbligo di attuare gli indirizzi programmatici stabiliti al momento della concessione della fiducia al Governo in avvio di legislatura, costituisce una previsione di non facile lettura, anche perché inedita nel panorama offerto dalla comparazione (in alcuni sistemi presidenziali è prevista l’elezione contestuale del presidente e del vice presidente, ma si tratta di un accorgimento necessario dettato dalla durata fissa dei mandati elettorali, mentre nelle altre forme di governo resta sempre la possibilità dello scioglimento anticipato delle camere).

Pur nel rigido perimetro che viene tracciato, si tratta di un elemento di flessibilità che contraddice al principio di investitura che si vuole imporre in generale, consentendo l’apertura di una seconda fase politica nella quale tornano ad essere centrali le mediazioni tra i gruppi parlamentari di maggioranza e dei rapporti di forza che vengono a determinarsi a legislatura inoltrata, a fronte anche di eventuali perdite di consenso da parte del Presidente eletto, logorato dall’attività di governo ed insidiato dai suoi alleati. Da una mera interpretazione letterale di quanto scritto si ricava che gli unici limiti imposti riguarderebbero la figura del nuovo premier (che non potrebbe avere un’estrazione politica esterna rispetto all’area della maggioranza elettorale e tanto meno potrebbe essere una personalità esterna al Parlamento), non anche dell’eventuale nuova maggioranza a suo sostegno che potrebbe almeno in parte essere modificata, sia con la sostituzione di alcuni parlamentari che con l’integrazione da parte di altre forze politiche, con buona pace del trasformismo e del transfughismo che si vorrebbe contrastare. La presenza di questo doppio circuito consente un’applicazione ambigua delle nuove regole proposte e solo la prassi determinata dalle convenzioni che il sistema politico sarà in grado di sviluppare potrebbe essere in grado di svelare se una delle due anime prenderà il sopravvento sull’altra o se tra le stesse si stabilirà una convivenza, alternandosi tra loro cicli politici diversi. Non si può negare, tuttavia, che consentire questo passaggio di consegne contraddice lo spirito della riforma: il deputato o senatore subentrante non è stato certo scelto dal popolo per guidare il governo, così come il mancato ricorso a questa possibilità farebbe riemergere interamente la logica del simul stabunt simul cadent.

Quello italiano resta un sistema di multipartitismo ben poco temperato (per la sua multipolarità frammentata, per i rapporti conflittuali tra forze politiche omogenee e comunque tra loro alleate, per la fluidità dei consensi elettorali che modificano costantemente il quadro politico, per le difficoltà di far emergere leadership stabili: fattori sui quali, come abbiamo cercato di spiegare potrebbe incidere solo una legge elettorale ben congegnata con formula proporzionale selettivo, in collegi almeno in parte uninominali ed una consistente soglia di sbarramento a livello nazionale). Se è vero che i protagonisti di questo sistema si distinguono per la propensione ad applicare le regole esistenti per ottenere il massimo dei vantaggi nell’immediato e per il proprio particolare tornaconto, salvo improbabili conversioni pare difficile che la scorciatoia dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio possa incidere in maniera consistente su atteggiamenti di lungo periodo ormai endemici e ben radicati.

4.2 Le ricadute sull’assetto costituzionale dei poteri: gli organi di garanzia

I tre progetti di riforma su cui ci siamo soffermati presentano tra loro diversità piuttosto rilevanti: quello che propone l’elezione del «sindaco d’Italia» è quello che più si avvicina alla forma di governo neoparlamentare; quello definibile come premierato non elettivo resta più vicino al modello parlamentare; quello presentato dal Governo, infine, si colloca in una posizione intermedia ibridando elementi che lo rendono confuso.

Emerge, tuttavia (soprattutto nella prima e nella terza proposta), un approccio comune, volto ad esaltare la figura ed il ruolo del Primo ministro, che in virtù dell’elezione diretta si trasformerebbe in un vero e proprio dominus delle istituzioni repubblicane. Per quanto si proponga di modificare un numero limitato di articoli della Costituzione (solo quattro tanto in quello governativo, che in quello di cui è primo firmatario il sen. Renzi), la riforma messa in cantiere non può definirsi minimale (nonostante i messaggi rassicuranti che vengono lanciati: cfr. F.S. Marini, Il premierato spiegato agli scettici, Libero, 1/12/2023, ove si legge che si intende agire «in continuità con il sistema parlamentare e di favorire un intervento minimale e sintonico alla nostra tradizione costituzionale»), bensì radicale, per gli effetti a cascata che da essa deriverebbero direttamente sull’equilibrio complessivo dei poteri attualmente esistente e sui rapporti con gli altri organi costituzionali di vertice: il Parlamento e il Presidente della Repubblica. Come in un sistema di vasi comunicanti, se da una parte sale il livello, dall’altra, inevitabilmente, il livello scende.

La scelta di procedere ad un’elezione diretta del primo ministro, anziché del Presidente della Repubblica, ipotesi dalla quale si era preso le mosse, è stata giustificata dall’esigenza di salvaguardare i poteri del Capo dello Stato per come sono attualmente definiti e, soprattutto quel ruolo di garante della costituzione esercitato con continuità ed efficacia nell’intera esperienza repubblicana, diversamente dalla prassi di altri sistemi parlamentari più stabili del nostro. Si tratta di un’excusatio non petita, coperta da un velo di ipocrisia, in quanto non è vero affatto che la soluzione del premierato sarebbe meno impattante sulla posizione arbitrale rivestita dal Presidente della Repubblica, laddove il passaggio ad una forma di governo presidenziale o semipresidenziale, lo trasformerebbero in un organo di governo, mutandone completamente la natura.

Se però guardiamo ai contenuti delle riforme in cantiere ed agli effetti che ragionevolmente sembrano in grado di determinare, va osservato che il Presidente della Repubblica verrebbe a perdere quei poteri di intermediazione politica di cui oggi dispone (che in dottrina sono qualificati come atti quanto meno duumvirali, per i quali il concorso della volontà del Presidente non può mai fare difetto) e che beneficiano di quei margini di flessibilità che sono risultati utili per affrontare situazioni di crisi, talora non previste e di non facile superamento; quello di soluzione delle crisi di governo e di nomina del Presidente del consiglio e, su proposta di questi, dei Ministri, sarebbe assorbito dall’investitura popolare del premier; anche quello di scioglimento anticipato delle Camere, si trasformerebbe in una funzione notarile, con una mera ratifica della decisione manifestata dal Presidente del consiglio con le sue dimissioni o dell’approvazione di una mozione di sfiducia parlamentare (nel caso dell’adozione della regola del simul) e sarebbe drasticamente ridotto anche se la disciplina dell’istituto diventasse quella del d.d.l. governativo.

Va considerato che i poteri di intermediazione politica sono stati quelli sulla cui base il Presidente della Repubblica italiana ha costruito la sua forte legittimazione (diversamente da quanto si è verificato in altre repubbliche parlamentari caratterizzate da una maggiore stabilità come quella tedesca, mentre non si possono fare confronti con le monarchie parlamentari), tale da supportare anche l'autonomia di decisionale riguardo all'esercizio di altri poteri, in particolare quelli di garanzia in senso proprio (come la nomina dei giudici costituzionali) o di controllo (ad esempio la promulgazione delle leggi e l'emanazione dei decreti). Un mutamento radicale della forma di governo richiede sempre la stipula di nuove convenzioni tra i titolari delle massime cariche pubbliche e la formazione di nuove prassi che, al momento, non sono prevedibili; è comunque ipotizzabile che in un sistema nel quale uno dei due organi monocratici di vertice (in questo caso il Presidente del consiglio) ricopre la sua carica in forza di una elezione popolare ed è quindi investito di una legittimazione politica molto più forte, l’altro venga ad assumere una posizione decisamente più marginale, con una compromissione delle stesse funzioni di controllo e di garanzia costituzionale, che difficilmente potrebbero essere esercitate come limiti alle decisioni della maggioranza di governo. Un garante dimezzato, come il visconte calviniano.

Ciò considerato, le valutazioni in base alle quali si è affermato che la soluzione premierale è quella meno altera l’impianto costituzionale esistente non può essere condivisa, essendo vero il contrario, per lo svuotamento che si determinerebbe in ordine alle attribuzioni presidenziali e la conseguente marginalizzazione del ruolo del Capo dello Stato, indipendentemente dalla maggioranza parlamentare che lo ha eletto, restando diversa la durata delle rispettive cariche.

A queste considerazioni si deve aggiungere che per effetto del conferimento del 55% dei seggi nelle due Camere alle liste che sostengono il Presidente del Consiglio eletto, dopo il terzo scrutinio queste ultime disporrebbero di una maggioranza più che assoluta per l’elezione del Capo dello Stato, che potrebbe essere realisticamente decisa sulla base di una scelta di parte, senza un coinvolgimento delle altre forze politiche, come nella prassi del nostro parlamentarismo. Un difetto di condivisione che muterebbe decisamente il ruolo del Capo dello Stato, depotenziandone ulteriormente le funzioni di garanzia costituzionale, sia che si tratti di controllare le attività del Governo, che di presiedere il Consiglio superiore della magistratura, che di scegliere i cinque giudici costituzionali di nomina presidenziale.

Peraltro, la maggioranza assoluta dei voti nelle due Camere è un requisito sufficiente per approvare qualsiasi legge di revisione costituzionale, salvo, ovviamente la conferma referendaria ove richiesta dalle minoranze, ciò che renderebbe l’intera Costituzione più facilmente disponibile per una sola parte politica, con un indebolimento significativo dello stesso principio supremo della rigidità costituzionale.

Si tratta di un problema di carattere generale che era già stato sollevato in passato; il passaggio ad un sistema improntato ad una logica maggioritaria e, a maggior ragione, quando questa risulta drogata dal conferimento di un premio che altera i reali rapporti di forza presenti a livello sociale e politico, richiederebbe una revisione dei quorum attualmente previsti dalla Costituzione, con un loro innalzamento dalla maggioranza assoluta a quella qualificata, possibilmente quella dei due terzi, secondo quanto sarebbe quindi necessario innanzi tutto per l’art. 83, che per l’art. 138 Cost. (e forse anche per l’art. 81 dopo la novella del 2012).

La stessa maggioranza dei tre quinti stabilita per l’elezione dei giudici costituzionali (art. 3 cost. n. 2/1967) e dei membri laici del C.S.M. (in questo caso dopo il terzo scrutinio dei votanti: art. 22 l. n. 195/1958), pari a 360 voti del Parlamento in seduta comune non risulterebbe di molto superiore al numero dei seggi cui la maggioranza elettorale avrebbe diritto (330), rendendo più facile la «cattura» di questi organi, la cui indipendenza è essenziale per la tenuta della stessa democrazia costituzionale, da parte della maggioranza di governo, secondo quanto si è peraltro già realizzato in altre esperienze, che sono state poi definite come democrazie illiberali (basti qui citare Ungheria e Polonia). Riguardo alla Corte costituzionale questa possibilità di allineamento con la parte politica maggioritaria sarebbe favorita se all’elezione parlamentare di giudici affini si sommassero le nomine da parte di un Presidente della Repubblica a sua volta allineato con la maggioranza. L’unico antidoto sarebbe rappresentato dalla diversa durata delle cariche e dall’eventualità di alternanze politiche ravvicinate, ma in ogni caso questa eventualità determinerebbe un ribaltamento della legittimazione su cui si è finora appoggiata la nostra giustizia costituzionale, avvicinandola al modello più politico degli Stati Uniti.

D’altra parte, la sicurezza della maggioranza assoluta conduce ad un annullamento del valore di garantistico delle riserve di legge e consente di esercitare un più rigido controllo sui mezzi di comunicazione di massa e sulle stesse autorità amministrative indipendenti. Un problema si porrebbe anche con riguardo agli stessi regolamenti parlamentari, per i quali il quorum stabilito dall’art. 64.1 Cost. si rivelerebbe inadeguato, richiedendosi, anche per questa fonte, l’approvazione con una maggioranza qualificata, per non svilirne eccessivamente il loro valore super partes.

La questione è di grande rilievo, non solo teorico e conferma come una riforma che vada a toccare uno dei punti nodali dell’assetto costituzionale come quello dell’investitura del Governo e del suo vertice con le modalità ora proposta sia idonea a produrre effetti a raggiera sull’intero impianto costituzionale, facendo emergere l’esigenza di intervenire anche su altre previsioni della Costituzione, per evitare che si realizzi uno sbilanciamento eccessivo in favore di un solo organo costituzionale e, soprattutto di una sola parte politica.

4.3 I riflessi sul Parlamento e sull’esercizio della funzione legislativa

Rimane la questione del rapporto con il Parlamento, rispetto al quale tutte le proposte di riforma tacciono, facendo intendere un mantenimento dello status quo. Possiamo dedicare all’argomento solo dei brevi cenni, ma va subito rilevato, anche nell’ipotesi preconizzata dal progetto governativo, come le Camere subirebbero una compressione della loro funzione di indirizzo e controllo politico, riducendosi in conferimento della fiducia al Governo un atto pressoché dovuto (non conferire la fiducia equivarrebbe ad un suicidio politico), rispetto ad un programma già definito, che mette in discussione la stessa natura parlamentare del sistema. La stessa approvazione di una mozione di sfiducia o il rigetto di una questione di fiducia potrebbero avere un valore esiziale, per i margini assai limitati che sono previsti per la continuazione della legislatura.

Tutto questo tenendo conto di una situazione di partenza nella quale il Parlamento si trova già in una situazione di debolezza istituzionale e politica (quella «subalternità parlamentare» evocata da M. Fiorillo, cit., 87), con un’attività legislativa dominata dall'alluvione dei decreti-legge, da un uso sistematico della questione di fiducia da parte del Governo per fare approvare le proprie proposte e dalla formulazione di pareri su altri atti normativi, primari e secondari del governo, in assenza di uno statuto dell'opposizione, e con limitatissime possibilità di incidere sui processi decisionali che si sviluppano a livello sovranazionale.

Si tratta di un disinteresse sorprendente, se si considera che nei sistemi che aspirano a funzionare secondo dinamiche di tipo maggioritario viene riconosciuto e valorizzato il ruolo dell’opposizione, con la definizione di appositi statuti integrati anche da garanzie di natura giurisdizionale, quali i ricorsi preventivi o successivi di costituzionalità consentiti alle minoranze o, ancora (si pensi alla Germania) consentendo l’accesso al tribunale costituzionale da parte dei gruppi parlamentari, certamente non surrogabili con interpretazioni estensive dei requisiti soggettivi previsti in Italia per sollevare un conflitto tra poterei dello Stato.

Siamo in presenza di patologie di lunga durata che hanno attraversato le diverse stagioni politiche indipendentemente dalla composizione delle maggioranze (è sufficiente menzionare come già A. Predieri, il Governo colegislatore, in G. Cazzola - F. Predieri - A. Priulla, Il decreto-legge fra Governo e Parlamento, Milano, 1975, p. XV, mettesse in evidenza questo fenomeno degenerativo parlando di disegni di legge motorizzati), sulle quali sono innumerevoli le critiche avanzate in dottrina (mi preme qui ricordare il numero speciale di questa Rivista – fasc. n. 3/2016, a mia cura su “Governo vs. Parlamento? Evoluzioni del potere di normazione al tempo della crisi economica”; ma sulle dinamiche del nostro sistema delle fonti è ora indispensabile la lettura di A. Cardone, Sistema delle fonti e forma di governo. La produzione normativa della Repubblica tra modello costituzionale, trasformazione e riforme, Bologna, 2023), ma è anche vero che in quest’ultimo anno e mezzo sono stati battuti tutti i record precedenti, sia per numero di decreti-legge approvati dal Governo che per presentazioni di questioni di fiducia. La media dei decreti legge approvati dal Governo Meloni sfiora i 4 provvedimenti al mese, il dato statistico più alto dei governi italiani e nel 2023, ci risultano approvate 38 leggi di conversione; con riguardo alle questioni di fiducia dai siti web delle Camere si evince che dal 20 dicembre 2022 al 30 novembre 2023 la questione di fiducia è stata posta 26 volte dinanzi all’Assemblea di Montecitorio – in 25 casi per leggi di conversione, più di due volte al mese -, e 16 volte in Senato – 15 per leggi di conversione. Numeri stratosferici se si pensa che comunque l’esecutivo in carica ha ricevuto la fiducia della maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento.

In proposito ci sia consentita una provocazione; per eliminare alla radice il problema di cui ci stiamo occupando l’unica strada percorribile sarebbe quella dell’abrogazione tout court dell’art. 77 Cost.; d’altra parte, quella della decretazione d’urgenza è una fonte prevista in un numero limitatissimo di ordinamenti costituzionali contemporanei e, se non si considerano alcuni presidenzialismi latino-americani, è stata di fatto utilizzata solo in Spagna nel periodo più recente (soprattutto per far fronte alla crisi dei debiti sovrani ed in periodo di pandemia), anche se con una frequenza ed un’intensità ben più ridotta rispetto a quella italiana e con la compensazione del disuso della delegazione legislativa (per alcuni dati recenti v. Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati, La legislazione tra Stato, regioni e Unione europea. Rapporto 2022-2023, pp. 161 ss.); una differenza dii situazioni solo in parte riconducibile alla diversità della disciplina costituzionale dettata dall’art. 86 Cost. spagnola, più limitante rispetto al nostro art. 77 e, soprattutto all’interpretazione che si è affermata. (per un’analisi più accurata si rinvia a R. Tarchi-D. Fiumicelli,    I poteri normativi di rango primario del Governo nella giurisprudenza costituzionale italiana e spagnola, in questa Rivista, fasc. n. 3/2016).

Anche a questo proposito l’analisi comparata mostra l’eccezionalità italiana rispetto a tutte le altre democrazie consolidate, allo stesso modo di quanto si verifica per il ricorso alla questione di fiducia. In nessun altro sistema costituzionale paragonabile con il nostro si è consolidata una prassi volta a strumentalizzare l’istituto distorcendone le finalità originarie, con una sua palingenesi da strumento di carattere straordinario a metodo quotidiano di decisione. Per fare solo due esempi, nella Repubblica federale tedesca dal 1949 ad oggi il Bundestag è stato chiamato a pronunciarsi su una questione di fiducia solo cinque volte e sempre su questioni riconducibili all’indirizzo politico generale del governo. Una regola che è stata formalizzata dall’art. 112 Cost. spagnola, che vincola il Presidente del Governo a presentare al Congreso questioni di fiducia riferite esclusivamente al suo programma o su una dichiarazione di politica generale. Una previsione, rigorosamente rispettata, che sarebbe opportuna tenere in considerazione per eventuali riforme costituzionali sul punto.

Voglio anche aggiungere che la situazione italiana attuale è ben peggiore di quella che si riscontra nella Va Repubblica; il tanto criticato art. 49.4 Cost. francese, a seguito della revisione operata nel 2008, ha ridotto fortemente le possibilità per il Primo ministro di impegnare la responsabilità del Governo di fronte all’Assemblea nazionale, che può farlo solo per i progetti di legge finanziaria, in materia di previdenza sociale e per un’altra proposta di legge a sessione e neppure l’esecutivo attualmente in carica, per quanto di minoranza, sta abusando di questa possibilità.

Le reazioni in Italia sembrano invece andare in senso diverso, accettando la situazione attuale ed adattando ad essa la disciplina costituzionale; abbiamo già ricordato come nella proposta Ceccanti la questione di fiducia troverebbe una sua disciplina esplicita più o meno nei termini attuali, mentre per quanto riguarda la decretazione d’urgenza sono stati depositati in questa legislatura due disegni legge di revisione costituzionale (A.S. nn. 574/2023 e 892/2023) che, prendendo atto delle difficoltà delle Camere di approvare i decreti governativi nei tempi previsti, prevedono un allungamento del termine per la conversione, che passerebbe da 60 a 90 giorni, prendendo una direzione esattamente opposta a quella da noi suggerita.

Il venir meno del potere del Governo di adottare provvedimenti provvisori con forza di legge dovrebbe, ovviamente, essere compensato da una riforma del procedimento legislativo ordinario in grado di consentire iter parlamentari di durata ragionevole e comunque entro dei termini prestabiliti, in modo da consentire che il «governo legiferi attraverso il Parlamento e non come adesso, fuori dal o nonostante il Parlamento».

5. Le riforme possibili

Questo nostro intervento si è focalizzato sull’analisi delle proposte di revisione costituzionale pendenti e preso atto della loro incongruenza e inadeguatezza ad affrontare i problemi cronici della nostra forma di governo, ha seguito un approccio destruens; se si parte dal presupposto che alcuni interventi correttivi sono possibili, diventa necessario formulare qualche ipotesi ricostruttiva, che qui può essere riassunta in maniera estremamente sintetica.

Riteniamo che sia sbagliato e pericoloso abbandonare la forma di governo parlamentare che fa parte della nostra storia politica e costituzionale e sia più utile ragionare, invece, sulle ipotesi di una sua possibile razionalizzazione, riprendendo quelle che erano le indicazioni originarie dell’o.d.g. Perassi, poi disattese dalla stessa Assemblea costituente in ragione del contesto storico e internazionale che si era determinato a partire dal 1947 (in quello che M. Fiorillo, cit., 66, definisce il secondo tempo dell’Assemblea costituente), adottando quei «dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». I presupposti di questa scelta originaria non sono venuti meno ed il sistema parlamentare resta ancora la forma di governo più duttile, in grado di affrontare la crisi di rappresentanza e garantire, a certe condizioni, anche il requisito della stabilità dell’azione di governo, operazioni certo non facili per le fratture territoriali, economiche e sociali che attraversano l’Italia in questo momento storico.

Oltre ad intervenire sui rami più bassi (legge elettorale, regolamenti parlamentari, legge sui partiti), la possibilità di revisioni costituzionali mirate, vorrei dire chirurgiche e ricostituenti, non è certo un tabù ed è una strada sicuramente percorribile, muovendo dal presupposto non rinunciabile della necessità di un’ampia convergenza dei diversi gruppi parlamentari, sia di maggioranza che di opposizione; a questo proposito l’analisi comparata offre istituti e strumenti ormai ampiamente noti a tutti, che possono essere presi in considerazione e valutati per un loro eventuale innesto nel nostro sistema costituzionale: dall’elezione parlamentare del Presidente del consiglio, alla mozione di sfiducia costruttiva, alla disciplina più articolata dello scioglimento anticipato delle Camere, alla revisione del procedimento legislativo ordinario con un rafforzamento del Governo in Parlamento, allo stesso bicameralismo, per ricordare solo quelli che vengono richiamati da più tempo e sui quali sarebbe probabilmente più facile raggiungere un ampio consenso.

Dovendosi ribadire che l’ingegneria costituzionale non fa miracoli (l’efficienza e la consolidata stabilità del sistema tedesco è conseguenza del combinato disposto della razionalizzazione del sistema parlamentare, di una legge elettorale funzionale, di un sistema di partiti rigidamente disciplinato da una legge) e che in Italia, oggi, sarebbe necessaria quella «palingenesi culturale della società e dello Stato» evocata da Antonio Ruggeri (Riforme costituzionali: quali e perché, in questa Rivista, 2023, p. 132 ss. - un po' di utopia ha un effetto quanto meno consolatorio), l’alternativa che si pone è quella tra un ammodernamento delle istituzioni repubblicane, ovvero di un loro sovvertimento.

Dalla comparazione con le altre forme di governo che accolgono il principio dell’investitura popolare del vertice del potere esecutivo, emerge come il premierato elettivo sia anche quella in grado di determinare la maggiore concentrazione dei poteri. Il sistema presidenziale nella sua versione statunitense (salvo che non si voglia guardare ai presidenzialismi latino-americani, per i quali le considerazioni sarebbero ben altre, ma non mi pare questo un orizzonte auspicabile) si regge su un sistema complesso di checks and balances, costruito sul principio della divisione/condivisione dei poteri, sia in senso verticale che orizzontale, semplificato solo dal bipartitismo del sistema politico; peraltro quello che è considerato da sempre come un modello di democrazia decidente deve fare da tempo i conti con il fenomeno del divided government, che si manifesta ormai come un regolarità del sistema e che obbliga le istituzioni statunitensi ad estenuanti trattative in ordine alle decisioni di maggior rilievo. La sua introduzione in Italia, oltre a richiedere un riequilibro forte tra poteri centrali e sistema delle autonomie ed un rafforzamento dei poteri di garanzia ad iniziare da quello giudiziario (per i quali non ci pare sussistano le condizioni), potrebbe non risultare risolutivo per garantire l’auspicata stabilità.

Soltanto la forma di governo semipresidenziale, quando si manifesta nella sua versione iperpresidenziale (e, quindi solo in Francia in alcune fasi, perché in tutte le altre esperienze riconducibili al modello le dinamiche sono di tipo parlamentare) ha prodotto una concentrazione dei poteri paragonabile a quella del premierato, con la differenza che in questi sistemi le elezioni parlamentari non sono contestuali con quelle presidenziali, ciò che lascia un margine a dinamiche meno accentrate di funzionamento, compresa quella della c.d. coabitazione, per tacere della possibilità costituire governi di minoranza, come sta avvenendo dopo la doppia elezione del 2022.

In definitiva, il premierato elettivo, oltre a caratterizzarsi per una maggiore rigidità, si ispira ad una visione essenzialmente bonapartista (v. anche il rilievo di E. Cheli, nell’intervista a La stampa del 4/11/2023), per la quale è necessario realizzare una concentrazione ed una verticalizzazione del potere, che si concretizza nella scelta di un capo piuttosto che del governo del Paese, cui deve essere rimesso un potere di comando il più possibile sottratto a contrappesi e controlli. Si tratta di un corollario implicito difetto di cultura pluralista che caratterizza più di una formazione politica oggi in Italia, con una difficoltà ad accettare le differenze, in nome di valori espressi anche semanticamente (patria, nazione, italiani) che presuppongono un’unità aprioristica su base puramente ideologica, se non, in certi casi su base etnica. Come ha sostenuto ancora Enzo Cheli (nella recente audizione di fronte alla 1° Commissione del Senato), rispetto alle altre forme di governo presidenziali, viene ad essere sacrificato il principio della divisione dei poteri, sia perché l’elezione parlamentare è strettamente legata al vertice del Governo, sia per la disciplina del potere di scioglimento, ribaltando il principio supremo della nostra democrazia che colloca il Parlamento sopra il Governo ed esclude che il potere legislativo possa dipendere dal potere esecutivo, al punto da intaccare le basi della democrazia rappresentativa definita nell’art. 1 Cost. e da incidere sulla «forma repubblicana» che è sottratta alla stessa possibilità di una revisione costituzionale.

Per parafrasare ancora una volta Leopoldo Elia, è tornata ad aleggiare quell’idea di «premierato assoluto» che la destra italiana ha coltivato per anni e che nel 2005 era un abito cucito su misura per Silvio Berlusconi e che oggi assume le sembianze dell’attuale Presidente del Consiglio.

Si tratta di una deriva pericolosa: l'Italia è oggi un paese frammentato e diviso dal punto di vista sociale, geografico, economico e politico e questa frammentazione si riproduce sul sistema dei partiti, sovente incapaci di esprimere quella funzione rappresentativa che costituisce la loro ragion d’essere. Affidare tutto alla scelta del capo polarizzando i cittadini su due fronti avversi finirebbe per alimentare ulteriormente questa spaccatura e rendere ancora più difficoltosa la ricerca di una coesione sociale indispensabile per garantire l'unità del Paese e la possibilità di adottare scelte il più possibile condivise nell’interesse dell’intera collettività.

Postilla

Per chiudere: ai fini della valutazione delle forme di governo e del loro rendimento in concreto credo sia ancora valida e si possa riproporre anche in questa sede la riflessione dei classici del pensiero antico (da Aristotele a Polibio), per i quali, dall’applicazione del medesimo principio ispiratore (che oggi potremmo definire modello di riferimento) potevano discendere e si erano storicamente manifestate modalità di funzionamento diverse, talora «rette», talora «deviate».

Come nell’antichità anche oggi le forme di governo non funzionano bene o male di per sé, non potendosi affermare in astratto che un modello è superiore ad un altro, ma in quanto esistono forze sociali e politiche che animano e sostengono il sistema, mediante la loro partecipazione continua ai processi decisionali e non limitata solo al giorno del voto per la scelta dei governanti.

L’idea schumpeteriana di democrazia formale, la cui essenza riposa nel principio per cui il cittadino esprime la sua sovranità solo nel momento delle elezioni, legata a quella di una supposta superiorità del principio di maggioranza che opera nella direzione di accentuare le fratture piuttosto che di alimentare la coesione sociale, non solo è antistorica, ma anche molto pericolosa, come dimostrano gli esempi già ricordati di retrocessione verso forme illiberali di democrazia.

Credo sia interesse di tutti evitare soluzioni istituzionali che possano seriamente fa correre questo rischio alla nostra Repubblica parlamentare, ricordando che l’essenza del costituzionalismo è quella di porre dei limiti al potere piuttosto che di consentire la possibilità di abusarne.


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